Scribacchiando per me

Scribacchiando per me
il blog di un pietramelarese

venerdì 30 agosto 2019

SANTA ROSA, UNA RICETTA TRAFUGATA

30 agosto, giorno di Santa Rosa, mi va di celebrarlo anche in virtù di qualcosa di molto concreto che però mantiene i tratti della “sacralità partenopea e campana”. Parlo appunto della sfogliatella, variante “Santa Rosa”. Devo dire che la conoscenza e la diffusione non sono elevate, a me però piace moltissimo, confesso questo ricorrente peccato di gola, e nonostante i problemi legati a un fisico “non proprio filiforme”, talvolta mi concedo questo piacere; d’altronde le dimensioni sono sensibilmente maggiori rispetto ad una sfogliatella standard, pertanto è possibile anche dividerla con un’altra persona.
La storia di questa prelibatezza inizia nel XVII secolo, nel Monastero di Santa Rosa da Lima, a Conca dei Marini, in Costiera Amalfitana. Con della semola cotta nel latte, avanzata dal pranzo, la monaca cuoca (ispirata dall'Alto o, con molta più probabilità, dalla necessità di non sprecare nulla) decise di preparare un impasto, aggiungendovi del liquore di limone, frutta secca e zucchero; a parte arricchì l'impasto del pane con del vino bianco e dello strutto, lo lavorò a lungo e creò una sacca a mo' di cappuccio di monaca, in cui inserì il primo composto. Sigillò il tutto o lo mise a cuocere nel forno a legna. Appena assunse la classica colorazione dorata, guarnì il nuovo dolce con un cordone di crema pasticciera e delle amarene candite, come da foto di copertina. Questa prelibatezza assunse il nome di Santa Rosa, in onore della Santa a cui è intitolato il monastero dove fu preparata per la prima volta.
Per quasi un secolo e mezzo, tuttavia, la ricetta rimase gelosamente custodita entro le mura del monastero. Fu solo nei primi anni del XIX secolo che un pasticciere napoletano, Pasquale Pintauro, riuscì ad ottenere (forse da una zia monaca) la ricetta originale che, prontamente, modificò, eliminando le amarene e la crema pasticciera: era nata la variante "riccia" della sfogliatella, nella forma universalmente conosciuta. La grande varietà e fantasia, insieme alla diffusa fama, della pasticceria napoletana è dovuta anche a questi episodi di furbizia, tipici di un popolo che da sempre lotta contro la sorte avversa.
A Conca dei Marini continua a tenersi annualmente una sagra dedicata a questa sfogliatella con la distribuzione di migliaia di questi dolci prodotti da pasticcerie locali. Era poco diffusa dalle nostre parti, fino a qualche anno fa, bisognava spostarsi su Napoli o dintorni per gustarla, oggi al contrario possiamo trovare una Santa Rosa di ottima qualità, negli ingredienti di base e nella fattura, in ogni periodo dell’anno, nelle migliori pasticcerie della zona.

