Scribacchiando per me

Scribacchiando per me
il blog di un pietramelarese

lunedì 28 marzo 2011

Con il vento in faccia

Mi è sempre piaciuto, sin da bambino, è stato il sogno più ricorrente della mia adolescenza: andare in moto. Non importa se la tua compagna di avventura ha più di vent’anni e tanti chilometri nei pistoni e nelle ruote, l’idea di libertà che ti comunica è veramente unica!
La tua amica giapponese è lì, in garage, che ti aspetta, non ti mette il broncio perché per quasi sei mesi non l’hai degnata di uno sguardo; appena i raggi del sole inteporiscono l’aria, la tentazione di lasciare tutto e dedicarti solo a lei si fa sempre più grande. Si ricarica la batteria, un poco di pazienza nel riavviarla, perché è stata ferma per tanto tempo e…via, si riparte. E’ bello correre con lei verso il mare, ma le strade dove si concede come il più piacevole dei divertimenti sono quelle di montagna. Curve, tornanti e contro tornanti da affrontare piegando sul fianco: in linguaggio tecnico si direbbe “in derapata” , ma… dalle nostre parti rende meglio “ca recchia ‘nterra”.
In tutta sincerità soffro non poco nell’indossare il casco, specialmente quello integrale. Non è per insofferenza nei confronti delle regole, ma perché ritengo che tutta la percezione del bello, che c’è nel viaggiare in moto, ne risente. Suoni e rumori si attenuano ed, a volte, le immagini ed anche gli odori che vengono dalla ambiente circostante sono molto meno avvertibili.
Non mi piacciono molto le moto più moderne, le trovo molto omologate e prive di personalità, specialmente quelle carenate, molto più simili a siluri; così come ritengo non sia da veri motociclisti sfidare i limiti del mezzo e quelli propri nella capacità di condurlo, è preferibile procedere ad andatura “da crociera”: è il modo migliore di viaggiare con lei apprezzando ciò che ti circonda e, al limite, scambiando qualche impressione col passeggero che conduci con te.
L’eterno fanciullo che alberga in me, ad onta degli anni, spera tanto di rimanere motociclista, nell’animo e nel corpo, ancora per tanto tempo... con il vento in faccia!

lunedì 21 marzo 2011

UN INGENTE DEBITO

L’essere vissuto nello stesso luogo da oltre cinque decenni permette di apprezzare il cambiamento subito da quel luogo, e dalla comunità che lo abita, anche da aspetti che, ad un osservatore distratto, possono sembrare marginali e privi di significato. Nel frattempo, ad esempio, anche la Festa Patronale è profondamente cambiata, anche se, apparentemente i luoghi in cui si tiene sono gli stessi, stesse o quasi le funzioni liturgiche, simili sono gli spettacoli . Ciò che, di sicuro, è cambiato é l’aspetto della folla per le strade. Le feste patronali, anni ’60 e ’70, erano frequentate da pietramelaresi, abitanti dei dintorni e numerosissimi emigrati; tra le poche macchine circolanti per strada, erano quasi di più le svizzere e le tedesche, con la targa bianca, rispetto alle nostrane con targa nera a caratteri bianchi con la sigla, a noi familiare, CE; gli emigrati di allora erano uomini e donne che parlavano il nostro dialetto, amavano ritornare per rivivere le stesse tradizioni, avevano profondi legami con la nostra terra. Le stesse feste nel terzo millennio, sono, al contrario, con la fine dell’emigrazione, ricche di facce diverse: si notano persone dai tratti somatici nordafricani, centroeuropei ed asiatici che, vuoi per curiosità, vuoi per impiegare il tempo libero, oppure per ingannare la solitudine o per esigenza di integrazione, si aggirano fra bancarelle, luminarie ed i tavoli dei bar in piazza.
Chi si occupa di queste cose collega il boom dell’immigrazione in Europa con il crollo del muro di Berlino, con il fatto che la terra è divenuta “villaggio globale”, con la ricerca affannosa, infine, di scenari socio/economici più sereni ed opulenti. Sta a vedere che questi fenomeni “planetari” non hanno provocato effetti e risultati anche da noi, in occasione dell’attesissima Festa Patronale? Chissà…A pensarci bene gli stranieri di ieri, emigranti,e gli stranieri di oggi, immigranti, in hanno tanto in comune: hanno lasciato una realtà dura, fatta di miserie morali e materiali, con la speranza di un futuro migliore, si sono allontanati, loro malgrado, da affetti, amicizie e luoghi cari; ma soprattutto li accomuna il fatto che nei loro riguardi, tutti noi, che non abbiamo conosciuto la dura realtà del migrare, abbiamo un ingente debito. Dobbiamo a loro, oggi come allora, una grande ricchezza economica: per le rimesse degli emigranti, ieri, che hanno cambiato l’aspetto del nostro Paese, e per l’apporto di lavoro degli immigranti, oggi, che permette a tante attività agricole ed artigianali di sopravvivere prosperando; inoltre, a tale grande ricchezza economica va aggiunta un’altrettanto grande ricchezza culturale, grazie alla quale i nostri emigrati hanno recato con sé, ritornando, saperi, tecnologie, lingue e modi di vivere a noi sconosciuti; analogamente gli immigranti trasfondono, nei luoghi dove trovano ospitalità e lavoro, usanze, modi di essere e di pensare, che di sicuro arricchiscono, nella diversità, i popoli ospitanti.

