Scribacchiando per me

Scribacchiando per me
il blog di un pietramelarese

martedì 23 ottobre 2018

UN RESTAURO "FUORI MODA"

Lo spunto me lo diede proprio Teresa, la giovane artista e restauratrice che si sta occupando di esse, le quattro bombe a corona del monumento ai caduti, in piazza. Il comune le ha chiesto di far qualcosa per frenare il sensibile degrado, inflitto ad esse dal tempo e dall’incuria. Il restauro, ormai quasi completo, in vista delle tradizionali celebrazioni del IV Novembre, è consistito in una ripulitura interna, nel riprendere i punti più corrosi dalla ruggine, e in una riverniciatura esterna con un trattamento contro le intemperie. Visto il mio interesse per la cosa, Teresa mi propose: “perché non scrivi qualcosa su queste bombe, e sui restauri che sto conducendo?”. Nella nostra estemporanea chiacchierata, durata non più di un quarto d’ora, mi raccontò che alcune persone di passaggio avevano affermato che si trattava di residuati bellici della I guerra mondiale: “impossibile” avventai io “gli aerei del tempo non potevano in alcun modo trasportare un peso del genere, è evidente che risalgono alla seconda e non alla prima guerra mondiale”. Tempo dopo, una ricerca sul web mi ha permesso di ricredermi in parte: si tratta effettivamente di qualcosa risalente al primo conflitto mondiale, ma non precisamente di bombe di aereo, bensì di bombe “da bombarda”, ovvero ordigni utilizzati dal nostro Esercito in quel conflitto come proiettili di un mortaio da trincea di grosso calibro (la bombarda, appunto cal.240 mm), in dotazione a una specialità di artiglieria, detti appunto “bombardieri”, con maggiore precisione si tratta di bombe da bombarda mod. “240 C”. La conferma definitiva alla mia supposizione mi fu fornita dalla foto di copertina di quest’articolo: nell’immagine proveniente dal Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto, si vede con chiarezza che, in un bosco innevato, alcuni soldati con l’uniforme del Regio Esercito Italiano, lavorano nei pressi di un deposito, ove sono state accatastate bombe uguali in tutto e per tutto a quelle che fanno da corona al nostro monumento; la fustaia di abeti e l’innevamento stanno ad indicare che dovrebbe trattarsi di qualche punto della dorsale alpina, allora “zona operazioni”. Ma non poteva che essere così! … bombe americane, inglesi o tedesche se ritrovate inesplose venivano fatte brillare dagli artificieri, solo quelle italiane, disponibili a conflitto terminato potevano essere disinnescate e rese inoffensive per far da corona al monumento ai caduti di un qualsiasi paese. Il nostro monumento, raffigurante un fante che alza il braccio sinistro esultando per la vittoria, è stato posto in Piazza San Rocco nel 1923, il ventennio fascista era cominciato da qualche mese, e non siamo in possesso, anche perché il nostro archivio comunale è andato disperso, dei documenti che ci permettano di conoscerne l’autore e chi lo avesse commissionato.
Non è facile, miei cari quattro lettori, scribacchiare di armi e di strumenti che danno la morte, specie in tempi come questi, in cui i valori del patriottismo, delle identità etniche e geografiche sono tanto “fuori moda”. Al di la delle ideologie, ritengo comunque che sia una cosa buona restituire dignità a quei residuati, intanto per ricordare ed onorare coloro che con l’estremo sacrificio hanno contribuito a delineare il senso di italianità, ma anche, e soprattutto, per un monito alle future generazioni che possa fare da argine ai pericoli che corre la nostra democrazia e la libertà del Nostro Popolo.
Lode a te Teresa, quindi, che ti sei resa disponibile per il restauro.

