Scribacchiando per me

Scribacchiando per me
il blog di un pietramelarese

sabato 31 dicembre 2016

UNA VITA IN CRESCENDO

Caro zio,
come saprai, non sono solito da queste pagine tessere gli elogi di qualcuno, tantomeno se costui ha fatto parte per tanto tempo del mio mondo e della mia famiglia, vorrei solo riprendere alcuni tratti salienti della tua esistenza terrena, ovviamente mediati dal mio modo di vedere ed interpretare la realtà.
In quella infausta mattina invernale di dieci anni fa fui svegliato dal telefono, stavi male e qualcuno pensò di chiamarmi, era buio, le quattro circa; circa un’ora dopo si concludeva la tua esistenza ed io ero lì, ci salutammo appena con un cenno … ed andasti via.
Sai, in tutti questi anni sei stato molto presente in me, e non di rado ti ho rivisto vicino chiudendo gli occhi, assopito. Erano scene quelle evidentemente dettate dalla memoria, come le ore passate insieme in campagna, con le tante cose che avevi da insegnarmi e che mi hai insegnato: l’amore per Pietramelara, insieme al culto vero e proprio che riponevi nell’agricoltura; non è un caso infatti che esse hanno contribuito non poco ad indirizzare quelle che poi sarebbero poi diventate le mie scelte professionali e di vita. Sono cose, queste, indubbiamente importantissime, ritengo però che ci sia molto di più prezioso nel messaggio di vita da te inviato a ciascuno che ha avuto la fortuna di conoscerti: la grande lezione di coraggio che hai dettato, di cui ti è grato chiunque la riconosca come tale.
Una vita in crescendo, la tua: l’infanzia e la giovinezza in paese, i primi passi nella politica locale, un amore grande e ricambiato, durato più di mezzo secolo, la breve esperienza americana, la professione, le funzioni di sindaco, l’attività imprenditoriale, ed in ognuno di questi passaggi una difficoltà diversa ed importante, da affrontare e superare; me ne parlavi frequentemente e descrivendo comunicavi gli insegnamenti che ne avevi tratto. “Nella vita, e specialmente quando si è giovane, bisogna credere in qualcosa”, una massima dettata una sera, in autostrada, non particolarmente originale, ma che non dimenticherò mai!... perché quel “qualcosa” tu l’hai inseguito ed hai combattuto per esso, fino alla fine.
Ecco… vedi: anche se la vita e la sorte sono state abbastanza generose con te, come dicevo, non sono mai mancati nella tua esistenza momenti di difficoltà estrema in cui hai dovuto imbatterti, anzi essi si sono a volte rincorsi, e appena superato un ostacolo eccone un altro ancora più arduo del precedente. Il tuo modo di reagire energico, sempre fiducioso nel futuro, la convinzione, che avevi e che comunicavi, di uscirne sempre e comunque a testa alta, hanno generato in me un’ammirazione incondizionata per il coraggio che dimostravi, insieme all’ orgoglio di esserti nipote. In quei difficili frangenti eri portato a pensare tanto positivo da preoccuparti più del da farsi dopo, a problema risolto, che del modo effettivo di uscirne: una fiducia nei propri mezzi degna di un vero leone!
A pensarci bene, a distanza di un decennio,è senza dubbio questa la più grande eredità che mi hai e ci hai lasciato, molto più dei beni materiali, che durano quanto una vita terrena, dopodiché essi si trasformano solo in vuote facezie e commedie, tipiche dei vivi.
Francesco

lunedì 26 dicembre 2016

MISERIA E NOBILTA'

“Miseria e nobiltà” è un film del 1954 diretto da Mario Mattoli, tratto dall'omonima opera teatrale (1888) di Eduardo Scarpetta, che ha come protagonista il grande Totò. E’ noto a chiunque perché trasmesso con elevatissima frequenza , specie da alcune TV locali del nostro Meridione. Ho un legame ed un ricordo particolare di questa pellicola: con la visione di essa, infatti, feci le ultime grandi risate insieme a mio padre, nel giorno di Santo Stefano di trentun’anni fa; dopo qualche giorno venne la sua fine.
Si tratta della vicenda di uno squattrinato divorziato della Napoli del 1890, Felice Sciosciammocca, che vive alla giornata facendo lo scrivano e condividendo la casa con l'amico Pasquale, di professione fotografo ambulante , e le rispettive famiglie.
Gli espedienti a cui costoro devono ricorrere per sopravvivere li costringono in una serie di esilaranti disavventure: un giorno il marchesino Eugenio Favetti, chiede a Felice e Pasquale con moglie e figlia di travestirsi e fingere di essere i suoi nobili familiari, e di presentarsi con lui a casa di Gemma, ballerina che ama, perché il padre di lei, un arricchito, vuole conoscerli per acconsentire al fidanzamento.
Ciò che ne deriva è tutto un susseguirsi di gags memorabili, rese tali dalla straordinaria comicità di Totò : il linguaggio da finti signori, la fame atavica che traspare da ogni loro comportamento, l’imprevedibile entrata in scena di personaggi secondari che complica fortemente l’intreccio, tipico della farsa portata dal teatro al grande schermo.
Ritengo però che il tratto saliente della vicenda, che attenua la grande comicità, è la morale che se ne può trarre: nella scena finale, svelati del tutto gli inganni e i raggiri ai danni dell’ingenuo padre di Gemma, Totò/Sciosciammocca, rivolto al pubblico esclama “La vera miseria è la falsa nobiltà”.
Attualissima ancor oggi, dopo ben sessantadue anni, è il paradigma di coloro che ad ogni costo, non si accettano e vogliono apparire diversi da quelli che effettivamente sono. Si tratta di figure patetiche, prive di dignità ed identità, spinte nel loro comportamento da questa società dell’immagine, che pone la “visibilità” al primo posto fra i valori. Costoro venderebbero anche la madre per una macchina nuova, o per un capo di abbigliamento da “grande firma”, e non vorrebbero mai mancare alle occasioni che contano, in cui sono inevitabilmente relegati a ruoli di gregario. Attivi nella politica di oggi, anche senza avere un credo ed un ideale, cambiano senza alcun problema lo schieramento al variare dei risultati elettorali.

sabato 17 dicembre 2016

EVVIVA L'EPIFANIA

Rieccomi a voi a parlare del Natale, o meglio, più che del Natale in se, del periodo natalizio. Come ben sanno i quattro lettori adusi a qualche fugace occhiata ai miei scritti, esso è per me vissuto come una sorta di “male necessario”. Sarà per il tempo che passa, per l’età che avanza inesorabile, se è vero che “Epifania tutte le feste porta via”: evviva l’Epifania! Esclamazione liberatoria da un clima diffuso che sa molto di più di consumismo che di etica e/o fede.
Non se ne può più di girare per strada e sentire musica natalizia diffusa dagli altoparlanti, accendere la TV che continua a propinare panettoni, pandori e spumanti, partecipare a scambi di auguri nei vari ambiti istituzionali, fare la spesa al supermercato slalommando fra le scelle di baccalà (*), non se ne può proprio più! Eppure chi mi conosce sa bene che non sono ne un musone, ne tantomeno un misantropo: amo la gente che mi vive intorno e i giorni “normali”, tuttavia questo periodo genera in me malessere e maliconia.
Non è stato sempre così: fino a qualche decennio fa vivevo questo tempo se non con gioia, almeno con grande serenità. Mi piacevano le tombolate e tutte le altre piccole cose che la tradizione ha tramandato e che sono diventate un po’ il simbolo del periodo natalizio.
L’inversione di tendenza e di pensiero in me è cominciata forse da quando sono venute a mancare alcune persone care, guarda caso proprio (e quasi sempre) in questo periodo; le riunioni di famiglia indotte dalla tradizione, da allora non hanno fatto che sottolineare tali mancanze: quella sedia vuota, quel posto a tavola rimasto senza apparecchiare, rimandavano ai giorni dell’infanzia e dell’adolescenza quando mi preparavo con ansia positiva al Natale già nel tardo autunno. Che dire? … è la vita, ch’amma ffà. La maturità e il tempo che passa hanno cicatrizzato certe ferite, anche se quelle due, tre sedie vuote, quei due, tre posti non apparecchiati continuano a indurre malinconia.
Torniamo a noi: tra Natale e Capodanno prenderò qualche giorno di ferie dal lavoro che impiegherò nelle cose che mi piacciono: stare con la mia famiglia, magari concedendomi qualche uscita, andare in campagna se il tempo meteo lo permette, ritrovare amici che ritornano in paese, ed infine riposerò dal tran tran quotidiano. Cercherò, mi sforzerò di contemperare, con l’intensificazione dell’esercizio fisico, le mangiate natalizie a cui il mio apparato digerente non è più abituato. I giorni trascorreranno, bene o male, e io conterò alla rovescia quanto manca alla fine delle Feste.

(*): nel nostro dialetto il baccalà sotto sale ed intero, prima di essere bagnato prende il nome di scella perchè la forma ricorda l'ala di uccello, N.D.R.

mercoledì 7 dicembre 2016

UN TIPICITA' DA VALORIZZARE

Nonostante la plurisecolare tradizione contadina, il nostro paese purtroppo non vanta produzioni agroalimentari tipiche, almeno nel senso stretto di questa espressione. Condizioni agronomiche difficili e l’emigrazione hanno determinato l’abbandono di alcune tradizioni; inoltre da noi gli imprenditori agricoli e le loro famiglie hanno in gran parte preferito il reddito continuativo e relativamente sicuro derivante dalla produzione di latte bovino e/o bufalino, da vendere alla stalla; pertanto, allo stato dei fatti, non si sono sviluppate produzioni legate al territorio o alla particolare sapienza tramandata oralmente dalle nostre nonne, quali formaggi, salumi, oli e vini, come è avvenuto anche in zone a pochi chilometri da noi.
Se ci guardiamo intorno, tuttavia, un prodotto tipico, o che ha le caratteristiche per diventare tale, Pietramelara ce l’ha! Si tratta della famosa e prelibata “carna saucicciara”: è un piatto semplice ma buonissimo, sconosciuto o quasi appena si varcano i confini comunali, ma arcinoto e molto frequente sulle nostre tavole invernali.
L’origine si perde nella notte dei tempi: quando si uccideva il maiale, questo veniva lasciato a frollare per una nottata, la mattina dopo doveva essere “scortellato”, cioè sezionato nei vari tagli, dopodiché ciò che non serviva per prosciutti lonze , capocolli e ventresche veniva tagliuzzato a dadini e conciato con sale, finocchietto e peperoncino piccante, inoltre qualcuno aggiungeva aglio o altri aromi (buccia di arancio, foglia di alloro, coriandolo). L’impasto così ottenuto andava insaccato nelle budella del maiale, previamente pulite, per ricavarne salsiccia da essiccare. Per vedere se la concia era andata a buon fine, se la carne era al giusto punto di salatura e piccantezza, se il tutto si era armonizzato ed avrebbe conferito il giusto sapore alla salsiccia, si procedeva all’assaggio, friggendo in padella una piccola quantità della carne così preparata e destinata alle salsicce, detta perciò “carna saucicciara”. Da questa usanza il passo ulteriore perché la nostra “saucicciara” divenisse un piatto tipico si è avuto allorquando, negli anni settanta, si diede vita alle prime “sagre al borgo”. Da semilavorato a piatto vero e proprio! …negli stand allestiti per l’evento la nostra carne divenne un must, richiesto e preferito dagli avventori, nel panino o nel piatto, e tutt’oggi la saucicciara continua ad esser la pietanza simbolo della Sagra. Da allora l’uso in cucina si è diffuso a tal punto che oggi tutte le macellerie del luogo non mancano, nel lungo periodo che va da ottobre fino alla primavera inoltrata, di offrire alla clientela la carne saucicciara, tagliata e conciata, già bella e pronta da essere messa in padella.
Ritengo che l’enogastronomia locale si possa fregiare a buon diritto di questa preparazione così singolare e legata alla tradizione; il passo ulteriore dovrebbe essere quello della valorizzazione. Prima di tutto si dovrebbe proporre un disciplinare che regoli la materia prima, i tagli, le razze suine, quindi la tecnica di preparazione, la concia, ed un marchio collettivo in grado di renderla riconoscibile al consumatore. Suggerirei due tipologie, una più nobile e costosa, con il taglio della carne “a punta di coltello”, a mano quindi, ottenendo in tal modo un prodotto molto più bello da vedersi, sia cotto che crudo, ma soprattutto molto più buono in quanto assolutamente libero da nervi, connettivo ed altre imperfezioni. La seconda tipologia, molto più economica e meno pregiata potrebbe riferirsi al taglio della carne a macchina.
Attivare la lunga procedura per il riconoscimento di tale tipicità, con l’approvazione del disciplinare e del marchio, spetta agli operatori economici, allevatori e trasformatori, secondo quanto previsto dalla normativa europea di settore; la cosa non è facile in se, perché si scontra prima di tutto con la scarsa propensione a sostenere finanziariamente l’iter della procedura, con la sfiducia e la diffidenza tipica di tali iniziative da parte di chi dovrebbe avvantaggiarsene in primo luogo. Ma non è detto che in un domani vicino o lontano non possa succedere.