venerdì 18 marzo 2011

Interprete del mio tempo…

Ritengo quella dello scrivere la maniera più aperta e democratica di rapportarsi con gli altri. La parola, intesa come espressione orale è, per sua natura, più soggetta a malintesi e distorsioni. Chi mette su carta le proprie sensazioni, il proprio modo di pensare sa che, dal quel momento in poi, poche o nulle saranno le possibilità di ritrattare o riadattare ciò che si è scritto: …scripta manent! Come dicevano i nostri progenitori latini. Chi lo fa per abitudine, passione o mestiere, inoltre, sa benissimo, con largo anticipo, che i propri scritti potranno essere oggetto di discussione, critica, e, non di rado, anche di ironia. E’ forte la responsabilità di chi scrive per gli altri, ed essa aumenta man mano che aumenta il numero di lettori; tuttavia si può scrivere anche senza avere un destinatario, quasi per instaurare una sorta di dialogo con se stessi. Non mi ritengo un giornalista, né tantomeno un cronista; tempo fa, alla radio, parlando di me, ebbi il vezzo di autodefinirmi “interprete del mio tempo e della mia città”. Detto questo, la sterile polemica sul mio essere o meno “di parte” si svuota di ogni significato ed importanza: sono di parte, sono il primo ad ammetterlo, e… con questo? L’importante è che non si usi la scrittura per offendere gli avversari, e che le notizie che si riportano siano attendibili. Non ritraggo alcun reddito da ciò che scrivo e, pertanto, posso permettermi di dare ascolto esclusivamente alla mia coscienza ed alle mie facoltà di giudizio. Il mio “essere di parte”, onesto e dichiarato, si distingue, infine, nettamente anche da coloro che si autodefiniscono imparziali, ma in realtà sono sempre al servizio del potere, pronti a decantare ogni impresa del proprio padrone momentaneo, anche le più nefaste, infiocchettandole con espressioni melense e false, per prepararsi, nel contempo, a scaricarlo, appena la sua stella declina, per sceglierne uno nuovo.

martedì 15 marzo 2011

IMPRESSIONI DI VIAGGIO

Essere solo in macchina, mentre viaggio per diletto oppure per raggiungere il mio posto di lavoro, mi permette di pensare, progettare, formulare ipotesi e, perché no… anche pensare a cosa dovrò scrivere nel prossimo pezzo per il mio blog.
E’ un vero incontro con me stesso che si ripete quasi quotidianamente: andata rincorrendo l’alba e ritorno con il tramonto che ti viene dietro!
Viaggiare per quella mezz’ora tra la Casilina e l’Autostrada: non solo si pensa ma si osserva anche, e tanto. Il paesaggio, certo… ma anche l’imbecille che guida leggendo il quotidiano appena acquistato, una coppia in crisi che approfitta anche dell’auto per litigare gesticolando vistosamente, innamorati in vena di effusioni, un camionista distratto da una generosa fanciulla che fa mostra di se sul ciglio della strada.
Da tanto tempo percorro ogni giorno l’autostrada e, nel tempo, ho maturato la convinzione che in essa si concentrino un gran numero di metafore sul nostro vivere: chi corre nel tuo senso e chi ti viene contro, la fretta di alcuni ed il prendersela con comodo di altri, le piazzole per le soste brevi e le aree di servizio per le pause di maggior durata.
Non si sbaglia di grosso, quindi chi pensa che i prodotti della tecnologia siano in assoluta antitesi con la poesia? Essa è connaturata in noi, ed ogni atto del pensiero umano, sia esso rivolto alla nostra più intima essenza, sia esso rivolto alla scienza ed alla tecnologia, le riserva uno spazio.