venerdì 19 ottobre 2018

L'ABBAZIA DELLA FERRARA

Non c’è monumento dell’alto casertano che più di esso renda testimonianza di cultura, fede e progresso sociale anche in tempi oscuri come il medioevo: l’importanza dell’ Abbazia delle Ferrara, in agro del comune di Vairano Patenora, è purtroppo pari alla sua ridotta notorietà, i più ne ignorano infatti anche l’esistenza.
Edificata a partire dall’anno 1171, per opera di Giovanni de Ferraris, monaco di Fossanova, i lavori di costruzione terminarono nel 1179, e l’abbazia divenne in breve tempo una potente istituzione, con estesi possedimenti non solo nel territorio di Vairano. La platea dei beni dell’Abbazia redatta dal Notaio De Pernutis nel 1622, riporta beni in anche in Pietramelara e Riardo: il toponimo “Ferrarelle” (piccola ferrara) deriverebbe infatti proprio da beni posseduti in quel comune dall’Abbazia, e non, come comunemente si crede, dal fatto che le acque che vi sgorgano siano ricche di ferro.
L’importanza sul territorio di questa istituzione religiosa si fonda sul principio che “i frati, senza alcuna rinunzia al lavoro, assicurano così il necessario per loro stessi e l’assistenza, insieme con la protezione e l’addestramento a coloro, contadini,pastori e artigiani che gli si votano”. Un vero e proprio volano di progresso e sviluppo economico/sociale, con una diffusione capillare, grazie alle articolazioni territoriali con le “grange”, gestite dai conversi e le “curie” gestite dai mercedari. In altre parole i monaci attraverso lo studio e la sperimentazione facevano proprie le innovazioni e le trasferivano a chiunque veniva in contatto con loro; essi vedevano nel territorio integrazione spinta fra boschi, pascoli e campi coltivati, secondo una concezione ecologica ed agronomica rivoluzionaria per quei tempi, ed oggi quanto mai attuale.
Nella sua millenaria storia l’abbazia ha attraversato varie fasi; certamente, quella caratterizzata dalla gestione dell’abate Taddeo fu quella di maggiore splendore. Infatti, nelle prime tre decadi del XIII secolo l’abbazia poté contare sull'amicizia e sulla devozione all'ordine cistercense dell’imperatore Federico II, che soggiornò nel 1223 e nel 1229 nell'abbazia, incontrando l’amico abate Taddeo.
Posizionata su di un ramo del cammino della via Francigena del Sud, nell'anno 1223 ospitò dei cavalieri dell’ordine teutonico provenienti da Oriente.
Dopo la gestione dell’abate Taddeo iniziò una lungo processo di decadimento, sia morale che economico dell’abbazia, fino alla soppressione avvenuta nel 1807; in seguito l’abbazia venne utilizzata come una comune masseria, modificandone irreparabilmente l’originaria struttura.
Rispetto all’aspetto attuale, l’ingresso era rivolto a Sud, in direzione di Vairano. L’interno era costituito da una chiesa con più altari e campanile con tre campane, ormai completamente distrutti, un chiostro con al centro una grande cisterna, mentre al piano superiore vi erano le celle dei monaci.
Sopravvive, in pessime condizioni strutturali, la cappella della Scala Santa, dove è possibile ammirare un affresco, della fine del XIII sec., che rappresenta i funerali di Malgerio Sorello, “valletto e falconiere” di Federico II, che si ritirò a vivere nell’abbazia fino alla morte. Nell’affresco sono raffigurati la Beata Vergine Maria con il Bambino, S. Benedetto, con il mano il libro della Regola, e S. Bernardo di Chiaravalle, anch’egli con un libro sul quale è possibile leggere «Memento, Domine, animae famuli tui, fratris Malgerii Sorelli, militis» (ricordati Signore dell’anima del tuo servo, fra Malgerio Sorello, soldato). Secondo lo storico avv. Domenico Caiazza nell'affresco è rappresentato anche Pietro del Morrone, passato alla storia come Celestino V, papa del “gran rifiuto” citato nell’Inferno dantesco.

lunedì 15 ottobre 2018

VICENZA

Vincenzina Smaldone nacque in via Recinto (ju cintu, ‘ncoppa ju paese) come tanti altre donne e uomini di allora, nel settembre 1913, più di un secolo fa. Dall’atto di nascita apprendiamo che i genitori erano Domenico e una “donna non maritata, non parente ne affine nei gradi che ostano il riconoscimento”, nessun cenno all'identità della mamma, forse per la pudicizia tipica del periodo, forse per salvaguardarne la privacy. Il riconoscimento come figlia legittima poi puntualmente ci fu, un anno dopo, una volta celebrato il matrimonio fra Domenico e Maria Carmina De Ninno (questo il nome della mamma che compare solo nell’annotazione di riconoscimento). Fu tenuta a battesimo qualche giorno dopo la nascita nella Parrocchia di San Lorenzo Martire, l’attuale Sant’Agostino.
I mestieri “ufficiali” a cui si dedicò Vicenza (come tutti la chiamavano) furono, stando alle carte di archivio, quello di ricamatrice e di sarta, ma chiunque la ricordi sa quale fosse la sua attività principale: è stata per decenni infatti la “siringara” di tante famiglie in paese, dall'aspetto gentile e leggero nella figura, dimostrando una singolare professionalità. Tratti immancabili gli occhiali di forma allungata, il fazzoletto sulla testa, una borsa scura ed abbastanza capiente portata al braccio, con tutto l'occorrente per quel mestiere ormai del tutto scomparso, come tanti altri.
Aveva, nei lunghi anni di attività, accumulato un bagaglio di esperienza notevole, praticava con sicurezza endovenose, applicava le flebo, medicava ferite postoperatorie o traumatiche: una vera e propria infermiera a domicilio! Basta fare mente locale a qualche decennio fa per rivederla sempre sola e silenziosa percorrere le vie del paese, i gradini del borgo o le stradine di campagna, per assistere, curare, portare conforto agli ammalati e alle loro famiglie. Un vero modello di crocerossina ante litteram, veniva ripagata per i suoi servigi solo da chi poteva, nelle masserie accettava a volte delle uova o un pezzo di formaggio, per le famiglie in stato di bisogno il lavoro era assolutamente gratis; il tutto accompagnato da una gentilezza innata, da un sorriso malinconico che portava quasi perennemente disegnato sul volto. Devo confessare oggi che a noi, bambini degli anni 60, non piaceva tanto, perché quando entrava in casa significava che era giunta l’ora di una dolorosa puntura... e lei era inflessibile: non andava via se non aveva adempiuto al compito per la quale era stata chiamata.
Anche essendo di aspetto gentile e grazioso, non si sposò mai, tuttavia non volle per questo rinunciare alle emozioni della maternità: l’occasione si presentò curando una donna che aveva da poco partorito. Luigi era un neonato biondo, grazioso ma particolarmente bisognoso di cure ed attenzioni. La guerra era da poco trascorsa con tutte le sue brutture, e Luigi era proprio nato dall’unione di una donna locale con un soldato inglese di servizio dalle nostre parti: un tipico “figlio della guerra”. Vicenza colse l’occasione, lo prese con se, lo allevò come un vero figlio (da cui non pretese mai di essere chiamata mamma), gli diede una professione e se ne separò solo quando lui si sposò, per poi ritornare insieme quando la vecchiaia incombeva, trascorrendo l’ultima fase della sua vita in Riardo, proprio a casa di Luigi.
Un esempio di donna che addito a ognuno dei miei quattro lettori, specie a quelli che non hanno avuto la fortuna di conoscerla in vita.