venerdì 2 dicembre 2016

CASERTANO: ATTENTI ALLE TRUFFE

Da qualche tempo e sempre più frequentemente capita che in ristoranti, bistrot, agriturismi o esercizi affini vengano proposti agli avventori piatti e pietanze a base di carne suina di “maialino casertano”. Va detto al proposito che prima di tutto che vi è una grossa imprecisione nella dizione pluriabusata “maialino casertano”, che maialino non è in quanto si tratta di un animale di una certa taglia e i cui soggetti giungono generalmente al macello ben oltre la stazza di cento chilogrammi, e che sarebbe molto più corretto, anche non volendo usare l’acronimo scientifico Tga (tipo genetico autoctono), parlare di “suino di razza casertana”, denominato nel territorio di origine anche Pelatella, Napoletana e Teanese. E’questo un animale dalle caratteristiche molto particolari e diverse dai soliti suini alla cui immagine siamo abituati: di taglia medio-piccola, con pelle nera o grigio-ardesia,setole rade e sottili, talvolta raggruppate a formare ciuffetti specialmente sul collo, sulla testa e all’estremità della coda.
Ma la cosa veramente curiosa è questa: siccome dalle nostre parti è sempre più rara la proposta di carni suine di origine“dichiaratamente diversa” dalla casertana, vuoi vedere che le altre razze sono in corso di estinzione o, addirittura, estinte?
Bando alle facezie e alle battute, ritengo che l’interesse mostrato da ristoratori e consumatori nei confronti della razza suina che ha preso origine proprio dalle nostre parti, sia ormai un fatto consolidato. E quando qualcosa diventa di moda è ovvio che la si corra ad imitare; attenzione quindi alle eventuali truffe: non tutto ciò che viene spacciato per “casertano” lo è in realtà!
Al contrario, la sensazione che ho colto nel guardami intorno è che le aziende che si dedicano a tale di tipo di allevamento, dopo un iniziale boom risalente a circa un decennio fa, vanno sempre più contraendosi nel numero e, di conseguenza, anche le produzioni divengono di giorno in giorno sempre più esigue.Il problema maggiore consiste nella limitata redditività di tale tipo di allevamento, perché i costi di produzione sensibilmente superiori alle altre razze non vengono remunerati adeguatamente da un prezzo maggiore rispetto a quello degli altri suini commerciali; ne deriva una scarsezza di soggetti da immettere sul mercato delle carni fresche o da trasformare in pregiati salumi. Il sogno di qualche allevatore di trovar fortuna allevando il “casertano” si è infranto quindi contro una dura realtà. Certo, in talune condizioni particolari, quali ad esempio estesi boschi di querce o di castagno selvatico, il costo di produzione scende notevolmente e il pregio delle carni ne guadagna, perché un maiale allo stato semibrado, che grufola ghiande o piccole castagne trovate direttamente sul terreno, cresce quasi a costo zero producendo carni saporitissime. Ma sono veramente poche le aziende in cui ciò può avvenire!
La razza suina casertana, si avvia pertanto a rimanere la materia prima per uno o più prodotti“di nicchia” e difficilmente si possono prevedere espansioni notevoli del comparto, con positive ricadute diffuse sull’economia locale. Come difendere i consumatori e gli operatori economici effettivamente interessati alla valorizzazione di questo particolare allevamento? La “parolina magica” è anche in questo caso la tracciabilità: solo con la conoscenza dell’intero percorso dalla stalla al banco del supermercato, si possono offrire credibili garanzie ai consumatori.L’originale suino di razza Casertana, oggi è tutelato dal Registro Anagrafico (RA) dei Tipi Genetici Autoctoni dell’Anas (Associazione Nazionale Allevatori Suini) e gestito in Campania dall’Arac (Associazione Regionale Allevatori della Campania), ma manca un disciplinare di produzione per le carni fresche e per i salumi, che definisca con chiarezza la materia prima e la tecnica di trasformazione. In passato qualche istituzione sul territorio ha cercato di intraprendere tale percorso, ma poi esso non è stato mai portato a compimento. Un certo disinteresse degli allevatori, derivante dalle cocenti delusioni subite,ha fatto il resto, e oggi incombe il pericolo di un comparto in cui ci guadagna solo chi è meno onesto.

Sullo stesso argomento, in questo blog: "IL DIO NIGLIU" (http://scribacchiandoperme.blogspot.it/2012/12/il-dio-nigliu.html) e "Una mattina di gennaio un sacrificio pagano" (http://scribacchiandoperme.blogspot.it/2012/01/una-mattina-di-gennaio-un-sacrificio.html)

mercoledì 16 novembre 2016

A CERA SE CUNSUMA...

Appena due mesi fa, a proposito delle polemiche ingeneratesi a cavallo dell’inaugurazione della nuova scuola elementare ebbi a scrivere “Sbaglia chi fugge in avanti e affida alla stampa mancanza di certificazioni, autorizzazioni, contratto ENEL non stipulato, suppellettili vecchie,ecc… c’è poco da dire: l’opera è un fatto” (cfr. su questo blog: http://scribacchiandoperme.blogspot.it/2016/09/edificio-scolastico-di-via-marconi-che.html) . Ero allora e rimango adesso dello stesso avviso! L’episodio di qualche giorno fa non scalfisce le mie convinzioni: l’allagamento nel nuovo edificio scolastico deve essere stato la conseguenza di un tubo fornito difettoso, di un raccordo fatto male o roba del genere. Punto… si facciano le riparazioni nel modo più scrupoloso e si ritorni a lavorare. La scuola, a mio avviso, dovrebbe rimanere fuori dalle polemiche: essa è qualcosa di sacro, in essa si produce sapere e si progetta il futuro di intere generazioni. Mai i risentimenti personali dovrebbero intaccarla, neppure di striscio!
Non c’è dubbio, la campagna elettorale per le amministrative di primavera è già entrata nel vivo! “A cera s’ cunsuma e a prucessione nun cammina”, recitava un vecchio proverbio delle nostre parti, e stava a significare che mentre ci si consuma in sterili polemiche la comunità soffre per mille cose da completare, per tante omissioni e per indebite ingerenze. Che qualcosa si sia rotto nei banchi dell’opposizione consiliare non è un segreto per nessuno: proprio ieri leggevo da un seguito web giornale di una interrogazione “al vetriolo” che sarebbe stata depositata a firma del consigliere di opposizione De Robbio; a tal proposito il buon Giovanni insieme alla sua “musa ispiratrice” dovrebbero sapere, per ultraventennale esperienza, che un attacco così diretto e frontale nei confronti di chi, per proprio dire è “in perenne cerca di consensi elettorali trasversali”, prima di tutto non risolverà il problema idraulico/impiantistico di cui stiamo parlando, ma soprattutto non porterà vantaggi a nessuno, se non a chi (esclusivamente) per buona sorte era in amministrazione al momento della conclusione dei lavori di realizzazione della nuova scuola. La politica, almeno come la intendo io, la si fa con i progetti e con le idee; innescare polemiche su fatti contingenti che si sono verificati e che si verificheranno sempre e comunque, abbassa -e di molto- il piano del confronto.
Ed allora: quale strategia per il futuro ventennio in paese? Il borgo è o non è una priorità politico/amministrativa? Il PUC (piano regolatore) appena redatto è veramente uno strumento di sviluppo urbanistico ordinato e corretto, oppure solo l’ennesima occasione per adempiere a patti stipulati in campagna elettorale? Come riordinare e rendere più efficiente ed efficace l’ordinamento dell’Ente Comunale?... e via dicendo!

sabato 29 ottobre 2016

LA VUOLA?

