Scribacchiando per me

Scribacchiando per me
il blog di un pietramelarese

giovedì 30 ottobre 2014

31 OTTOBRE: UNA RICORRENZA D'IMPORTAZIONE

Secondo la signora Wikipedia, notoriamente saccente, Halloween “è una festività anglosassone che trae le sue origini da ricorrenze celtiche (All-Hallows-Eve) che ha assunto negli Stati Uniti le forme accentuatamente macabre e spesso violente con cui oggi la conosciamo e che si celebra la notte del 31 ottobre”. Già da questo si dovrebbe evincere con chiarezza che tutto l’ affannarsi di bambini e mamme ansiose, in questo periodo, è del tutto estraneo alla nostra cultura ed alle nostre tradizioni: in effetti si tratta solo dell’ ennesimo inchinarsi alla colonizzazione anglosassone. La diffusione di tale usanza dalle nostre parti verso è iniziata verso la fine degli anni ’90, e da allora si vedono aggirarsi, con il calar dell’ultima sera di ottobre, frotte di bambini ed adolescenti, che bussano e ripetono la solita domanda “dolcetto o scherzetto?” un po’ stupida, non credete… ma sentita e risentita al cinema o in TV. La domandina e l’aggirarsi per le case non hanno nulla di originale, se si pensa all’usanza del “Buonu e buonannu” andata avanti sino qualche decennio fa, e oggi quasi del tutto dimenticata (cfr. su questo stesso blog http://scribacchiandoperme.blogspot.it/2013/01/buonu-e-buonannu.html); se mi spingo ancora un po’ più in là con la mente, posso anche pensare che le due cose forse hanno radici antropologiche analoghe se non comuni.
C’è poi chi di “Halloween e dintorni” ha pensato di fare una grossa speculazione commerciale, con tanto di gadgets vari e costumi macabri per le feste “ a tema”. Inoltre, che dire delle zucche, degradate da nobile ortaggio e fonte di sostentamento, a basi per sculture di dubbio gusto? Devo aggiungere, per completare il quadro, che non mi sono mai piaciuti troppo neanche gli eventi che in qualche modo, da noi, in paese si ricollegano a tale “ricorrenza di importazione”.
La fine di ottobre e l’inizio di novembre, al contrario, per me e tanti altri (per fortuna) sono ancora i giorni dei morti, della memoria di chi ci ha preceduto e che non c’è più, almeno nella forma fisicamente avvertibile. In questi giorni le “urne dei forti”, di foscoliana memoria, dovrebbero indicare la strada a noialtri, infondendo, con l’esempio dato in vita, il coraggio e la volontà di fare “egregie cose” (cfr. U. foscolo, Carme dei sepolcri. versi 151-164) .
I ricordi di un bambino degli anni ’60 mi riportano ad un periodo tutt’altro che triste, solitamente soleggiato, con la consueta puntata in quel di Frignano per onorare i morti della famiglia paterna. In quel cimitero e in quello nostro, di Pietramelara, abituali luoghi di raccoglimento, in questi giorni si respirava e si respira un’atmosfera briosa ed allegra: fiori e luci dappertutto, una festa vera e propria, saluti di parenti ritornati in paese per rendere omaggio ad una sepoltura, sorrisi che si incrociano, abbracci e strette di mano che contrastano non poco con il dolore, recente e cocente, di altri. Ma… tant’è, è la vita! Sono questi i contrasti e le dissonanze avvertibili in una realtà, come la nostra, densa di contraddizioni, ed a volte beffarda e crudele.

lunedì 27 ottobre 2014

UN TESORO “IGNORATO”

