Scribacchiando per me

Scribacchiando per me
il blog di un pietramelarese

lunedì 27 febbraio 2012

DOMENICA

La mattinata in piazza insieme a quattro amici, a discutere di un manifesto politico dai contenuti poco chiari; il mercato, aggirandosi tra le bancarelle, tra un assaggio di olive e i “panni americani”; il pranzo domenicale con la famiglia: odore di buono che si avverte già dalla strada; una passeggiata dopo pranzo iniziata con il sole e finita con il timore della pioggia; la sera di nuovo in piazza per rivedere alcuni amici, incontrare altri che non avevo visto stamattina… è così che trascorre la domenica qui da noi!
Niente di speciale, nessuna cosa di cui valga la pena raccontare, eppure chi, volendosi fregiare del titolo di pietramelarese DOC, si priverebbe di ciò?
Quali le ragioni di tanto attaccamento a cose che, alla prima apparenza, sembrano ancor meno che futili? Quali i motivi che hanno indotto uomini a sobbarcarsi viaggi transoceanici per il solo gusto di vivere momenti di questo tipo?
“Otium”, che i latini contrapponevano al “negotium”, sua logica negazione: il contemplare inattivo opposto all’indaffararsi affannato; in altre parole riposo contemplativo per noi, per le nostre interiorità e per il nostro stare insieme, che reciprocamente si osservano.
Ciò che si fa di domenica, pertanto, serve anche a contemperare gli individualismi a cui siamo costretti nell’intera settimana; le corse con il cuore in gola dietro il raggiungimento di un obiettivo, il doversi adeguare, a volte e controvoglia, al volere di chi sta sopra di te, e tanto altro.
Essere legati a questo modo di trascorrere la domenica, giorno clou della settimana, è segno che un’identità collettiva ancora esiste, che ancore si avverte un comune sentire, anche se in modo molto più flebile che in passato.

domenica 19 febbraio 2012

Carnevale e Caraes'ma

Che la mia terra fosse luogo di contraddizioni, di contrappassi, di mutevoli umori, i miei “quattro lettori” l’avranno già capito da un pezzo: non è un caso che, ad una manciata di chilometri, si erga ancora, dopo aver sfidato più di venticinque secoli, un tempio al Dio Giano Bifronte, e che il culto di tale divinità sia stato tanto importante da conferire il nome stesso alla località, Giano Vetusto, appunto. E, dal momento che esse sono un’espressione autentica di stati d’animo collettivi, dalle nostre parti neanche le tradizioni folcloristiche locali sfuggano alla legge della contraddizione e del contrappasso.
Ritengo sia il caso di Carnevale e Caraes’ma (Quaresima), tradizioni vicine e confinanti nel tempo, in fine inverno, ma diametralmente opposte nel portato di significati. Anche le raffigurazioni, le personificazioni ci danno conto di questa antinomia: Carnevale raffigurato come un Re grasso e tarchiato, Caraes’ma come una vecchina macilenta e malvestita, intenta a lavorare al fuso.
Di questi tempi il grasso monarca doveva affrettarsi a preparare banchetti e festini vari, perché, lo sapeva, la sua ora stava per scoccare. Fino a circa un quarantennio fa, per le vie del Paese, la sua fine era una rappresentazione fissa, con tanto di Carnevale morente e con la “pariata” (cfr. nota) sull’addome messa a disposizione da qualche macellaio locale, modo ingenuo ma efficace per significare che il tempo è concluso, che la malattia è avanzata e che per il moribondo non c’è più nulla da fare. Gli uomini impegnati nella pantomima avevano volti seri e compassati, e sembrava quasi avessero fretta di concludere il loro compito: chi si improvvisava chirurgo con coltellacci e mannaie in luogo del bisturi, chi si improvvisava portantino spingendo faticosamente una carriola che faceva da lettiga per il re agonizzante, e chi, infine, interpretava il ruolo di Carnevale morente lanciando urla strazianti con la “pariata” sulla pancia, che faceva bella mostra di sé.
Avevano fretta, si diceva, perché la vecchina, sgradevole e malvestita, stava per prendere il posto che era appartenuto a Carnevale: allora le astinenze avrebbero preso il posto delle abbondanti manciate e bevute, i lazzi e gli scherzi avrebbero dovuto cedere il passo a comportamenti molto più seri. Passato il Carnevale qualcuno sentiva addirittura il bisogno di dover, con un simbolo esteriore, dare conto del momento che si stava attraversando: ed allora, la mattina delle Ceneri, allestiva un manichino, lo vestiva generalmente di nero, con un fazzoletto sulla testa (anch’esso nero) ed un fuso tra le mani, era la figura di Caraes’ma. Questo manichino veniva, ed in qualche contrada ancora viene, issato ed esposto su di un palo quasi come un ammonimento a chi passa a dimenticare gli eccessi del Carnevale ed ad indirizzare la mente a comportamenti più in sintonia con la Quaresima.