lunedì 26 agosto 2019

L'ODORE DEL BORGO

L’odore del Borgo, di quello con la “B” maiuscola, del mio antico borgo, è quello di pietre semiammuffite, a volte ricoperte da un muschio sottile, a volte affumicate. Sono pietre quelle che ne hanno visto di tutti i colori: guerre e distruzioni, antiche e moderne, terremoti... certo, ma anche occasioni fauste: matrimoni, nascite di bambini, stabilirsi di legami di vicinato. L’odore del borgo proviene da un ragù lasciato su fuoco per ore a consumarsi. Odore di storia, ma anche e soprattutto odore di vita perché, non dimentichiamolo, il nostro è un borgo vivo!
Sono questi gli odori che ho avvertito in questi ultimi, serrati sei/sette giorni. La preparazione della Sagra al Borgo inizia mesi prima della sua effettiva “celebrazione”, e di celebrazione si tratta perché quest’evento ha ormai assunto il tono e la sacralità di un rito, la 47sima edizione si è consumata e definirla “un grande successo” è forse anche un po’ riduttivo. Sei/sette sono stati i giorni cruciali: dalla domenica precedente, con il convegno di presentazione alla stampa, sino al momento conclusivo, ieri notte. In questi giorni gli animi sono stati tesi, ognuno si è indaffarato per portare a compimento il proprio pezzo di sagra: le cucine, la comunicazione, le coreografie e i costumi, la contabilità, i rapporti con le istituzioni. Si è sudato e tanto, si è imprecato, soprattutto si è faticato, ma tutto poi si è dissolto la sera, quando verso la mezzanotte, la pressione degli avventori si è allentata sulle casse e le cucine, e ognuno ha dato libero sfogo al ballo, al canto e all’allegria; chi non ha visto mai la Sagra “dietro le quinte”, chi non ha mai collaborato a questo evento difficilmente comprenderà quella voglia di cantare, stare insieme, prendersi in giro a vicenda.
Non è compito del vostro blogger scribacchiante riportare espressioni a sensazione quali “risultati insperati perfino dagli organizzatori”, “successo senza precedenti”, sarebbe troppo facile e auto laudativo, tuttavia va riconosciuto il giusto merito a chi di dovere: al presidente Francesco Tabacchino, un ragazzo diventato uomo con il piglio dell’imprenditore, che però ha saputo conservare un cuore da fanciullo, ai tantissimi giovani e ragazzi fonte di un’inesauribile energia, ai dirigenti e soci della Pro Loco.
Lo spirito dell’iniziativa, la filosofia di base che ha portato alla progettazione, all’organizzazione e alla tenuta della sagra, è stato reso evidente dalle considerazioni espresse da Giuseppina: “un perfetto mix di innovazione e freschezza senza togliere spazio a radici e tradizioni, che sono la nostra base solidissima. Grandi e ragazzi insieme, con un costante scambio di ruoli. Ebbene, la nostra forza è il senso di appartenenza, quella "pietramelarite acuta" di cui tutti soffriamo, quel sentirci al sicuro, protetti solo tra le pietre del nostro centro storico”.
Perfetto mix che si ritrova nelle proposte di cucina più recenti, come la richiestissima braciola di Elio, o i fagioli “maiulisi” (da montemaiulo, termine dialettale che indica il nostro Monte Maggiore, ndr) di Agnese, ma anche nell’aver dato spazio accanto all’offerta ludica e gaudente, anche a spazi di cultura ed approfondimento, come per l’allestimento museografico della “casa rurale”, a cura di Antimo e Carmelo, oppure nei tre incontri relativi al “Percorso del Gusto”.
Chi opera bene e se ne rende conto non è mai completamente soddisfatto!... pertanto già da adesso si comincerà a pensare alla Sagra al Borgo 2020, facendo leva sui successi e tenendo in massimo conto gli errori che inevitabilmente si sono commessi.

venerdì 16 agosto 2019

PUPARUOLI 'MBUTTITI E CAPPONI CONTRAFFATTI SULLA TAVOLA DI SAN ROCCO

Per chiudere questa serie di pezzi sulla figura di San Rocco “tra il sacro ed il profano”, passo ora ad un aspetto della festa di cui questo blog scribacchiato ancora non si è occupato: la gastronomia tradizionale in questa occasione.
Sono veramente tanti i significati antropologici legati al tradizionale pranzo: su tutti la povertà che un tempo affliggeva la nostra gente, permettendole per un giorno di approfittare della festa per qualcosa di più e di meglio, per riempire la pancia. Dall’indagine conoscitiva, condotta tra chi coltiva la materia, in definitiva due sono i piatti della tradizione: ju puparuolo ‘mbuttito e ju pullastro. Non sono sicuramente le uniche preparazioni, specialmente oggi, ma si tratta senz’altro dei due “must” più frequenti.
Perché essi e non altri piatti ?... beh direi prima di tutto perché disponibili “a buon mercato” presso tutte o quasi le famiglie e, in secondo luogo, la stagionalità. Il puparuolo ‘mbuttitu (e non mbuttunatu, voce usata a Napoli e dintorni e non qua), è una vera genialata: delizioso, leggero se privato della buccia fibrosa, economicissimo, dati gli ingredienti (peperone, capperi, olive, pane raffermo, poco olio); chi fa il giro del paese nella mattinata di oggi, facilmente si imbatte nel suo profumo intenso e persistente, che dal forno della una cucina di una sapiente massaia, varca porte e finestre e si diffonde in strada. E’ opinione concorde e diffusa che la parte più pregiata di esso è il “tappo” di crosta di pane con sottile strato di mollica, destinato a sigillare l’imbottitura; esso si insaporisce a contatto con l’olio di cottura presente nel ruoto, e più e più volte diviene oggetto di “furti con destrezza”, da parte di qualche golosone, che approfitta della distrazione della cuoca per mettere in atto il “piano criminoso”.
Al peperone si accompagna il pollo al forno: si tratta di un volatile maschio, di età non superiore ai sette/otto mesi, sezionato e cotto al forno, anch’esso nel ruoto, oppure “in umido” per preparare contemporaneamente un gustoso sugo, condimento della pasta. Un tempo era diffusa la variante “cappone”, cioè pollo castrato; la crescita veniva incrementata dalla castrazione e le carni del cappone acquistavano maggiore tenerezza e sapidità; allo scopo di permettere di riconoscere i capponi dai polli non castrati, si usava privarli della cresta. A tal proposto si tramanda che qualche contadino, depositario di una furbizia atavica, derivante più da necessità che da disonestà, per riservarsi qualche cappone in più da non dover dividere con il padrone (a prestazione, ndr), castrava si il pollo ma non lo privava della cresta; in tal modo il cappone “mascherato” e così contraffatto, privo del segno di riconoscimento, poteva rimanere di appannaggio esclusivo di chi l’aveva allevato e tranquillamente finire sulla sua mensa per la ricorrenza del Santo protettore.