La profonda differenza fra il modo di esser stato giovane quarant’anni or sono e quello di oggi, la si può capire anche da cose e situazioni in apparenza secondarie che, invece, la dicono lunga su come siamo cambiati. Ad esempio, il modo di impiegare il tempo libero, di passare una serata sono mutati, in dipendenza di una serie di cause, nell’arco di quattro decenni; e se volessimo proporre ad un attuale adolescente o giovane di oggi l’esperienza che vi vado a raccontare, costui non vi troverebbe alcun interesse, al contrario di noi, adolescenti e giovani di allora, che accorrevamo numerosi perché anche quell’uomo (per noi) “faceva spettacolo”.
A tal proposito ricordo, e sicuramente i miei quattro lettori ricorderanno, un personaggio non pietramelarese, che periodicamente ritornava dalle nostre parti, generalmente nella tarda primavera. Doveva essere di Napoli o dell’hinterland partenopeo, poco più che cinquantenne, sbarcava il lunario organizzando e gestendo una sorta di rurale lotteria a premi: arrivava generalmente in Piazza Sant’Agostino e metteva su un baraccone pieno di oggetti e cose, biciclette, motorini, elettrodomestici piccoli e grandi, qualche autoradio, mangiadischi ed altro, esposti in bella vista ed illuminati. Restava in paese una o due settimane, e vestiva a suo modo con eleganza: immancabile cravatta sul gessato a doppio petto, tipico del guappo, capelli alla mascagna tenuti insieme da abbondate brillantina, voce tipica del fumatore incallito, ma con una parlantina capace di catturare l’attenzione di un gran numero di persone. Si serviva di un microfono, anche se comunque la gente si accalcava nei primi metri intorno al baraccone, e veniva coadiuvato nella vendita dei biglietti da un aiutante più giovane, che lui, con una certa ironia, chiamava “o’ ragiuniere” : era evidente che si trattava di una sorta di apprendista che voleva far propria quella sua particolare arte .
Il copione era sempre lo stesso: ogni giocatore con cento lire (duecento più di recente) comprava dal ragioniere un biglietto con nove numeri, e il vincitore risultava colui che trovava sul proprio il numero estratto da un cestino, tipo tombola. Chi aveva vinto quella manche allora doveva scegliere una busta da un mazzo, che rimaneva chiusa: essa conteneva l’indicazione del premio esposto nel baraccone. A questo punto si sviluppava il fine gioco di psicologia tra il banditore e il giocatore, fatto di offerte e, dall’altra parte, accentazioni o rifiuti; un po’ l’antesignano quindi del popolare gioco televisivo serale “Affari Tuoi”. Era evidente che il nostro personaggio disponeva di qualche sistema che gli permetteva di conoscere il contenuto della busta, e che pertanto, lui a differenza del giocatore andava sul sicuro; quindi se la busta conteneva un motorino o un premio importante faceva offerte in danaro, mentre altre volte bleffando induceva, invece, a far credere che nella busta vi era un premio importante, e offriva in cambio di essa somme notevoli per l’epoca: di fronte all’ostinazione della controparte nel voler aprire la busta, acconsentiva e ne usciva solo un bigliettino con su scritto “cinquanta lire”. Che tipo!
Lo spettacolo era proprio questo, assistere al fine duello fra uno sprovveduto ragazzotto di campagna, che non voleva apparire tale, e il furbo banditore che, invece, la sapeva lunga assai. Nella trattativa il linguaggio usato dai contendenti era generalmente il dialetto, ma il nostro aveva il vezzo di italianizzare il suo napoletano e ciò rendeva lo spettacolo ancora più godibile; in particolare rivolgendosi al vincitore del momento e, fatta un offerta, per sapere se l’accettava, usava dire “la vuola?”, ripeteva questa domanda un’infinità di volte, e tale espressione arrivò a caratterizzarlo a tal punto che noi tutti finimmo per identificare come “la vuola” il colorito personaggio. Date le rare novità del tempo e l’attrazione che determinava, quando si spargeva voce del suo arrivo in paese, qualcuno compiaciuto diffondeva la voce: “wuagliù… è turnatu a venì la vuola”.
Sono anni ormai che il baraccone non viene più montato e anche se oggi questo potesse succedere, dubito che intorno ad esso si formi la calca di quel tempo; i ragazzi di allora, vergini di PC, Play station e telefonini , erano in possesso di un prezioso dono, a loro stessi sconosciuto: l’incanto e la meraviglia anche nei confronti di fatti, personaggi e situazioni tutto sommato “di poco conto”.

lunedì 24 ottobre 2016

PRO LOCO: RICUCIRE I MILLE COCCI

La notizia è recente, ancora calda: con Decreto Dirigenziale n. 85 del 13/10/2016, pubblicato in data 17 ottobre 2016 sul n. 69 del Bollettino Ufficiale della Regione Campania, è stata decretata la “Cancellazione dall'Albo regionale delle Pro Loco della Pro Loco Pietramelara - CE 53”. Le motivazioni del provvedimento sono in sostanza due, di seguito elencate: l’ Associazione non ha prodotto, per gli anni 2015 e 2016, la documentazione prevista all'art. 5, comma 2 del Regolamento regionale n. 2/2015 (bilanci consuntivi e preventivi,relazione sull’attività svolta nell’anno precedente e in programmazione per l’anno in corso) ; con nota del 26/07/2016, l’amministrazione Regionale ha provveduto a dare comunicazione di avvio del procedimento per la cancellazione d'ufficio dall'Albo regionale e, a seguito della ricezione della comunicazione di avvio del procedimento in data 02/08/2016, come comprovato dalla ricevuta di ritorno agli atti, l’Associazione non ha provveduto ad integrare la documentazione richiesta . Omissioni ed errori, perseverati nonostante il chiaro sollecito.
Che dire?...già in tempi non sospetti questo blog ha sottolineato la crisi istituzionale, operativa e progettuale di tale importantissimo organismo (“UNA PRO LOCO IN CRISI” 30/07/2014, cfr. http://scribacchiandoperme.blogspot.it/2014/07/una-pro-loco-in-crisi.html), soprattutto per dare lo svegliarino a chi di dovere, per sollecitare un’attività più intensa e continuativa, purtroppo tutto è caduto nel vuoto e chi doveva ricevere il messaggio ha continuato imperterrito nella propria linea di condotta, e oggi ci troviamo con in mano i mille cocci di qualcosa che, partito negli anni 70, in forte anticipo sui paesi circostanti, ha colto in passato lusinghieri traguardi. Come non ricordare quegli eventi? …le sagre, il carnevale di allora, la voglia di partecipare, di dare una mano, il coinvolgimento di larghissimi strati della popolazione. Per una serie di motivi, che non ritengo il caso di ritornare ad elencare, siamo giunti a questo punto, che qualcuno potrebbe giudicare di non ritorno: non è così, o almeno non è del tutto così, la nostra Pro Loco è solo stata cancellata dall’Albo, ma non per questo ha cessato di esistere, in quanto soggetto giuridico ed istituzionale. Cosa fare, allora?
Non è pensabile che una Pro Loco possa operare al di fuori dell’Albo, infatti l’inserimento in esso consente l’accesso a strumenti finanziari ed altro, senza i quali l’operatività è fortemente compromessa. Correttezza imporrebbe, allora, le immediate dimissioni di presidente e consiglio di amministrazione, ma ritengo che sia meglio essere prudenti: ciò potrebbe creare un vuoto imbarazzante. Il mandato è alla scadenza e pertanto sarebbe maggiormente auspicabile un tesseramento aperto, pubblico, trasparente e (soprattutto) pubblicizzato con i mezzi più potenti: manifesti, sito web, facebook e stampa locale, ed elezioni immediate, a tesseramento completato. Allargando infatti la base sociale dell’associazione si immetterebbero nuove energie a disposizione di essa, si potrebbe cercare in qualche modo di ricucire i cocci, recuperando il tempo perduto, e producendo la documentazione richiesta e sollecitata dai competenti organi regionali, in vista di una eventuale riammissione nell’Albo. D’altronde lo stesso regolamento regionale annovera fra le finalità istituzionali delle pro loco quelle di mettere in campo “iniziative idonee a favorire, attraverso la partecipazione popolare, il raggiungimento degli obiettivi sociali del turismo”. Invece, se guardiamo al passato più prossimo è proprio questa partecipazione popolare ciò che è mancato. L’Associazione si è chiusa in un ghetto, che poi fatalmente è diventato il suo stesso patibolo. Se diamo un’occhiata al contesto, la prima considerazione che emerge è questa: il proliferare a Pietramelara di tanti organismi associativi giovanili, che a volte in forte rivalità fra loro prendono il posto della Pro Loco, trova anch’esso spiegazione nell’incolmabile vuoto che si è creato con tanti anni di mediocrità palese.E’ innegabile a questo punto la necessità di voltar pagina, di riformare il modo di pensare e di porsi, e tale cambiamento deve precedere quello delle persone. Le strade da percorrere ci sono, basta la buona volontà e l’apertura mentale.

lunedì 17 ottobre 2016

OTTOBRATA

Il cielo di una bella giornata di ottobre è blu, più che azzurro; il verde della montagna non è ancora del tutto spento ma volge al rosso delle foglie, ormai rinsecchite e sul punto di cadere dai rami; laddove il pendio si smorza ed inizia la campagna, i colori variano dal bruno della terra appena lavorata, pronta per le semine, fino al verde intenso dei medicai ravvivato dalle recenti piogge unite al tempo mite. Le vigne, appena vendemmiate, offrono al passante uno spettacolo malinconico, ma non propriamente triste, nel senso stretto della parola, essendo state private dai grappoli maturi. La luce del sole intensa, quasi abbacinante, si riflette nelle pozzanghere e colpisce gli occhi con violenza, ed insieme al risciacquio dell’acqua in un fosso, sta lì a ricordarti che la pioggia è passata appena da qualche ora e che potrebbe ripresentarsi quanto prima, senza tanti preavvisi; nell’osservare tale immagine consideri quanto sia aderente alla vita tale metafora: la gioia della bellezza, vissuta con serenità ma, con la consapevolezza, tuttavia, di un problema imminente.Sembra che l’estate“di San Martino” sia giunta con quasi un mese di anticipo sulla regolare “tabella di marcia”.
È grande l’armonia di questi momenti: nelle strade ed i vicoli del paese è ancora possibile imbattersi nel sentore di vinaccia e dei mosti in fermentazione, portato dal vento d’autunno: questo da noi avviene in misura minore rispetto al passato, ma comunque avviene! La suggestione allora induce di sera a mettere al fuoco le caldarroste (le vrole), da sposare con uno di quei mosti di cui si diceva prima, secondo la tradizione del posto; la temperatura magari è ancora sensibilmente alta, e si sa che per gradire meglio le vrole, ci vorrebbe qualche grado in meno, magari al tepore di un focolare che riscaldi l’anima, prima che il corpo.
Nei borghi e nei paesi tutt’intorno è in atto una rinascita: eventi, sagre, feste che vedono riunire la gente di ogni origine, ceto e provenienza intorno a tradizioni antiche, a sapori dimenticati, a cibi poveri ma buonissimi. Al di la dell’inevitabile retorica è questa la vera bellezza di ottobre e dell’autunno in generale.

domenica 9 ottobre 2016

VINCENZO E FRANCO

Voglio adesso illustrarvi il caso di una realtà vicina alla nostra che soffriva di un male quasi identico a quello di Pietramelara, l’abbandono e il degrado del centro storico, ma che, a giudicare da quanto si vede, ce l’ha fatta!
Parlo di Caiazzo: sino a due o tre anni fa il centro storico di questo paese (un po’ più grande del nostro), era solitario ed abbandonato, le facciate dei suoi palazzi storici narravano di un passato florido legato ad un’agricoltura fiorente e a commerci sviluppati, tuttavia l’immagine che davano di se era comunque triste; per strade e vicoli pochi passanti costretti, più che altro, a rimanere in quei luoghi. E dire che sono veramente pochi i chilometri da Caserta!
Da qualche tempo tuttavia la situazione si è invertita ed il centro storico è divenuto il nucleo di una frequentazione intensa, specie nelle sere dei fine settimana. Ci sono stato ieri sera con amici, il tempo non era neanche troppo buono e piovigginava ad intermittenza, ma già la difficoltosa ricerca di un parcheggio libero la diceva lunga; per strade e vicoli donne, uomini, giovani e bambini avevano ravvivato ciò che, sino a qualche tempo fa, mostrava l’inizio di uno stato di progressivo abbandono.
Era evidente che qualcosa di positivo era successo! Di che si tratta? A mio parere, soprattutto dell’intraprendenza di un ristoratore locale che ha fatto della sua pizza non solo un prodotto dell’enogastronomia apprezzato da tutti, ma anche e soprattutto un fenomeno mediatico presente con lusinghiere recensioni sia sulla carta stampata che sul web. Le pizze di Franco Pepe sono ormai note al vasto pubblico che apprezza l’enogastronomia, ma hanno per fama anche sfidato e superato quelle sfornate nei vari "templi" dei vicoli di Napoli (Sorbillo, Di Matteo, Il presidente, ecc.). Incuriositi e/o interessati, sono centinaia i buongustai che vogliono gustarle, ma non è raro neppure incontrarvi attori, calciatori famosi e personaggi vari dello “jet set”. Tale insperata rianimazione ha ingenerato un processo positivo che si è tradotto in negozi aperti fino a tarda ora, insieme al sorgere di iniziative analoghe, basate sull’enogastronomia di qualità che si sono sviluppate negli immediati paraggi. Il mio amico e collega Vincenzo Coppola, ad esempio, proprio li vicino ha realizzato “Terrae Motus”, coronando un sogno fatto di futuro coniugato con la tradizione millenaria di quelle terre: un ketchup che ha per base un pomodoro locale, da poco recuperato, bruschette che sanno di ceci caiazzani, provole e carni provenienti dagli allevamenti caiatini. Il panino, poi, tanto apprezzato dai giovani, emblema altrove di una ristorazione globale e massificata, da Terrae Motus è stato rivisto e corretto con una filosofia molto “slow”, che ne ha stravolto la natura ed anche il significato, in una armonia di sapori e profumi che sanno soprattutto di territorio. Va detto che i protagonisti di questa storia, Vincenzo e Franco (nella foto di copertina) sono amici nella vita, ed hanno da tempo intrapreso un percorso comune, volto alla qualità, da ricercare soprattutto nella tipicità delle materie prime.
Sono questi gli esempi da imitare, i percorsi da seguire, se si vuole realmente che anche la nostra Pietramelara, con il suo borgo millenario si salvi dall’abbandono e dal degrado. Tradizione e futuro in uno, paradigma di una ripresa e di un recupero che non possono più attendere, componenti di una mentalità imprenditoriale da troppo tempo assente dalle nostre parti, devono indurre la creazione di elementi e prospere realtà che facciano da traino al risorgere della nostra, come di tante altre realtà locali.