NDR La “pariata” è un intestino di pecora, comunemente in vendita nelle macellerie.:

martedì 14 febbraio 2012

Perchè blogger?

…e quando cominciai, un anno fa, non potevo neppure lontanamente immaginarlo, neanche innestandovi una sostanziosa dose di ottimismo: chi poteva pensare che uomini distanti migliaia e migliaia di chilometri da me potessero leggere del mio pensiero, delle mie emozioni, dei miei interessi, della mia terra e le sue tradizioni? Singapore, Giappone, Federazione Russa ed ancora Stati Uniti, Argentina sono paesi in cui il mio scrivere induce qualcuno ad onorare il mio blog di uno o più accessi.
Devo constatare, a ragion veduta, che veramente con Internet le distanze si sono contratte, le differenze culturali annullate! Il blog è uno strumento potente ed economico al tempo stesso, in grado di veicolare flussi di informazioni con efficienza ed efficacia fino ad ieri insospettabili.
Quattromiladuecento accessi, o poco più, in un anno, farebbero sorridere un blogger di professione, ma per me sono veramente tanti, soprattutto se si tiene conto della tematica che il mio blog “Scribacchiando per me” affronta: si tratta di cose che, ad un osservatore distratto e superficiale, non fanno “né caldo né freddo”, ma…è evidente, il numero dei distratti e dei superficiali comincia a diminuire.
Sono contento e soddisfatto, con queste pagine, di rendere un servizio alla terra che mi ha generato, facendo conoscere il suo dialetto, le sue tradizioni, le usanze, i luoghi ed i personaggi particolari; mi piace coinvolgere i miei “quattro lettori” nelle elucubrazioni in tema di sentimenti; provo soddisfazione nel diffondere la “filosofia del pensiero debole”.
Grazie, carissimi amici, del favore che mi accordate e, spero, mi accorderete in futuro.

martedì 7 febbraio 2012

Totonno 'e quagliarella

Tra le tante cose che devo a mio padre, anche una certa conoscenza della canzone napoletana classica, quella proposta da Grandi Maestri come Sergio Bruni, per intenderci. In particolare ne ricordo “Totonno ‘e Quagliarella” il cui protagonista, è un ubriaco filosofo che, sebbene abbia subìto diverse sventure, non si abbatte, ma si accontenta di quel poco che la vita gli offre e, di fronte alle innumerevoli difficoltà dell’esistenza, adotta la tecnica “dell’arrangiarsi”, che poi è una concezione di vita tipicamente napoletana. In una delle strofe salienti, emblema di quella filosofia di vita Totonno a titolo di esempio raccontava:
Ce steva ‘nu scarparo puveriello,
chiagneva sempe ca purtava 'a croce...
'A sciorta lle scassaje 'o bancariello
e pe se allamentà...perdette 'a voce!