Vi è un bene comune che possediamo, e di cui, forse, pochi di noi conoscono quanto sia prezioso: il nostro paesaggio rurale. Eh già “prezioso”… perché conferisce onore a chi lo ha generato, identità a chi oggi lo abita e ne fruisce, perché è capace di comunicare a chiunque venga a contatto con esso una sensazione di armonia, perché è un indicatore di equilibri ambientali costituiti secoli or sono. Provate a salire sulla nostra torre, nel borgo, oppure su in montagna, al Monticello o al Monte Maggiore: osservando i dintorni e ruotando lo sguardo ne potrete avere un’idea, e vedere quanto la natura sia stata generosa, e quanto i nostri progenitori abbiano fatto per collaborarla, assecondarla e, ove fossero state presenti eventuali negatività, correggerla.
Il paesaggio rurale si è generato, nel corso dei secoli, ad opera della saggia collaborazione, quindi, fra la natura e la mano dell’uomo; elementi caratterizzanti ne sono le alberature di confine, i casolari, le strade rurali, le siepi, i fossi, i rivi. Tale paesaggio, anche se allo stato attuale non può definirsi irrimediabilmente deturpato, ha subìto, specie negli ultimi tre decenni, sensibili disturbi provocati soprattutto da due cause .
In primo luogo la sistemazione delle strade rurali iniziata negli anni ‘70 che, se ha conferito indubbi vantaggi all’economia agricola del paese, è stata in seguito estremizzata ed esagerata con le asfaltificazioni selvagge di quasi tutte le strade rurali.
In secondo luogo la perdita definitiva, all’indomani del terremoto dell’80 dell’architettura rurale nelle sue forme più genuine: il ricorso indiscriminato all’abbattimento e ricostruzione dei fabbricati (previsto dalle leggi post terremoto) ha determinato la perdita di volumetrie, di soluzioni costruttive e manufatti tipici di tali costruzioni, che le giovani generazioni avranno modo di conoscere solo attraverso le immagini del passato (quando disponibili).
Vi sono, poi, gli elementi secondari del paesaggio quali le siepi, i fossi e i rivi: essi assumono un’importanza chiave nell’ambito degli agroecosistemi; la copertura dei rivi o la loro cementificazione, l’eliminazione spinta delle siepi hanno causato nella nostra zona l’estinzione di uccelli nidificanti preferibilmente in tali luoghi; inoltre con la copertura dei rivi, trasformati a volte in veri collettori fognanti, si è persa del tutto la loro efficacia drenante, con il conseguente allagamento delle zone più basse nella stagione piovosa. Al contrario, le paludi stagionali che si formavano nella zona “pantani” si son progressivamente estinte nell’ultimo trentennio, plausibilmente a motivo del notevole abbassamento della falda freatica.
Tuttavia, nonostante le negatività descritte, e questo va detto, Pietramelara può ritenersi piuttosto fortunata sotto il profilo della conservazione del paesaggio; un motivo di tale fortuna va ricercato proprio negli agricoltori, che a differenza di quanto è accaduto a Riardo o altri comuni limitrofi, sono e restano (per lo più) pietramelaresi: la loro cultura comporta l’adozione di indirizzi produttivi più rispettosi dell’ambiente e del paesaggio. Ciò ha impedito in qualche modo che si perpetrassero scempi quali spianamenti di forte impatto visivo ed idrogeologico, tipici di un’agricoltura poco rispettosa dei luoghi, importata anche a pochi chilometri da casa nostra da agricoltori provenienti dall’Agro Aversano e/o dal Giulianese.

venerdì 24 ottobre 2014

TURISTI DEL GUSTO

Agricoltura e cultura: la rima non è casuale. Oggi più che mai agricoltura e cultura sono destinate a incontrarsi, influenzarsi, contaminarsi. Offrire e far conoscere il sapore dei campi significa divulgare la storia della civiltà. Il consumatore diventa quindi “turista del gusto”, quel tipo di turista che negli ultimi anni ha scelto in modo sempre più massiccio l’esperienza dell’agriturismo, consolidata fonte di business in zone quali la Toscana, l’Umbria, la Puglia, e che in provincia di Caserta presenta esperienze sempre più interessanti per la professionalità degli operatori nonché per la particolarità e la diversificazione delle offerte.
Oggi sotto il termine “agriturismo” sono comprese varie forme di ospitalità incardinate intorno ad un’azienda agricola: la concessione di alloggio e la prestazione di determinati servizi che vanno dalla somministrazione di pasti alle lezioni di equitazione e di ecologia, fino a realtà particolarmente complesse ed attuali che prendono il nome di “fattorie didattiche”: unità produttive agricole a tutti gli effetti, che nell’ottica della “multifunzionalità” esercitano nei confronti delle scolaresche, specie di quelle provenienti da aree urbane e metropolitane, una importante funzione di riavvicinamento alla natura. Senza podere, quindi, niente agriturismo: da qui una sempre maggiore divaricazione da altre attività definibili di “turismo rurale”, all’affannosa ricerca della qualifica di “agriturismo”, per godere dei vantaggi – fiscali in primo luogo- connessi alla cosa.
Ed è proprio nella multifunzionalità, parolina magica, che si esplicita l’agriturismo come fenomeno di massa e di elite: un concetto di unità produttiva agricola non dedita esclusivamente alla produzione di alimenti, ma che comincia ad erogare, con soddisfazione economica crescente, anche e soprattutto servizi.
Certo molto tempo è passato dai primi anni ’70, che videro la nascita del fenomeno: allora operai, studenti ed altri vacanzieri di limitate possibilità ricevevano spartana ospitalità dai contadini in qualche camerone senza servizi, o addirittura nel fienile, per poche lire a notte; oggi si stanno progettando i primi eliporti a servizio di aziende agrituristiche per consentire lo sbarco di avventori, evidentemente di ben superiori possibilità finanziarie. Chi scrive ha potuto per motivi di lavoro, o per semplice diporto, visitare un gran numero di aziende agrituristiche della provincia e, anche se, come si diceva all’inizio, il panorama non si rivela particolarmente desolante, ancora molta strada va percorsa nel cammino verso la vera qualità totale dei servizi offerti, strategica per uno sviluppo foriero di soddisfazioni economiche e professionali. Prima di tutto gli operatori agrituristici veri dovrebbero isolare e relegare in un angolo il gruppo di coloro che, ritenendosi furbi, propinano ai propri avventori prodotti da supermercato o, peggio, da “hard discount”, cucinati in assenza di norme igieniche e per i quali vengono presentati conti salatissimi. Un ruolo fondamentale lo hanno i comuni: ad essi la legge regionale in materia delega il rilascio delle autorizzazioni all’esercizio dell’attività e il controllo sull’osservanza delle norme.
Sono del parere che, inoltre, vadano sempre di più incrementate le sinergie esistenti fra aziende agrituristiche produttrici di alimenti e servizi diversi: in virtù di ciò, ad esempio, il viticoltore cederà il proprio vino al pastore che lo ripagherà con i suoi formaggi, l’azienda con maneggio potrà offrire lezioni agli ospiti del vicino a condizioni concorrenziali, e via discorrendo sino alla costituzione di una vera e propria rete che, tra i fini perseguiti, metta al primo posto la valorizzazione del territorio e delle sue produzioni tipiche.