sabato 24 settembre 2016

ALLEANZE ELETTORALI

Le elezioni amministrative della prossima primavera sono alle porte e la campagna elettorale, se non è nel pieno, è senz’altro iniziata! Comincia a correr voce di incontri semiclandestini, ospitati da dimore site in periferia del paese o in campagna. È un costume, questo, che parte da lontano, almeno dagli anni 70 quando, per scalfire il potere della Democrazia Cristiana che, fino ad allora, aveva sempre vinto ogni consultazione, cominciarono ad essere intessute alleanze di vario genere. La fase della trattativa richiedeva discrezione pertanto si ricorreva agli incontri semiclandestini di cui sopra. Fatto sta che il riserbo totale quasi mai veniva osservato e, nei giorni successivi agli incontri, si conoscevano con dovizia di particolari i partecipanti, gli argomenti in discussione, i punti di contatto e quelli di attrito. Si sa che il passaparola dei “mi raccomando… non lo deve sapere nessuno”, alla fine rende noto a tutti o quasi anche i particolari più riservati.
A parte questa nota di colore, bisogna dire che poi la storia ha dimostrato con il tempo che le improbabili alleanze alla fine sono crollate su se stesse ed hanno dato luogo a risvolti politico/amministrativi che definire disastrosi è voler esser buoni. Sicuramente i miei lettori dai capelli grigi ricorderanno (solo a titolo di esempio) come finì l’asse creatosi fra i socialisti del compianto Gianni Sorbo e l’ala dissidente democristiana, a metà degli anni settanta: nel primo mandato ci fu il distacco di un certo numero di consiglieri, che costituirono un gruppo autonomo, e la seconda sindacatura si concluse con un anno di anticipo, perché venne meno la maggioranza consiliare. Altri tempi, direte voi… senz’altro rispondo io; ma il dato di fatto consegnatoci dalle ultime tornate amministrative a Pietramelara e dintorni ci indicano con chiarezza che l’elettorato forte di quelle lezioni, non capisce e non condivide il significato e l’utilità di certe alleanze particolarmente ardite, e/o i cambiamenti di casacca pochi giorni prima delle urne.
Comportamento conseguenziale del corpo elettorale, quindi? … non direi.E’ uno strano paese, il nostro! Da almeno due decenni si assiste ad una stasi che coinvolge la politica, la cultura, i servizi e l’economia, mentre nei dintorni è evidente un risveglio quasi speculare e di segno opposto. Progetti come il recupero del castello di Riardo o della torre di Roccaromana, o ancora gli scavi al teatro tempio di Pietravairano, che fino a pochi anni fa potevano sembrare mera utopia, sono divenuti con il tempo una realtà attuale e tangibile; basati su risorse locali, quindi disponibili “in via esclusiva”, possono, se ben gestiti,produrre in termini economici risultati molto interessanti. Al loro confronto potremmo proporre al massimo un canalone destinato a risolvere un problema idrogeologico mai esistito, oppure una circumvallazione utile solo ad una ditta di autotrasporto. Qualche assessore, in vena di autocelebrazione, arriva a vantarsi anche di azioni obbligatorie, previste dalla legge, atti dovuti la cui non realizzazione costituirebbe comportamento omissivo della Pubblica Amministrazione.
Di tutto ciò i nostri elettori sembrano non accorgersene, o meglio: commentano a gran voce nei capannelli della piazza gli altrui progressi e li confrontano con i nostri sostanziali arretramenti ma poi … nelle urne continuano ad infilare schede votate sempre allo stesso modo.

giovedì 22 settembre 2016

LA CHIESA DI SANT'AGOSTINO

E’ tra i luoghi da me più frequentati nell’infanzia ed adolescenza, vi ho trascorso tante serene ore in allegria con gli amici di un tempo, a vigilare su di noi e sulla nostra esuberanza la figura severa ma bonaria di Don Pasqualino. Sto parlando della Chiesa di Sant’Agostino, edificio di notevoli dimensioni che accoglie, fra l’altro, opere d’arte di grande importanza.
Fu costruita nel 1420 per volere di Giovanna di Celano, signora di Pietramelara e, insieme all’annesso convento, attuale palazzo municipale, prese il nome di Santa Maria della Carità. Nel 1461 ci fu un primo restauro ad opera dei Padri Agostiniani, che ne presero possesso e ne cambiarono il nome in Sant’Agostino. Con il sacco di Pietramelara e le relative distruzioni, avvenute nel marzo del 1496, anche questa chiesa fu saccheggiata dalle truppe mercenarie al soldo degli aragonesi. A latere di tale tragico episodio storico, l’appropriazione di una campana ad opera dei rocca romanesi, sottratta a Sant’Agostino ed utilizzata a corredo della Chiesa dell’Annunziata di quel paese confinante; i pochi supersiti della distruzione di Pietramelara chiesero allora al Re Federico d’Aragona la restituzione della campana ma, con due note regie, costui ne confermò la donazione a favore della Chiesa dell’Annunziata di Roccaromana, respingendo anche con un certo fastidio le suppliche pervenute da Pietramelara dopo il primo diniego.
Rinata Pietramelara, nei secoli seguenti la comunità agostiniana era notevolmente costituita e possedeva anche un patrimonio di una certa importanza: da documenti di archivio è emersa infatti la presenza un tempo di una “masseria degli Agostiniani”, ubicata in contrada pescara .
Nel 1808, epoca della monarchia murattiana, il convento fu espropriato agli Agostiniani e destinato ad ospitare il Municipio, e la Chiesa venne concessa alla Congregazione “Ave Gratia Plena”, ancora esistente e volgarmente detta “cungrega r’i signuri”, perché raggruppa le famiglie nobili di Pietramelara. Poco prima dell’Unità d’Italia, al passaggio dei garibaldini, la chiesa fu occupata da costoro ed utilizzata quale temporaneo accampamento.
Il corpo dell’aula è a navata unica, con tre cappelle per lato; unico nel suo genere il campanile di stile orientaleggiante, con il tetto a pagoda, il cui progetto è dovuto, forse, a qualche monaco agostiniano missionario, di ritorno dalla Cina ed evidentemente suggestionato dalle architetture di quei posti. L’interno ospita grandi tele settecentesche e un gruppo scultoreo in legno raffigurante l’Addolorata con il cuore trafitto, Gesù morto in grembo ad essa e San Giovanni Apostolo. L’opera di raffinata fattura, realizzata dallo scultore partenopeo Arcangelo Testa, fu donata dal Canonico Don Vincenzo de Ponte nel 1854, che all’epoca espletava le funzioni di “penitenziere” nella Diocesi di Teano; costui a proprie spese, fece celebrare una festa per l’Addolorata sino alla sua morte, avvenuta nel 1884 . A tale donazione si può ricollegare l’origine del culto dell’Addolorata in paese e quella del pellegrinaggio a Castelpetroso (cfr. su questo blog “Castelpetroso un po’ di storia”, 7/05/2011 - http://scribacchiandoperme.blogspot.it/2011/05/castelpetroso-un-po-di-storia.html). La parrocchia che vi aveva sede fino a qualche decennio fa era intitolata a San Lorenzo Martire, oggi a Sant’Agostino.
La chiesa rimase chiusa, per seri danni e lesioni riportati in seguito al terremoto del novembre 1980, fino al 1984.
Questa breve nota storica, che ripercorre circa sei secoli, è stata scritta attingendo a fonti bibliografiche e documenti vari di cui ho potuto prendere visione, ed è legata alla memoria che mi lega a quel luogo; è per me, infatti, sempre un’emozione forte ritornare fra quelle mura, quando posso : immediatamente mi ritornano alla mente i giorni felici dell’infanzia, il catechismo ( ‘a luttrina), i giochi, le funzioni della settimana santa, Don Pasqualino e la sua infinita pazienza ; quello che mi ha sempre colpito, allora come oggi, è la luce particolare che vi domina, intensa ma allo stesso tempo discreta, particolarmente adatta al raccoglimento e alla preghiera.

giovedì 15 settembre 2016

EDIFICIO SCOLASTICO DI VIA MARCONI. CHE FARE?