lunedì 7 marzo 2011

Il carnevale che ricordo io

Il carnevale che ricordo io, quello degli anni ’70 per intenderci, era una grande festa per ogni pietramelarese; ognuno, artigiano, operaio, professionista sentiva il dovere, oltre al diritto naturale, di parteciparvi.
Nacque da un’idea dell’Azione Cattolica, ripresa ed ampliata dalla Pro Loco, che allora muoveva i suoi primi passi, eravamo agli inizi di quel decennio, e la crisi petrolifera, quella delle “domeniche a piedi”, ancora non si era manifestata.
Come in tutte le cose che riguardano il ricordo e la nostalgia, il rischio più forte è quello di scadere nella retorica, tuttavia voglio provare a descrivere quello che ricordo ai miei “quattro lettori”.
La preparazione cominciava nel tardo autunno ed era coperta da un velo di segreto quasi inviolabile. Erano gli artigiani locali i veri protagonisti: i “Serafini”, Mario e Franco Panebianco, i Di Lauro con i loro collaboratori, riuscivano a creare opere che ancora risiedono nella memoria di quanti hanno avuto la fortuna di ammirarle. Chi non ricorda, ad esempio, i costumi del Sandokan pietramelarese, con Mario nella parte della “Tigre di Mompracem”, il gigantesco King Kong, la Nave dei Pirati, il Cavallo di Troia e tanti altri ancora. Vi era poi un gruppo di ragazzi che si ostinavano ogni anno ad interpretare una tribù di pellerossa; a Carnevale fa freddo e ricordo le loro espressioni contratte dall’aria gelida, siccome, per coerenza con il ruolo, erano costretti a recitare seminudi.
Di sera la festa si animava ancora di più con il Festival delle “Voci senza Speranza”, erano i tempi di Salvatore il francese, insuperabile chansonnier, ottima “cover” di Charles Aznavour si sarebbe detto oggi, Mastu Cicciu, irresistibile macchiettista, Leucio il falegname, con la sua voce potente ed armoniosa: molti di loro purtroppo ci hanno già lasciato. Tra il pubblico del festival ogni tanto spuntava un gruppetto di maschere, camuffate in modo da rendersi irriconoscibili, sotto le cui “mentite spoglie” amavano celarsi studenti ed irreprensibili professionisti.
Onore a loro… e onore a chi, ancor oggi, cerca di perpetuare la tradizione! Ma, cosa manca affinché quei fasti si possano rivivere?
Se un decadimento della manifestazione c’è stato, la colpa non è da ascrivere a nessuno; il carnevale è solo una delle tante lodevoli iniziative intraprese e poi lasciate consumarsi, secondo una collaudata consuetudine pietramelarese. E’ venuto a mancare quel “comune sentire” di cui si parlava all’inizio, quel diritto/dovere condiviso, che spingeva i concorrenti a fare sempre di più e sempre meglio.

venerdì 4 marzo 2011

Aspetto la bella stagione

Aspetto la bella stagione! Sono in ritardo con i lavori in campagna, anche il lavoro “istituzionale”, quello dell’Ufficio, subisce rallentamenti a causa del mio umore.
Aspetto la bella stagione: sono sicuro che la temperatura che sale, il sole che diventa sempre più “di famiglia”, la brezza che prende il posto della tramontana, daranno una mano al mio spirito.
Mi piacerà uscire prima di sera, tra aprile e maggio: andare in campagna dove domina l’odore del fieno, che a volte sposa quello dei fiori di acacia; oppure in piazza per vedere qualche amico e passare una mezzora seduto al tavolo del bar.
Il giorno poi si allungherà sempre di più, la notte tarderà a venire, e questo dispone l’animo alla gioia, anche senza averne alcun motivo.
Ci sarà tanto da fare…ma qual’ è il problema? Il lavoro fisico e la fatica mentale non faranno sentire mai tutto il loro peso, così come succede con questo tempaccio “da chiodi”.
Tirerò fuori la mia vecchia moto, indosserò (controvoglia) il casco e partirò per un giro senza meta. E’ bello prendere il vento in faccia, procedendo a quell’andatura tipica di chi motociclista lo è sempre stato, di chi ama la discrezione di marmitte poco rumorose, ma riconoscibili da lontano.

mercoledì 2 marzo 2011

INCONSAPEVOLI FILOSOFI

Si chiamano Angelo, Liberato e Domenico (Minicuccio), sono anch’essi filosofi del “pensiero debole”, ma…a loro insaputa! Con loro trascorro uno dei segmenti della mia giornata: la sera, poco dopo l’imbrunire: ci sediamo al tavolo del bar in piazza, se fa freddo o piove, o fuori, quando il tempo è più clemente.
Con gli “inconsapevoli filosofi” si ragiona di tutto, ma vi sono alcuni argomenti che prevalgono: le cose di campagna, ad esempio. E’ tempo di potare la vigna, sistemare l’orto, travasare il vino! il letame delle bufale ha lo stesso effetto di quello delle vacche?… e così le discussioni prendono corpo, a volte si accendono fra reciproche incomprensioni, i pareri divergono quasi su tutto, ma poi, si stappa una Peroni…e le acque tornano a calmarsi.
Mi piace osservarli, anche prendendo parte alle loro discussioni, convinto come sono che essi impersonano la vera essenza dell’appartenere ad una comunità rurale. Insieme a loro, sento di non perder tempo: si tratta degli ultimi testimoni e difensori di un modo di essere e di vivere, un tempo molto più diffuso di oggi. Loro, come me, escono di sera per quell’innato bisogno di comunicare che risiede in tutti noi; in un appuntamento quasi fisso, ci si ritrova senza la fretta e le ansie che caratterizzano la prima parte delle mie giornate, sostituite dal contemplativo piacere di star con loro, ascoltarli, e…a volte, provocatoriamente contraddirli.