sabato 18 ottobre 2014

SINDROME DEL NIMBY

Secondo wikipedia NIMBY è un acronimo inglese che sta per “Not In My Back Yard”, lett. "Non nel mio cortile" : con esso si indica un atteggiamento che si riscontra nelle proteste contro opere di interesse pubblico o non, che hanno, o si teme possano avere, effetti negativi sui territori in cui verranno costruite, come ad esempio grandi vie di comunicazione, cave, sviluppi insediativi o industriali, termovalorizzatori, discariche, depositi di sostanze pericolose, centrali elettriche e simili. Chi ne viene affetto si dice abbia la Sindrome di Nimby. La cosa curiosa è proprio questa: si riconosce l’utilità dell’opera ma la si vuole comunque lontana.
Tornando al mio piccolo borgo rurale, fanno molto rumore le odierne vicende delle proteste nei confronti di chi, fuggendo da terre meno fortunate caratterizzate da guerre e carestie, dovrebbe trovare ospitalità in un determinato fabbricato sito in via Sanniti. Non entro nell’opportunità delle proteste, comunque una cosa balza agli occhi: esse sono state suscitate e portate avanti da personaggi vicini allo scenario politico, abitanti da quelle parti, e che navigano nell’universo della sinistra, partito democratico o anche più in là . Costoro sono stati sempre, ed evidentemente a parole, paladini dell’accoglienza, della solidarietà, dell’ecumenismo etnico e transnazionale ma… appena la cosa sembra toccarli da vicino, ecco che vengono colpiti dalla “sindrome del nimby”. Non ci sono opere pubbliche da tenere lontane, solo persone diverse ma la sostanza è la stessa. La coerenza, si sa, non è stata mai patrimonio comune a Pietramelara, soprattutto in politica ma che dire di sedicenti uomini di sinistra, arrivati ad organizzare vere e proprie “riunioni condominiali” anti rifugiato? … per me il comportamento è similpadano, alla stregua dei più integri seguaci di Gianfranco Miglio, fondatore e teorico della Lega.

giovedì 16 ottobre 2014

TANTA VOTE

Avete mai sentito dire: “tanta vòte” (trad.lett.:tante volte)? Esso è un modo di dire tra l’augurale e lo speranzoso, usato alle nostre parti: “tanta vòte me sposu”, risponderebbe una ragazza in età da marito a chi le chiede perché prepara il corredo. L'espressione sta ad indicare qualcosa di estremamente probabile e in qualche caso imminente; la stessa risposta “tanta vòte me sposu”, sulla bocca di un’acida zitella ultracinquantenne non assume ne lo stesso significato ne la stessa valenza, indicando qualcosa di molto meno probabile.
“Che c’è fa cu sta machina”? “tanta vòte pigliu nu postu, ce vac’ a faticà”, è la risposta di un giovane in attesa di prima occupazione. A Roma direbbero: “Hai visto mai?” che significa esattamente la stessa cosa.
“Tanta vòte” racchiude un concetto basilare della statistica, cioè che la probabilità che un fenomeno assuma caratteristiche positive aumenta all’aumentare delle volte in cui il fenomeno stesso si ripete. Faccio un esempio per essere più chiaro: se non giochiamo mai alla lotteria le probabilità di vincere sono nulle, ma se lo facciamo una o due volte nella vita la cosa non cambia granchè. Se giochiamo frequentemente (un gran numero di volte, tante volte, “tanta vòte”) le probabilità di vincita sono molte di più! Chiaro, adesso?
“Tanta vòte”, allora assume un significato ben preciso che è questo: “vuoi vedere che questa, tra le tante volte, è quella buona?” La speranza di vivere una situazione positiva che potrebbe comportare ricchezza, amore, fortuna, è insita ed innata fra la nostra gente, notoriamente avvezza nel passato ad una vita grama, ma non per questo disperata. La filosofia di vita di costoro, positiva anche quando le condizioni ed il contesto indicano il contrario, si è riflessa in questo modo di dire così curioso e denso di significato: “Tanta vòte”.