Primo giorno di scuola, che bello!... Oggi, per i ragazzi del mio paese, una novità rilevante, è iniziata la scuola in un luogo diverso e più moderno. L’edificio di via Marconi che, per oltre un sessantennio ha ospitato generazioni e generazioni di piccoli pietramelaresi, sta per essere definitivamente soppiantato nelle attuali funzioni da quello nuovo, sorto in Via San Giovanni. Il sottoscritto blogger non è di quelli che rifiutano per sistema ogni cosa, ancorché buona, provenga dalla “altra parte”, e pertanto ritiene che si debba esser contenti di questa novità, l’edificio è progettato e costruito bene e può senz’altro sostituire in maniera degna quello di Via Marconi. Sbaglia chi fugge in avanti e affida alla stampa mancanza di certificazioni, autorizzazioni, contratto ENEL non stipulato, suppellettili vecchie,ecc… c’è poco da dire: l’opera è un fatto.
Piuttosto ci si deve interrogare su quale/i destinazione/i conferire al vecchio immobile di Via Marconi, costruito nell’immediato dopoguerra. Dibattere su tale argomento significa “fare politica”, nel senso più autentico, significa arricchire la capacità di giudizio di chi, alla fine, dovrà prendere una decisione in merito. Quali, allora, le alternative sul tappeto? Una prima ipotesi, la più semplice, consiste nel lasciare l’immobile così com’è, per porlo sul mercato; chi ha una minima familiarità con l’estimo, tuttavia capisce che difficilmente il prezzo spuntato possa superare le poche centinaia di migliaia di euro: manca qualsiasi pregio architettonico, le tecnologie costruttive sono sorpassate, in più rappresenta un problema statico l’aggiunta del terzo piano, avvenuta negli anni sessanta; scegliendo tale prima opzione sarebbe pertanto molto limitato il vantaggio economico per l’Ente.
Altrimenti si può considerare la rinfunzionalizzazione per destinare l’immobile ad altri impieghi pubblici: sedi di associazioni, luogo per eventi, spostamento della stazione dei Carabinieri. La spesa sarebbe però onerosa per gli adeguamenti sismici, che comunque non scongiurerebbero il pericolo, per il rifacimento dell’impiantistica adeguandola alle vigenti norme, per la diversa disposizione degli ambienti rispetto alle attuali aule.
Ritengo, al proposito, che il vero e solo pregio di questo vecchio edificio (così com’è) consista nel luogo dove sorge, e che è venuto il momento di pensare “in grande”. Il centro storico di Pietramelara, dove si trova l’immobile, è agonizzante e la sua malattia grave richiede una vera e propria terapia radicale, una rivoluzione urbanistica nel senso più ampio della parola. Ciò premesso, la terza ipotesi da formulare è proprio questa: fare dell’intera area, da largo De Gasperi al Pomaro, un’occasione di rinascita del centro storico di Pietramelara. Agli studiosi del comparto il compito di individuare la via da percorrere, la tecnica e le soluzioni da adottare; ma l’occasione è storica ed irripetibile, pensateci, miei quatto lettori, e ci pensino anche e soprattutto gli amministratori attuali e quelli del futuro. Si tratta di circa 4.500 mq in pieno centro, da destinare a parcheggi, a spazi di socializzazione,e in cui ridare dignità al mercato settimanale, anch’esso moribondo, prossimo alla fine; verrebbero a cadere anche le ragioni di chi, invocando “mancanza delle vie di fuga”, ne ha determinato lo spostamento e il conseguente, progressivo, semiabbandono. La rivitalizzazione che ne conseguirebbe sarebbe senz’altro forte, e l’economia locale ne trarrebbe beneficio.
È una provocazione in piena regola, la mia, alla quale la prima risposta piccata che mi aspetto è la seguente: si tratta di un’idea faraonica, i costi sarebbero ingenti e non sostenibili per la comunità! A costoro rispondo che solo chi osa vince, che le risorse ci sono se le si sa individuare ed ottenere, che fare l’amministratore solo per trattare l’ordinario è meschino, che Pietramelara merita di più.

domenica 4 settembre 2016

CONSIDERAZIONI A MARGINE DI UN SALUTO

Non ti ho mai dato del tu, e mai mi sarei sognato di farlo, mentre eri fra noi; ritengo che adesso, invece il tu che ti rivolgo sia una specie di necessità, quasi un obbligo dettato dal contesto. D’altronde ricordo, e ci sorrido, sulla tua ironia sull’uso del “lei”: non lo potevi proprio sopportare, e dicevi, a ragione, che metteva troppa distanza fra le persone che dialogavano, che toglieva al discorso quella semplicità che deve esserci. Non voglio ripetermi e/o riprendere cose già dette e scritte, su quanto tu sia stato importante per Pietramelara e per tutti coloro che sono venuti a contatto con la tua azione instancabile, quasi fino all’ultimo. Mi ha molto colpito ed emozionato, invece, quel tuo scritto del 12 novembre 2010, dato ad Ariccia: sono trascorsi già sei anni, ma già da allora sentivi che i tuoi giorni stavano per volgere al termine, nonostante ti “sia stato dato da Dio una infinità di tempi supplementari”. E’ proprio vero! Questi tempi supplementari li hai fatti tuoi e, fino all’ultimo, anche quando le forze venivano ormai meno, non hai mai fatto mancare l’impegno di uomo e di pastore a questo gregge disperso e dilaniato da mille fratture e reciproci risentimenti. Che dire dello stile nello scrivere? E’ identico in tutto e per tutto a quello nel parlare, al punto che mentre leggevo mi sembrava addirittura di riascoltare ancora una volta, con infinito piacere, la tua voce.
La “distesa del campo attraversato” mostra con evidenza i fiori delle cose belle e buone che hai seminato, e ti siamo infinitamente grati per “le fatiche che non ti hanno mai stancato” ; l’attaccamento alla Chiesa era evidente in te non solo per l’istituzione di cui eri ministro, ma anche per il luogo fisico, a cui hai prodigato impegno e sensibilità .
Una preoccupazione, quella che tu chiami “mistero”: “un popolo che a stento arriverà a capire quanto gli ho voluto bene”. Ebbene, carissimo stai tranquillo, quel popolo questa cosa l’ha capita, anche se con un certo ritardo ma, lo sai, non sempre le cose, seppur preziose, vengono accettate, comprese ed apprezzate per ciò che realmente valgono; ti potrei citare mille cose e situazioni a conforto della mia tesi, ma tu ormai sai tutto, tutto osservi e tutto comprendi, più di me, più di noi e meglio di noi.
Riguardo ai tuoi "tanti difetti”, come tu stesso li definisci, a quel tuo carattere a volte ruvido e impaziente, al nervosismo, che a volte (scusaci) ha suscitato in noi anche ilarità, alle “cazziate” che non hai risparmiato al sottoscritto, come a tanti altri, sappi che per noi sono stati inequivocabili reindirizzamenti sulla strada della Verità, e siamo grati per questo a Chi te li ha concessi.
Il tuo estremo saluto “Io di la, voi di qua continueremo la catena dolce che la morte amara non infrange”, mi ricorda da vicino quel famoso verso di una preghiera (forse erroneamente) attribuita a Sant Agostino: “Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto”, oppure al molto più laico “celeste e’ questa corrispondenza d’amorosi sensi” di foscoliana memoria. Stanne certo, carissimo che sarà così, Pietramelara non ti dimenticherà, non dimenticherà l’instancabile opera e sicuramente il tuo ultimo giorno sarà “il primo di un anno eterno”.

Arrivederci Don Roberto, tuo aff.mo Francesco


giovedì 1 settembre 2016

CINGHIALI

Il forte sovrannumero di cinghiali e i danni relativi ad essi è un problema che preoccupa Pietramelara e dintorni. La gravità del fenomeno è andata crescendo di anno in anno e oggi urge trovare una soluzione adeguata ed efficace.
Da sempre presente nei nostri boschi, il cinghiale (SusScrofa) si estinse praticamente nella prima metà del XX secolo, ma fu di seguito reintrodotto e ripopolato agli inizi degli anni ‘70. Essendo l’animale dotato di straordinaria rusticità e capacità riproduttiva, grazie alla completa assenza di nemici naturali che ne potessero controllare la numerosità, e grazie ad un territorio ricco di risorse alimentari facilmente accessibili, le sue popolazioni hanno assunto negli ultimi anni dimensioni tali da generare preoccupazioni a vari livelli. La categoria sociale maggiormente danneggiata sono gli agricoltori e la coltura più colpita è il mais, ma anche la vite e il nocciolo, a volte, subiscono attacchi di una certa intensità. Gli indennizzi a favore delle aziende colpite, previsti dalla legge, frequentemente si rivelano un miraggio, e chi ha subito il danno obtorto collo deve tenerselo.
Va aggiunto che i danni non si fermano solo all’agricoltura: le cronache riportano frequentemente incidenti stradali, soprattutto serali e notturni causati da cinghiali vaganti, insieme a più sporadici attacchi a uomini e donne che si aggirano per i luoghi frequentati da tali animali, a volte molto aggressivi.
Allarmati i sindaci dei comuni di Marzano Appio, Pietramelara, Pietravairano, Raviscanina, Riardo, Roccaromana, Sant’Angelo d’Alife e Vairano Patenora, hanno richiesto ed ottenuto un incontro al Prefetto di Caserta per affrontare il tema dei danni prodotti. La riunione si è tenuta ieri mattina, 31 agosto e ha messo sul tappeto una strategia di emergenza e una pianificazione di lungo termine.
Cosa fare, allora? Quali gli interventi praticabili? Ogni soluzione adottabile comporta l’uso di mezzi “contro natura”, e quindi, per sgomberare il campo da ambientalismi integralistici, va detto che il problema è sensibilmente grave e va trattato con il piglio e la fermezza dettati dell’emergenza.
E’ classico l’uso di barriere e recinti elettrificati a difesa delle colture, dimostratisi con il tempo di modesta efficacia; va citato, poi, l’impiego di mangimi contenenti anticoncezionali distribuiti nei boschi, ancora in fase sperimentale (http://www.lastampa.it/2015/09/25/societa/lazampa/animali/troppi-danni-allagricoltura-per-i-cinghiali-arriva-la-pillola-anticoncezionale-TkPcZXARHe7Gylc6yly9CN/pagina.html) ; la cattura a scopo di ripopolare altre zone mostra un limite nella diffusione del sovrannumero un po' dappertutto; infine va considerata la possibilità di ricorrere a piani di abbattimento straordinario, con calendari che vadano anche oltre le stagioni venatorie.
Tale ultimo metodo è quello che fa più discutere, controverso si, ma sicuramente dotato di maggiore efficacia, in considerazione dell’allarme sociale che il fenomeno desta attualmente e che potrebbe destare in futuro, dato che una popolazione animale senza alcun controllo tende ad espandersi sempre di più. Sono del parere che bisogna assolutamente riportare le dimensioni del fenomeno entro i limiti dell’accettabilità, anche perché anche gli stessi equilibri ecologici sono minacciati quando una specie assume forte preponderanza numerica all’interno di un territorio. La competizione alimentare fra specie, infatti, potrebbe essere fortemente influenzata dal numero, soprattutto tenuto conto del fatto che il cinghiale vive in branco, e ciò gli permette di amplificare la sua forza, già di per sé notevole (… e questo gli ambientalisti dovrebbero saperlo!).
L’ambientalismo, quello vero ed autentico, capace di apportare vantaggi all’intera società, comporta studio, documentazione e conoscenza degli equilibri e delle dinamiche che regolano i rapporti all’interno degli habitat e degli ecosistemi; pertanto, una volta che tali equilibri e dinamiche vengono turbati in modo serio e tangibile, deve proporre soluzioni efficaci, allo scopo che essi vengano ripristinati in breve tempo.