Il povero ciabattino si lamentava in continuazione della sua sfortuna, ma ciò non gli fruttò nient’altro che una irrimediabile perdita di voce; e, quindi, dopo essersi tanto lamentato, divenne afono, oltre che povero.
Chi porta una croce è indotto a pensare che essa è l’unica, o quantomeno, che essa pesi enormemente più di quelle portate dagli altri; purtroppo non è così! … di croci e relativi portatori è disseminata la superficie di questo pianeta; a volte il pudore, l’ipocrisia, l’amor proprio o l’orgoglio inducono qualcuno a nascondere la croce e quanto pesi portarla.
Per quanto mi riguarda, ricordo che ascoltavo con certo fastidio, dalla voce del grande Sergio Bruni, i versi “Totonno ‘e Quagliarella”: la gioia di vivere di un bambino, le convinzioni dettate da una infanzia per certi versi ovattata, non mi facevano accettare quella filosofia di vita realistica e triste… ma, oggi, dopo aver vissuto le mie esperienze, devo riconoscerne tutta la realistica positività; devo a quell’insegnamento paterno, arricchito di musicalità partenopea, l’aver potuto presagire, già nella più tenera età, che la vita nell’età matura sarebbe stata tutt’altro che facile. Al contrario oggi, rileggendo il testo integrale del pezzo, sono quasi portato a pensare che Totonno sia stato l’antesignano dei filosofi del “pensiero debole”, a me tanto cari.
Il noto proverbio vuole che “aver compagno a duol scema la pena”, ma io ritengo che, tra la folta categoria dei portatori di croci varie, esso non funzioni più di tanto. Tuttavia giova, ve lo assicuro, compenetrarsi con sincerità e senza melensi pietismi nelle altrui, oltre che nelle proprie, piccole e grandi sventure, magari con una semplice espressione di incoraggiamento.

NDR: Il testo di “Totonno ‘e Quagliarella” fu scritto da Giovanni Capurro nel 1919 (famosissimo poeta autore dei versi de ‘O SOLE MIO), e musicata da Francesco Buongiovanni; sono disponibili sul web sia il testo che qualche video di varie interpretazioni

mercoledì 1 febbraio 2012

LA MIA LINGUA

E’ l’unica lingua che posso dire di conoscere bene: il mio dialetto! Si parla dalle nostre parti, terra di vecchi contadini ed artigiani che, la sera d’inverno, servendosi di esso, si scambiavano idee ed informazioni alla luce ed al calore del focolare, mentre nella bella stagione amavano più o meno fare lo stesso mentre si “frischiava” (cfr nota), magari su un vecchio sedile di pietra accanto l’aia.
E’ una vecchia conoscenza ed un vecchio amore, quello con la mia lingua, figlia sicuramente di quella napoletana, ma anche fortemente distante da essa per sonorità, qui molto più dure ed accentuate, e per evidenti influenze sannite e longobarde. Uno dei miei tanti progetti incompiuti: quello di raccogliere e salvare dal disuso vecchi termini e verbi. Allora avevo meno di vent’anni e tante idee per la testa…ma non è detto che ciò che non è stato fatto in gioventù non lo si possa rifinire e completare nell’età matura!
Non rinuncio, quindi, mai ad usare il mio dialetto per comunicare - è ovvio- con chi mi capisce con facilità, con chi condivide con me l’avventura di vivere la nostra terra; sarebbe veramente assurdo e velleitario rivolgersi ad un milanese, usando il nostro linguaggio.
Quant’è bello ritrovarsi fra amici che condividono questa passione e passare il tempo a rivangare vecchi modi di dire, nomi di oggetti della civiltà contadina, aggettivi! Sono momenti in cui l’identità comune emerge con forza: allora, il superlativo assoluto di bugiardo è “pezzecchieru”, quello di goloso è “all’ccarissu”. Chi si ricorda come si chiamava quella paletta metallica destinata a ripulire la madia dai residui di pasta di pane? A ‘raritora, da non confondere con la stannatora oggetto simile, ma di dimensioni maggiori, utile a liberare l’aratro dalla terra umida ed argillosa che vi si attaccava…e così via.
L’ilarità si fa forte quando si passa ai soprannomi che alcune famiglie, dopo secoli, non si riescono a scrollare di dosso: perché, anche se in alcuni casi si tratta solo di richiami al mestiere o all’attività esercitata, o semplicemente alla provenienza geografica, in altri il soprannome comporta una feroce carica di derisione, anche per questioni che adesso non sarebbero assolutamente “politically corrects”, come difetti fisici, difetti di pronuncia, caratteri particolari ed altro. Ma, tant’è: nel nostro retroterra culturale non si è mai andati troppo per il sottile ; le ipocrisie, i modi di dire edulcorati non fanno parte di esso, certamente, ma non dobbiamo meravigliarcene: erano tempi, quelli in cui la nostra lingua si è generata, dove dire bianco significava solo e semplicemente bianco e, al contrario, nero.

Ndr: “frischiare” indica l’usanza di godersi il fresco delle sere d’estate, ragionando all’aperto, per strada con le persone della famiglia e del vicinato.