mercoledì 14 agosto 2019

PONTELANDOLFO E CALSALDUNI: UNA STRAGE CON VALENZA DI ESEMPIO

14 Agosto, antivigilia dell’Assunta, non è un bel giorno e un bel ricordo per gli abitanti di Pontelandolfo e Casalduni, due paesi del Beneventano. Correva l’anno 1861, da poco i garibaldini “portatori di libertà” avevano unificato la penisola sotto la dinastia savoiarda. Ai contadini erano state fatte tante promesse: pacificazione sociale, redistribuzione delle terre, tutte subito sconfessate dai vincitori. Come reazione una lotta prima sottile e quasi invisibile, poi man mano sempre più forte e cruenta,che vide come protagonisti uomini che la propaganda fece passare come “briganti”.
Due interi paesi furono messi “a ferro e fuoco”, le popolazioni decimate dalle fucilazioni, dalle violenze, dagli stupri di ragazze inermi. Era stato deciso, in seguito ad alcune azioni militari dei filo borbonici (chiamiamoli così e non briganti) coronate da pieno successo, di impartire “Un tremendo castigo che sia d’esempio alle altre popolazioni del Sud”, queste le parole di Achille Iacobelli, spia meridionale di Enrico Cialdini, capo della repressione. Niente e nessuno fu risparmiato, persino qualche filo liberale, come i fratelli Rinaldi, che perplessi per quanto stava accadendo chiesero spiegazioni, furono derubati, bendati e fucilati. Una ragazza di sedici anni fu ripetutamente violentata da 10 bersaglieri sotto gli occhi del padre , e poi uccisa; un bambino in fasce fu strappato dalle braccia del padre che cercava di fuggire e colpito. Tanta ferocia, al grido di “piastre, piastre”, i soldati cercavano denaro.
A capo della rappresaglia, 900 soldati in armi, contro contadini, donne e bambini inermi, Pier Eleonoro Negri, vicentino, che fu fatto conte dopo il massacro ,e a cui il Comune di Vicenza continua a tributare onoranze nonostante si sappia dal 2004 che fu lui il responsabile del massacro.
Quante le persone perite? Le cifre oscillano in maniera sensibile, a paragone anche la strage delle Fosse Ardeatine ad opera dei nazisti, osserva Pino Aprile, mantiene paradossalmente maggiore senso umano, costoro infatti “non ebbero il coraggio di distruggere il quartiere. A Pontelandolfo e Casalduni si fece”. La dimostrazione più evidente che la storia viene scritta dai vincitori risiede nel fatto che Kappler, ufficiale nazista, fu condannato all’ergastolo, a Negri vengono ancora riservati onori.
Se è vero che la storia si ripete, come teorizzato da Giambattista Vico, la violenza e la cupidigia dei soldati in cerca di bottino la dicono lunga anche sulla situazione politica che si vive oggi: un Nord assetato di potere, capeggiato da un ducetto quasi del tutto privo di cultura, assenteista ed indulgente nella vicenda dei 49 milioni trafugati dal suo partito, tenta di ricolonizzare un Meridione d’Italia vessato da decenni di malapolitica, offrendo una falsa immagine di compostezza e rigore.