venerdì 26 agosto 2016

I MIEI TERREMOTI

La tragedia dei paesi colpiti dagli eventi sismici di questa fine agosto è veramente immane, si spera ancora di strappare qualche vita alle macerie ma, via via che passa il tempo, essa si fa sempre più flebile. Nel nostro paese l’onda sismica è giunta molto attutita dalla distanza e, per fortuna, non si sono accusati danni ne alle persone ne alle cose.
A tal proposito, se rinvango nello scorrere della mia vita, mezzo secolo e più, ricordo una serie di terremoti che hanno interessato il nostro territorio. Il ricordo più lontano e flebile è quello dei 1962, più di cinquant’anni fa, il 21 agosto del 1962, un ampio settore dell’Appennino campano fu colpito da due violente scosse di terremoto, separate da un intervallo di circa dieci minuti; la seconda fu quella che causò più danni: le province più danneggiate furono quelle di Avellino e Benevento; danni meno gravi furono rilevati anche nelle province di Napoli, Foggia, Caserta e Salerno. Ero un bambino di pochi anni e non posso ricordare molto, se non la novità assoluta, per me, di dover uscire insieme alla famiglia, per strada, in fretta e furia.
Ben più netto, il ricordo di me ormai ventenne, in quella maledetta domenica sera del 23 novembre 1980: mi trovavo in piazza, a quel tempo vero centro di Pietramelara e, intorno alle 19 la forte scossa, intensa e prolungata, un fiume di gente , allora ancora numerosa nelle povere case del borgo, riversarsi come un fiume verso il luogo aperto in cui sostavamo. Volti sconvolti dalla paura e dall’angoscia, vecchi e bambini ancora non del tutto consci della vastità di quella tragedia immane, che a Pietramelara non causò ne vittime ne feriti, ma che nella zona del cosiddetto “cratere” strappò alla vita 2914 uomini, donne e bambini. La magnitudo 6.9, in Irpinia, provocò anche 8.848 feriti. Forti polemiche si levarono all’indomani dell’evento e particolarmente forte fu la voce del capo dello stato Sandro Pertini che urlò: “Non vi sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci”.
Qui a Pietramelara i danni più ingenti li subirono gli edifici religiosi e, in particolare, le chiese di San Rocco e Sant’Agostino, che rimasero chiuse al culto per diversi anni, per essere riaperte solo dopo sostanziali lavori di consolidamento. A margine va considerato con amarezza l’ aver perso per sempre nella “ricostruzione”, lautamente foraggiata dalla legge 219 del 1981, tipologie architettoniche assai caratteristiche nel centro storico, insieme all’architettura rurale del tutto cancellata.
E’ ormai un ricordo di uomo, quello del maggio 1984: prima scossa di magnitudo 5,9 alle ore 19,53 di lunedì 7 maggio 1984, l'epicentro a San Donato Val di Comino. La zona più colpita risultò essere quella compresa fra Sora ed il Parco nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise, non lontano dai luoghi che tanto hanno sofferto per il terribile fatto dell’altro ieri notte. Mi trovavo in campagna, su un ponte, e realizzai ciò che stava avvenendo quando vidi le acque del ruscello sottostante agitarsi in modo particolare e, dopo pochi secondi, il suono delle campane di San Rocco, particolarmente disarmonico e fuori orario. Nonostante tutto, anche per questo evento a Pietramelara solo molto spavento, qualche nottata trascorsa fuori casa, in tarda primavera e nulla di più; ma ancora abbattimenti, ricostruzioni, e via discorrendo. Nelle tragedie -si sa - c’è chi perde affetti, beni e tant’altro e chi, invece, realizza la propria fortuna.
Ero già due volte padre nel 2002, quando alle 11.33 del 31 ottobre, la terra tremò con una magnitudo di 6,0 gradi ; l’episodio più grave e doloroso il crollo di una scuola a San Giuliano di Puglia, nel vicino Molise: morirono 27 bambini e una maestra. Mi trovavo al lavoro, ma fuori ufficio, saputo dalla radio dell’auto dei fatti mi precipitai verso casa per recuperare le mie figlie una a scuola, l’altra all’asilo. Giunto nei pressi dell’asilo una nota di colore: le maestre avevano spostato all’aperto i tavoli del pranzo, ormai pronto a quell’ora e, nel soleggiato giorno d’autunno, avevano fatto mangiare i bambini all’aperto e al sicuro, non intaccando minimamente la loro infantile serenità; trasformando in una sorta di pic nic un episodio che altrove aveva assunto tratti drammatiticissimi.

sabato 6 agosto 2016

UN VOTO IN VENDITA

Un voto in vendita non è una novità ormai per nessuno: cronache e tg, in corrispondenza degli appuntamenti elettorali ne sono strapieni. Nulla di nuovo! La cosa però diventa singolare quanto il venditore del voto si dichiara e mette tranquillamente “all’incanto” il proprio o, come si dice dalle nostre parti lo arriffa.
Per chi non lo avesse ancora capito il voto in vendita è quello del sottoscritto, scribacchiante blogger che di tanto in tanto vi intrattiene, miei cari quattro lettori, per le elezioni amministrative della prossima primavera. Si… lo vendo, ma stiano attenti gli eventuali interessati, il prezzo è veramente alto, “astenersi perditempo” come si suol dire! D’altronde credo che uno dei paradossi della democrazia sia proprio quello di attribuire pari valore ai voti, indipendentemente da chi li esprime. Riflettete: ad esempio il voto di un femminicida, di uno spacciatore di stupefacenti, di uno stupratore ha lo stesso, identico valore del mio; ma questa è una digressione, torniamo a parlare del mio voto in vendita.
Non è di danaro che ho bisogno, quello che traggo dal mio lavoro cerco di farmelo bastare! Ma proprio per questo stiano in guardia i candidati interessati all’acquisto, ribadisco che il prezzo è particolarmente elevato.
Lo vendo prima di tutto a chi mi dimostri che ritiene una fortuna essere nato e vissuto a Pietramelara, luogo dalla mille contraddizioni, ma ancora a misura d’uomo, a chi accenda in me la speranza che questo paese possa continuare la propria storia plurimillenaria ancora per molto tempo, senza essere inghiottito definitivamente dal degrado e dall’abbandono; lo vendo a chi possa offrire una chance ai tanti giovani locali, così disorientati .
Ed ancora, il mio voto si compra dimostrando che il comune viene prima degli impiegati comunali, destinatari negli ultimi decenni di larghe fette del bilancio comunale, con premi ed incentivi assolutamente slegati da produttività e professionalità. Quanto è difficile vincere le elezioni senza il loro assenso, senza le loro campagne elettorali silenziose e sotterranee!... ma, proprio per questo, chi ci riesce può veramente provare a cambiare il volto del nostro paese. Come fare? Cominciando, ad esempio, dal PUC (Piano Urbanistico Comunale), in corso di elaborazione, con poche idee, ma buone e realizzabili; ne elenco qualcuna: risparmio di suolo, salvaguardia del paesaggio, recupero del patrimonio edilizio inutilizzato.
Nella variegata descrizione del prezzo da pagare per il mio voto non possono naturalmente mancare le azioni rivolte al recupero del nostro borgo. Chi mi segue sa che per me è diventata una fissa: invertire una tendenza che dura da circa un cinquantennio, l’abbandono e il degrado progressivo di esso, potrebbe ridare smalto al paese, produrre occupazione e vivificare il centro del paese, oggi come non mai desolante anche nelle sere d’estate, con la piazza ed il corso semideserti.
E’ ovvio, infine, che chi è disposto a pagare tanto dovrà inoltre dimostrare che le sue (e mie) idee, non sono le solite trovate da comizi o programmi stampati e distribuiti nelle campagne elettorali, che l’impegno contratto al momento dell’acquisto sarà onorato nel corso del mandato. Come? … prima di tutto presentandosi con l’umiltà di chi non legge dal libro dei sogni, e poi circondandosi di donne e uomini che conosco per il loro impegno e per la loro preparazione. Difficile lo è, certamente, ma non impossibile.

mercoledì 20 luglio 2016

PASQUINO... A RIARDO

Pasquino è la più celebre statua parlante di Roma, divenuta figura caratteristica della città fra il XVI ed il XIX secolo. Ritrovata nel 1501 durante gli scavi per la pavimentazione stradale e la ristrutturazione del Palazzo Orsini, ben presto si diffuse il costume di appendere nottetempo al collo della statua fogli contenenti satire in versi, dirette a pungere i personaggi pubblici più importanti. Ogni mattina le guardie rimuovevano i fogli, ma ciò avveniva sempre dopo che erano stati letti dalla gente. In breve tempo la statua di Pasquino divenne fonte di preoccupazione, e parallelamente di irritazione, per i potenti presi di mira dalle pasquinate, primi fra tutti i papi: addirittura Benedetto XIII emanò anche un editto che garantiva la pena di morte, la confisca e l'infamia a chi si fosse reso colpevole di “pasquinate”.
E’ giustappunto una pasquinata quella in cui mi sono imbattuto stamattina, all'imbocco della discesa che conduce alla stazione ferroviaria di Riardo: un vecchio wc dismesso, da cui svettava un cartello con la seguente dicitura “Il cesso è un signore nei vostri confronti perché la merda la scarica voi la lasciate per strada!” (vedi foto).
A chi era diretto il messaggio? … a una generica categoria di cittadini particolarmente disattenta alle problematiche ambientali, al potente di turno nella zona (onorevole, assessore, sindaco, chissà) allo scopo di vendicarsi per una promessa non mantenuta, un favore non fatto, o altro che non riusciamo ad immaginare? Le ipotesi potrebbero essere svariate.
Resta la singolarità del fatto: all'epoca dei social networks, qualcuno si affida ancora ad un mezzo risalente a vari secoli fa per esprimere una protesta, un disappunto particolarmente acre. Comportamenti imprevedibili della gente che vive nelle aree rurali, che in genere “non la manda a dire”, che preferisce metodi più diretti, ma che nell'aver voluto ricorrere ad un espediente come questo forse ha inteso anche suscitare un po' di ilarità.

sabato 16 luglio 2016

NIENT'ALTRO CHE LODEVOLI INTENZIONI

E’ senz’altro lodevole l’intenzione di un’amministrazione di condividere le scelte operate sul futuro del nostro territorio; lo è ancora di più allorquando tale condivisione è indirizzata al Piano Urbanistico Comunale, che assegnerà destinazioni urbanistiche, economiche produttive alle varie porzioni di territorio Pietramelarese. Facendo seguito ad un invito pervenutomi da un pubblico manifesto, ho voluto partecipare all’incontro della sera di giovedì scorso, 14 luglio, teso ad illustrare tali scelte e tali destinazioni, nella duplice veste di cittadino nonché di soggetto tecnico impegnato in tale ambito.
Non posso dire, tuttavia, di ritenermi soddisfatto, e soprattutto ho dovuto prendere atto anche della generale insoddisfazione di quasi tutti i partecipanti all’incontro: in sostanza si sono ritrovati a difendere quelle scelte solo i tecnici redattori del PUC, il sindaco e i suoi “fidi pretoriani”. Politici, ex amministratori e tecnici non hanno potuto fare a meno di constatare che l’incontro programmato non era altro che una minestra bell’ e scodellata, per migliorare il cui sapore poco o nulla si poteva fare, e che il momento di confronto era solo annunciato.
Belle enunciazioni di principio… senz’altro! Limitare il consumo di suolo, rivitalizzare e recuperare il centro storico, tendere ad uno sviluppo economico sostenibile: cose sentite già centinaia di volte, fino alla noia. Ma poi, nella sostanza, principi contraddetti dalle carte: espansione della zona edificabile, sanatoria di abusi edilizi commessi di recente e/o più in la nel tempo, nessuna misura concreta per spiegare come rivitalizzare la parte più malata di Pietramelara, cioè il borgo medievale (cosa tra l’altro sottolineata anche da autorevoli protagonisti del dibattito).
Rendere edificabili a Pietramelara aree che attualmente non lo sono, rappresenta un danno di duplice natura: economico, perché gli investimenti in opere di urbanizzazione non verranno mai recuperati, e ambientale in quanto la zona residenziale si espande sempre di più arrecando inquinamento e costi sociali vari. Lottizzazioni iniziate un quarantennio fa ancora non sono state completate, e ad esse si sono aggiunte altre più di recente; la domanda di alloggi in paese è crollata, e lo conferma il numero elevatissimo di immobili in vendita, a prezzi accessibili, che non vengono acquistati da nessuno. Nutro seri dubbi, pertanto, sul fatto che altre lottizzazioni, aggiunte a quelle attuali possano avere maggior successo commerciale.
Che fare allora per Pietramelara? Prima di tutto cominciare ad avere il coraggio di essere impopolari, senza creare illusioni di arricchimento per i potenziali lottizzatori; scegliere pertanto di conservare la struttura urbanistica attuale ed il relativo perimetro, consentendo il completamento delle lottizzazioni attuali (ove possibile); riportare l’asse del commercio nel centro del paese, contrastando la tendenza di centri commerciali che sorgono come funghi e desertificano il nucleo urbano; intraprendere razionali azioni di recupero del borgo e delle parti limitrofe, offrendo servizi a una popolazione che si sente sempre più abbandonata e dimenticata. Poche cose semplici e poco costose, senza fumose enunciazioni di principio contraddette poi miseramente nella realtà delle decisioni intraprese.