martedì 2 ottobre 2018

L'AMORE MA ANCHE IL SUO CONTRARIO

Non esagero se dico che con Charles Aznavour, se ne va un pezzo importante della mia giovinezza e di quella di tanti altri che con me l'hanno vissuta sul finire degli anni settanta. Mi riferisco a quei famosi e, a volte, galeotti balli di sera, in casa propria o in quella di amici. Nel corso di quelle “feste da ballo”, le immortali canzoni di Aznavour arrivavano in genere dopo che l'atmosfera era già calda, quando a chi “metteva i dischi” (chiamarlo adesso dj è inadatto e/o riduttivo) sembrava giunto il momento dei “lenti”...si, le “scalette” erano in genere strutturate in tal modo: due tre “svelti” (disco music, tipo Barry White, Stevie Wonder, ecc.), e dopo la serie dei “lenti” piuttosto lunga. Ed allora insieme ai vari cantanti e cantautori nazionali, tipo Fred Bongusto, Bruno Martino, Peppino Di Capri, ecco le immancabili Come è triste Venezia, Lei, Io sono un istrione, Quel che non si fa più, Amore, Devi sapere, veri capolavori dell’artista che ci ha appena lasciato.
Nato a Parigi il 2 marzo 1924 da una coppia di immigrati armeni, Charles Aznavourian (questo il vero nome), morto ieri a Alpilles, nel sud della Francia all’età di 94 anni, è stato il cantautore francese più applaudito nel mondo, infatti nella sua carriera ha venduto 300 milioni di dischi incisi in 7 lingue. Forte il suo legame con l'Italia, anche a motivo di tragiche esperienze di vita. Il suo immenso repertorio è dominato da una sottile e struggente melanconia, adorava cantare le vite sul viale del tramonto, gli amori corrosi dagli anni e dalla noia, il rimpianto per le grandi occasioni perdute. Diceva: «Canto l’amore ma anche il suo contrario. L’amore non è solo quello che va bene, ma anche quello logorato». Forse era proprio tale vena così particolare a farlo apprezzare a noi, giovani di quegli anni, combattuti fra gli ultimi strascichi delle proteste studentesche del '68, le crisi energetiche originate dai conflitti medio-orientali, l'impegno per costruire un futuro migliore (almeno nelle intenzioni) e la voglia di vivere con gioia, tipica di quell'età. Si aspettava un lento di Aznavour quando una ragazza ti interessava davvero, anche perché in quei momenti forse, nell'immaginazione, la disponibilità della “controparte” si innalzava in modo sensibile.
Nell'età matura, anche per quella forza evocativa che possedevano le sue canzoni, capaci di riportarmi con la mente a quelle serate, ho continuato ad ammirarlo ed ascoltarlo: veramente sorprendente la sua capacità di calcare il palco con successo fino alla della fine. Il segreto? Era riuscito ad adattare il suo spettacolo ai suoi limiti. Così per surrogare una vocalità ormai scarsa, Aznavour sfoderava la classe del grande uomo di palcoscenico, una teatralità e una gestualità che sottolineava ogni parola dei suoi versi, la saggezza disincantata di chi conosce a fondo la vita, le donne, la gioia, il dolore, l'ansia, la noia. Usava le rughe, l'età, i capelli bianchi per caricare d'enfasi drammatica un gran numero di canzoni legate proprio al tema degli anni che passano impietosi, alla difficoltà di invecchiare con dignità, al rimpianto di quella giovinezza fuggita.
Se ne va dunque un magico poeta insuperabile nel cantare di sogni infranti, amori sterili («Noi non abbiamo bambini»), vite coniugali vissute nell'incomprensione, emozioni di un attimo.