Scribacchiando per me

Scribacchiando per me
il blog di un pietramelarese

venerdì 15 luglio 2016

MESTIERI

Per conoscere meglio i caratteri e le identità di comunità come la nostra è necessario ricorrere a particolari ritenuti (a torto) secondari, quali ad esempio le arti e i mestieri che un tempo vi si esercitavano e che l’economia, e l’evolversi del costume hanno cancellato.
Li ho visti anch’io, sapete? Aprivano bottega per le vie del centro storico, e lavoravano dall’alba al tramonto con una breve pausa per il pranzo, tutto sommato incuranti dell’inquinamento che potevano produrre o dei rumori. Erano questi ultimi, insieme agli odori ( o puzze) a caratterizzare le botteghe. Le si poteva riconoscere anche da lontano, quando erano ancora celate alla vista: era caratteristico pervenire da quella del maniscalco, o ferracavalli, ad esempio, il ritmato battere del pesante martello sull’incudine, per foggiare il ferro ancora rosso appena tirato fuori dalla forgia. Quando il cavallo o l’asino veniva ferrato, per pareggiare lo zoccolo, il ferro doveva essere ancora incandescente e così l’unghia bruciata produceva un odore acre ed intenso, difficilmente sopportabile. Uno degli ultimi ferracavalli ha lavorato fino agli anni 70, dalle parti di “fore Sant’Austinu”, insieme a qualche altro “pe ttuornu a terra”.
L’attività del carrese, poi, mi è particolarmente cara, essendovisi dedicato per lungo tempo il mio caro nonno Pasquale. Costruiva carretti per l’agricoltura, e carrozzini destinati a classi sociali più altolocate; la parte più complessa da realizzare erano le ruote: in legno, perfettamente circolari e cerchiate in ferro, al loro centro vi era un mozzo sporgente in legno molto duro, generalmente di olmo o “arulu”, per dirla alla pietramelarese; la durezza del legno era necessaria, dovendo tale mozzo, detto “miulu”, reggere lo sforzo e il peso dell’intero carro e del suo carico. La caratteristica durezza del miulu, traslata nel linguaggio plastico ed efficace della gente rurale, è divenuta proverbiale, e ha finito per identificare una persona particolarmente testarda, dalla testa molto dura quindi, come “na cap’ e miulu”.
Le tessitrici di tele di canapa lavoravano in locali angusti, a volte malsani e privi di luce, il telaio era una macchina lignea, rudimentale ma, allo stesso tempo, imponente e complessa, al punto da occupare gran parte del locale. Il rumore in tal caso era altrettanto caratteristico, ma sicuramente meno avvertibile per la minore intensità, e le tessitrici potevano anche cantare, lavorando . Ce n’erano diverse a Pietramelara, sia nelle strade del borgo che in qualche via più periferica, penso siano del tutto scomparse verso la metà degli anni 60.
Gli stagnari, oggi detti lattonieri, si dedicavano a produrre canali di gronda in lamiera, o altri oggetti che potevano essere ottenuti da tale materiale, tipo stari per l’olio, o secchi e recipienti vari; da non confondere con i ramari, dediti a battere il rame per ottenere caldai e pentole; la tossicità del rame imponeva che la parte interna di questi manufatti, quella a contatto con gli alimenti, venisse ricoperta di stagno, a caldo. I fabbri esistevano ed esistono ancora in paese, tuttavia quelli di un tempo non disponevano di saldatrici ne a arco ne a cannello, per cui tutto il lavoro, per produrre aratri o altri attrezzi agricoli, zappe e vanghe, veniva svolto alla forgia, cercando di plasmare il ferro incandescente. Un mestiere, oggi scomparso a Pietramelara, ma molto ricercato ovunque attualmente, era il seggiaru o ‘mpagliasegge, il modello di sedia prodotto quasi sempre lo stesso, in due o tre misure di grandezza (segge e siggiulelle) con intelaiatura in castagno, per i piedini e lo schienale, e paglia ritorta per la seduta.
Ce ne sarebbero altri ancora di cui parlare: ammolaforbici (arrotini), scarpari, zappatori, capère (pettinatrici), seringare (facevano iniezioni a domicilio)ecc. mestieri, attitudini, professionalità ormai perdute, sinonimi e simboli di una civiltà rurale ormai tramontata, ma ancora rinvenibile distintamente in tutti noi.

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