venerdì 15 luglio 2016

MESTIERI

Per conoscere meglio i caratteri e le identità di comunità come la nostra è necessario ricorrere a particolari ritenuti (a torto) secondari, quali ad esempio le arti e i mestieri che un tempo vi si esercitavano e che l’economia, e l’evolversi del costume hanno cancellato.
Li ho visti anch’io, sapete? Aprivano bottega per le vie del centro storico, e lavoravano dall’alba al tramonto con una breve pausa per il pranzo, tutto sommato incuranti dell’inquinamento che potevano produrre o dei rumori. Erano questi ultimi, insieme agli odori ( o puzze) a caratterizzare le botteghe. Le si poteva riconoscere anche da lontano, quando erano ancora celate alla vista: era caratteristico pervenire da quella del maniscalco, o ferracavalli, ad esempio, il ritmato battere del pesante martello sull’incudine, per foggiare il ferro ancora rosso appena tirato fuori dalla forgia. Quando il cavallo o l’asino veniva ferrato, per pareggiare lo zoccolo, il ferro doveva essere ancora incandescente e così l’unghia bruciata produceva un odore acre ed intenso, difficilmente sopportabile. Uno degli ultimi ferracavalli ha lavorato fino agli anni 70, dalle parti di “fore Sant’Austinu”, insieme a qualche altro “pe ttuornu a terra”.
L’attività del carrese, poi, mi è particolarmente cara, essendovisi dedicato per lungo tempo il mio caro nonno Pasquale. Costruiva carretti per l’agricoltura, e carrozzini destinati a classi sociali più altolocate; la parte più complessa da realizzare erano le ruote: in legno, perfettamente circolari e cerchiate in ferro, al loro centro vi era un mozzo sporgente in legno molto duro, generalmente di olmo o “arulu”, per dirla alla pietramelarese; la durezza del legno era necessaria, dovendo tale mozzo, detto “miulu”, reggere lo sforzo e il peso dell’intero carro e del suo carico. La caratteristica durezza del miulu, traslata nel linguaggio plastico ed efficace della gente rurale, è divenuta proverbiale, e ha finito per identificare una persona particolarmente testarda, dalla testa molto dura quindi, come “na cap’ e miulu”.
Le tessitrici di tele di canapa lavoravano in locali angusti, a volte malsani e privi di luce, il telaio era una macchina lignea, rudimentale ma, allo stesso tempo, imponente e complessa, al punto da occupare gran parte del locale. Il rumore in tal caso era altrettanto caratteristico, ma sicuramente meno avvertibile per la minore intensità, e le tessitrici potevano anche cantare, lavorando . Ce n’erano diverse a Pietramelara, sia nelle strade del borgo che in qualche via più periferica, penso siano del tutto scomparse verso la metà degli anni 60.
Gli stagnari, oggi detti lattonieri, si dedicavano a produrre canali di gronda in lamiera, o altri oggetti che potevano essere ottenuti da tale materiale, tipo stari per l’olio, o secchi e recipienti vari; da non confondere con i ramari, dediti a battere il rame per ottenere caldai e pentole; la tossicità del rame imponeva che la parte interna di questi manufatti, quella a contatto con gli alimenti, venisse ricoperta di stagno, a caldo. I fabbri esistevano ed esistono ancora in paese, tuttavia quelli di un tempo non disponevano di saldatrici ne a arco ne a cannello, per cui tutto il lavoro, per produrre aratri o altri attrezzi agricoli, zappe e vanghe, veniva svolto alla forgia, cercando di plasmare il ferro incandescente. Un mestiere, oggi scomparso a Pietramelara, ma molto ricercato ovunque attualmente, era il seggiaru o ‘mpagliasegge, il modello di sedia prodotto quasi sempre lo stesso, in due o tre misure di grandezza (segge e siggiulelle) con intelaiatura in castagno, per i piedini e lo schienale, e paglia ritorta per la seduta.
Ce ne sarebbero altri ancora di cui parlare: ammolaforbici (arrotini), scarpari, zappatori, capère (pettinatrici), seringare (facevano iniezioni a domicilio)ecc. mestieri, attitudini, professionalità ormai perdute, sinonimi e simboli di una civiltà rurale ormai tramontata, ma ancora rinvenibile distintamente in tutti noi.

mercoledì 13 luglio 2016

COMPAGNI DI VIAGGIO MAI CONOSCIUTI

La tragedia di queste ore mi tocca da vicino: per me, pendolare, quelle ventisette vite spezzate sono i miei compagni di viaggio, con i quali scherzo, sorrido, commento il livello del servizio ferroviario. Quei due treni della 'Ferrotramviaria', le ferrovie del Nord barese, che si sono scontrati frontalmente intorno alle 11.30 di ieri , sulla tratta a binario unico tra Andria e Corato, in aperta campagna, erano in tutto e per tutto quelli che uso prendere io per andare e tornare dal lavoro, i viaggiatori per la stragrande maggioranza pendolari, come me.
Viaggiare in treno per lavoro o per studio è un’esperienza coinvolgente e socializzante e io li immagino, questi compagni di viaggio mai conosciuti un istante prima dell’impatto fatale: c’era sicuramente qualcuno che chiacchierava, qualcuno leggeva, altri ascoltavano musica o osservavano il display dello smartphone, il livello dell’aria condizionata poteva essere troppo caldo o troppo freddo, e fuori dal finestrino la campagna pugliese, arida e bellissima, con il mare sull’orizzonte. Tempo qualche attimo e il viaggio si è interrotto… per non essere mai più ripreso. La scena del dramma: i corpi straziati, i lamenti dei feriti, le lamiere contorte e fumanti.
Il mestiere del pendolare non è piacevole, lo si fa per bisogno, ma dopo poco tempo lo si ama, a tal punto da non poterne fare a meno. D’inverno si esce di mattina quando è ancora notte e si ritorna a sera, quando l’oscurità è già calata; insieme si soffre il freddo pungente e d’estate il caldo torrido, insieme si soffrono ritardi e soppressioni di treni, disagi che, se da un lato turbano non poco gli equilibri quotidiani, dall’altro rinsaldano rapporti, nella solidarietà che può essere indotta solo da una comune disavventura. Da pendolari si osservano scene che difficilmente si potrebbero osservare altrove, un’umanità tutta da raccontare, variegata e multietnica, che soffre, spera, e soprattutto cerca di progredire nello studio e nel lavoro.
In tale cornice si è consumata una tragedia immane, forse il più grave incidente che la storia ferroviaria di questa nazione possa ricordare. Ben ventisette vittime e cinquanta feriti sono l’ennesimo tributo pagato da questo sud operoso alla disattenzione politica, all’ignorare problemi annosi che di giorno in giorno accrescono la loro gravità. Riposate in pace, miei cari compagni di viaggio mai conosciuti, per il momento non posso dire altro.

lunedì 20 giugno 2016

GATTOPARDI A PIETRAMELARA

Le elezioni per il rinnovo del Consiglio Comunale a Pietramelara ci saranno solo l’anno venturo, eppure alcune considerazioni, anche alla luce dei recenti risultati elettorali vanno fatte.
Quello a cui abbiamo assistito è stato un voto di protesta e di rifiuto, le forze di centrosinistra hanno accusato il colpo e, anche se il nostro Presidente del Consiglio si sbraccia per rassicurare e rassicurarsi, per affermare che, in fondo, si tratta solo di un voto locale, che il governo del paese non subisce alcuna delegittimazione, è chiaro che da stanotte nulla sarà come prima. Per non parlare poi del centrodestra, entità politica sempre più in rarefazione, lacerato com’è da faide interne e mancanza di leaders autorevoli. La gente non ne può più di decisioni ingiuste e cervellotiche, le condizioni di molte famiglie sono sempre più critiche, e pertanto si reagisce affidandosi a chi viene percepito come antitesi alle forze al potere. Non sono convinto infatti che quella di stanotte sia una vittoria piena di Grillo e del suo movimento pentastellato; chiunque altro fosse partito dallo stesso punto, in un contesto del genere, avrebbe riscosso il favore degli elettori, grazie al solo fatto di essersi dichiarato “contro” (contro il governo, contro l’euro, contro l’Unione Europea…contro tutto).
In che modo tale stato di cose influenzerà l’elettorato pietramelarese? I mali dell’Italia sono i mali di Pietramelara, inoltre qui da noi si soffre per una forte carenza nei servizi pubblici che rende di fatto sempre più difficoltosa la vita; non è un popolo reattivo il nostro e in passato abbiamo dovuto assistere a “gattorpadeschi” cambiamenti (nel romanzo di Tomasi di Lampedusa il protagonista dice "Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi" ndr). In un ventennio si sono alternate due amministrazioni alla guida del comune, sono cambiati – si – gli uomini ma la musica che si è ascoltata è praticamente la stessa. In altre parole si è assistito ad una sostanziale continuità, in base alla quale alcuni poteri hanno imposto il gruppo dirigente grazie a piccoli ricatti e clientele, ricevendo in cambio laute prebende dagli eletti. La paura di cambiare ha fatto il resto e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: i paesi circostanti ci hanno superato da tempo sotto il profilo dello sviluppo economico, della cultura e dei servizi e mentre da noi si continuava a pensare solo agli asfalti altrove si progettavano e realizzavano opere di forte impatto economico e culturale. Si pensi al restauro della torre longobarda di Statigliano, alla rifunzionalizzazione dell’imponente castello di Riardo (di recente location di eventi culturali di alta rilevanza), al ritrovamento del teatro tempio di Monte San Nicola in Pietravairano e tanto altro. Nessuna attenzione è stata dedicata nel frattempo al nostro borgo, meno che nulla al complesso archeologico delle Grotte di Seiano, eppure le risorse c’erano, bastava richiederle nei modi appropriati!
Chi la domenica mattina si reca al millenario mercato avrà constato che esso versa in stato di agonia, grazie alla brillante intuizione della delocalizzazione al di fuori del perimetro urbano, responsabile, tra l’altro in gran parte anche della crisi acuta sofferta dal commercio nel centro storico.
E’ uno scenario tutt’altro che piacevole, anche perché, diciamoci la verità, continuando di questo passo la nostra terra è destinata a uno spopolamento sempre più drammatico; e lo spopolamento induce comunità fatte di vecchi, dove si vive di sola televisione e i contatti sociali sono sempre più rarefatti.
Per ritornare al tema iniziale, alle elezioni, si avverte un urgente bisogno di cambiamento, di una reazione spontanea ed energica; alla stregua di quanto avvenuto a Roma e a Torino (in misura minore a Napoli) la gente deve resistere ai piccoli favori in cambio di uno o più voti; i poteri che da due decenni hanno condizionato le elezioni si risveglieranno anch’essi fra poco e cercheranno ancora una volta di rendere immutata ed immutabile la scena, ma ad essi va opposto un secco no.