giovedì 8 agosto 2019

STORIA DI UNA PIAZZA

La piazza, quella per antonomasia, piazza San Rocco per intenderci, luogo di scambio, di incontro, di mercato, di tempo libero, da quanto tempo riveste queste sue molteplici funzioni e… quando ha assunto l’aspetto in cui la vediamo? Andiamo con ordine: dai documenti storici che ho potuto consultare direi che, dal momento stesso in cui è iniziata l’espansione urbana “extra moenia” del nostro paese (fine XV secolo), qualcuno dovette pensare ad uno spazio in grado assolvere alle funzioni che ho citato in apertura.
Strana la pianta della nostra piazza, a forma di una L maiuscola coricata (vedi foto di copertina): ritengo che essa sia stata dapprima realizzata nella originaria parte A, evidenziata in rosso (700 mq ca), e dopo ampliata alla parte B (2.700 mq ca), evidenziata in azzurro. Da cosa scaturisce tale impressione? Basta guardare a terra per accorgersi che la pavimentazione in basoli è differente: basalto per quelli della zona A, calcare per la B; se ne deduce che la pavimentazione basaltica sia contemporanea e in continuazione con quella di Via Roma, già Via Palazzo, probabilmente sei/settecentesca.
Cosa dovette indurre l’espansione della piazza? ... e a quando risale? Naturalmente restiamo nel campo delle ipotesi da confermare: ho fatto un giro, guardando a terra i battenti dei portoni e in alto le chiavi di arco, che in genere recano una data, e la ricerca è stata infruttuosa, fatta eccezione per il palazzo che un tempo ospitava la caserma dei Carabinieri, nel cui battente viene riportato l’anno 1892, poco dopo l’unità nazionale. L’esigenza di allargare la piazza dovette nascere da più di un motivo, il crescere del mercato domenicale, il dover accogliere uffici che il nuovo ordine amministrativo post unitario aveva portato in paese, e soprattutto dover destinare nuove aree alla costruzione di palazzi per le famiglie nobili e borghesi che non volevano più dimorare all’interno del borgo. Il terreno espropriato apparteneva alla Famiglia Baronale Sanniti, proprietaria di un vasto appezzamento che si estendeva dai margini dei Giardini Pomaro fino all’attuale piazza; non vi sono evidenze documentali che permettano di accertare l’eventuale demolizione di un palazzo a confine fra le due aree A e B. L’intervenuta esigenza espropriativa da parte del comune, a parere di chi scrive, conferma la datazione post unitaria dell’allargamento, in quanto l’istituto giuridico dell’esproprio non era presente nell’ordinamento borbonico, e solo nel 1854, verso la fine della dinastia, fu varata una proposta in merito, peraltro mai convertita in legge.
Quale la storia “recente” della nostra piazza? L’alberatura originariamente di robinia (robinia pseudoacacia), come da vecchie foto, fu sostituita in epoca fascista con una di leccio (quercus ilex). Il grande pozzo in pietra, veramente monumentale, principale fonte di approvvigionamento idrico per larghe fasce della popolazione, posto nei pressi del Monumento ai Caduti, fu eliminato negli anni ‘50, in concomitanza con l’allacciamento delle nostre case all'acquedotto del Torano. Risale a metà anni ’70, poi, la risistemazione con pavimentazione in betonelle, e spostamento del Monumento ai Caduti nell'attuale posizione; in origine, infatti, era sito al centro di un’aiuola circolare all’altezza del Bar De Nuccio, contemporaneamente a tale intervento fu eliminato il distributore di benzina di Biasio Leone (Shell? …forse); risale, infine, a poco più di un decennio l’attuale pavimentazione in cubetti di porfido.
L’affetto che ognuno di noi (dai capelli grigi) nutre per questo luogo è forte, e questo blog scribacchiato già se ne è occupato (https://scribacchiandoperme.blogspot.com/2011/04/piazza-san-rocco.html): la speranza è che tali brevi note contribuiscano alla sua ripresa.