giovedì 2 giugno 2016

FESTA DELLA REPUBBLICA

Nei ricordi di un bambino degli anni ’60 la Festa della Repubblica si identifica soprattutto nel non aver mai mancato, insieme a mio padre, l’appuntamento televisivo con la bellissima parata sui Fori Imperiali. A parte tutti i bei discorsi sugli armamenti, sul pacifismo e bla, bla, bla… apprezzavo quel vero clima di festa, quella partecipazione di una grande folla ad un evento sentito, vissuto e condiviso: la musica delle fanfare, le uniformi, uomini e donne, giovani e bellissimi, mostravano al mondo il volto dell’Italia, una nazione e un popolo da poco riemersi da una guerra disastrosa, che aveva saputo recuperare posizioni su posizioni e da qualche anno aveva partecipato alla fondazione dell’Europa Unita.
La nascita della Repubblica Italiana avvenne a seguito dei risultati del referendum istituzionale del 2 e 3 giugno1946, indetto per determinare la forma di Stato da dare all'Italia e che vide 12.717.923 (54,3%) cittadini favorevoli alla repubblica e 10.719.284 (45,7%) cittadini favorevoli alla monarchia, i cui risultati furono proclamati dalla Corte di cassazione il 10 giugno 1946, mentre il giorno successivo tutta la stampa dette ampio risalto alla notizia. I presunti brogli elettorali e altre supposte azioni "di disturbo" della consultazione popolare, pur avendo costituito un tema di rivendicazione da parte dei sostenitori della causa monarchica, non sono stati mai confermati dagli storici non di parte; d’altronde il margine della vittoria fu ampio e non risicato (2 milioni di voti), motivo per il quale difficilmente tali brogli avrebbero potuto influenzare il risultato finale della consultazione.
Il tempo è cambiato e ci ha cambiato, ed anche se stamattina non mancherò di guardare in televisione la parata (o almeno qualche pezzo di essa), guardo al 2 Giugno come una grande occasione di coesione nazionale. Dopo un certo percorso di studi e documentazione, il 2 Giugno, oggi per il vostro blogger scribacchiante, è stata una grande occasione storica, per il Sud dell’Italia, di liberarsi di una dinastia imposta con le baionette, il fuoco e la violenza su un popolo inerme. Mettere i Savoia sul trono d’Italia infatti costò la vita a milioni di uomini, donne e persino bambini, rei semplicemente di non essere d’accordo, e interi paesi in quella guerra non dichiarata furono di fatto cancellati, vedi gli episodi di Pontelandolfo e Casalduni. Ma non bastò: dopo essersi impossessati dell’intera penisola, i Savoia ressero il gioco del fascismo e, caduto questo, con il nemico alle porte, si diedero a una vergognosa fuga da quella Roma di cui si erano impossessati ottant’anni prima.
Eppure fu proprio il popolo del Sud a sostenere maggiormente la monarchia nel referendum: nello spoglio delle schede i risultati, dalle nostre parti furono ampiamente a favore della monarchia, e dopo il referendum non mancarono scontri, durante i quali si verificarono alcune vittime, come ad esempio a Napoli, in Via Medina. Strano popolo il nostro, si affeziona ai suoi capi e si fa manovrare oggi come allora da loschi figuri!

venerdì 27 maggio 2016

ADDA PASSA' A NUTTATA

Nel recente pezzo, pubblicato dal sottoscritto su questo blog, dal titolo “Tre Fasi”, un passaggio è stato oggetto di polemica. Il passaggio è il seguente: “E’ il momento di aprire gli occhi, vengano fuori i giovani, quelli motivati e dotati di iniziativa. Altrove ha funzionato! Il vecchio è stato oggetto di rifiuto netto e totale: donne e uomini di età raramente superiore ai quaranta hanno dato luogo ad amministrazioni slegate dal passato e da compromessi. Può funzionare anche da noi? … non saprei, ma di sicuro vale la pena tentare”. In sostanza, mi si accusava di essere stato discriminatorio nei confronti degli ultraquarantenni. Ma… già da come si legge, la formula è dubitativa, indice del fatto che anche il vostro blogger scribacchiante non ha piena certezza del successo di un’iniziativa politico/amministrativa del genere; orbene , dato che i miei scritti non hanno alcun carattere normativo, e pertanto mai e poi mai potrebbero essere discriminatori nei confronti di chicchessia, se sono stato poco chiaro cerco di spiegarmi meglio all’amico che si è sentito piccato dal passaggio in questione.
Ritengo che, dato lo stato in cui versa Pietramelara (zero servizi, economia al collasso, casta impiegatizia costosa ed autoreferenziale, territorio abbandonato a se stesso), sarebbe preferibile che, dopo tante amministrazioni legate al passato, si cominciasse a respirare un po’ di aria nuova, nuove donne, nuovi uomini e, soprattutto, nuove idee; con questo non voglio impedire niente a nessuno, per carità! Anche perché pochi decenni di vita non sempre sono sinonimi di “giovinezza mentale”: c’è chi nasce già vecchio e chi continua, invece, a conservare mentalità aperta anche a oltre ottant’anni. Chi vuole si faccia avanti e si sottoponga al giudizio dell’elettorato, indipendentemente dalle esperienze passate e dagli anni che ha vissuto.
Chi si propone alla guida della nostra comunità deve essere conscio che l’Ente ha bisogno di una rivoluzione totale, dal punto di vista gestionale, politico e finanziario. La cosa richiede tempo e passione, insieme ad attributi che, nel colorito linguaggio meridionale, vanno sotto il nome di “palle”. Se ci guardiamo un attimo indietro si vede con chiarezza che quello che è mancato da almeno due decenni è il coraggio dell’impopolarità; la scelta è stata quella di salvaguardare interessi particolari e lasciarsi vivere, tanto, per dirla con il grande Eduardo “Adda passà a nuttata”.
Le “minestre riscaldate” non dovrebbero piacere più a nessuno eppure…
Il primo obiettivo che ci si deve porre è: Pietramelara torni ad essere un paese “normale”. Il nostro Paese, dobbiamo con serenità ed onestà riconoscerlo, da tempo è uscito dal solco della normalità, dove per normalità si intende soprattutto chiarezza nei ruoli e nelle funzioni, sicurezza sociale, fiducia nell’avvenire. Il politico fa il tecnico, ed il tecnico fa il politico, il funzionario tifoso fa la campagna elettorale, questi sono indicatori di una situazione da correggere e di ruoli da ripristinare, nell’interesse di tutti.
La sicurezza manca, le nostre case continuano ad essere violate, e si verificano episodi criminosi sino a qualche mese fa del tutto inimmaginabili; i giovani, soprattutto i giovani, sono sfiduciati.
Altro che discriminazione... chiunque condivida questo appello si proponga, ormai il tempo a disposizione è veramente poco!

sabato 21 maggio 2016

RISORSE ALTROVE NON DISPONIBILI

Giovedì mattina, Reggia di Caserta, sala degli specchi, per un convegno sulle proprietà nutritive e farmaceutiche della mela annurca, giovedì pomeriggio nella nostra palestra comunale, annessa alla scuola media, relatore a nome dell’associazione “Work in progress/Pietramelara” in un evento dedicato alla “giornata della famiglia”, sulle tematiche della civiltà rurale e del territorio e sugli obiettivi dell’associazione, venerdì, infine, presente all'inaugurazione della rinata Torre Normanna di Roccaromana. Come stanno insieme cose così distanti nelle problematiche affrontate? La risposta è semplice: il mimino comune denominatore è proprio il territorio, inteso come spazio fisico ove si incontrano la storia, la civiltà, l’economia e la politica.
Mi spiego meglio, una mattinata dedicata all’annurca è stata l’occasione per apprendere lo stato della ricerca su questa peculiarità straordinaria della nostra terra, la Campania settentrionale, una volta Campania Felix; parlare, invece, a ragazzi e genitori di Pietramelara si poneva l’obiettivo di comunicare gli elementi di una civiltà rurale che in passato ci ha plasmato, nel carattere e nel lavoro, e i cui effetti non si sono ancora del tutto attenuati; il suggestivo evento di inaugurazione dell’imponente torre, da sempre sotto i nostri occhi, ai vertici della collina che sovrasta Roccaromana, è stato un momento di straordinaria coesione fra comunità. Come si può capire il nucleo dell’interesse riguarda un’insieme di particolari ed elementi che si riferiscono imprescindibilmente alla nostra identità; si tratta in sostanza di tre momenti vicini si nel tempo ma, anche e soprattutto, dotati di una loro spinta coerenza interna. Essere stato presente ad ognuno di essi ha comportato il rafforzamento nel vostro blogger scribacchiante di una consapevolezza: sentirsi sempre di più cittadino di questo mondo un po’ defilato, scarso di infrastrutture e servizi, nel quale chi vi abita è costretto per lavorare ad emigrare altrove o, nella migliore delle ipotesi, a fare il pendolare. Ma, ne sono convinto, un mondo per il quale è ancora possibile fare qualcosa, prima del suo definitivo tramonto.
Autorevoli economisti sostengono che il persistere di un’economia debole nel meridione d’Italia sia dovuto in massima parte all’errore commesso della classe dirigente di aver preferito puntare in passato ad un “economia mobile” i cui i beni si possono produrre ovunque (a costi più ridotti) senza che le caratteristiche del prodotto ne risentano (industria automobilistica, degli elettrodomestici, industria chimica). A tale tipo di economia mobile si contrappone un’economia del territorio, che valorizza risorse altrove non disponibili: paesaggio, ambiente, monumenti, eccellenze agroalimentari. I beni e i servizi che ne derivano possono essere solo goffamente imitati, ma mai, in alcun modo, riprodotti altrove.
Le Fiat Panda prodotte in Polonia o in Brasile, ad esempio, sono in tutto e per tutto identiche a quelle prodotte a Pomigliano d’Arco o a Cassino, ma sicuramente costano di meno a chi le produce, inducendolo nella costante tentazione di chiudere gli impianti più costosi, con i disastrosi cali occupazionali a cui assistiamo quotidianamente. Provate invece a produrre mele annurche, mozzarella di bufala, o aglianico in un altro territorio diverso da quello di origine: collezionerete di sicuro insuccessi! Ed è facile comprenderne il motivo.
La Torre Normanna, appena rifunzionalizzata e recuperata ha sfidato i secoli, ed ad onta di cataclismi e terremoti rimarrà ancora li per tanto tempo, a disposizione del turista o di chiunque altro ne voglia fruire.
Ecco allora che la premessa di questo pezzo: sostanziale omogeneità fra i tre eventi che mi hanno visto presente, si inserisce in un quadro di progettualità politica per il futuro, che fa, ad esempio, degli amministratori di Roccaromana o degli associati a Work in progress – Pietramelara degli innovatori, persone in grado di vedere ben aldilà della punta del proprio naso. Per la sopravvivenza dei nostri territori e delle comunità che vi abitano è indispensabile tale approccio.