Scribacchiando per me

Scribacchiando per me
il blog di un pietramelarese

mercoledì 20 luglio 2016

PASQUINO... A RIARDO

Pasquino è la più celebre statua parlante di Roma, divenuta figura caratteristica della città fra il XVI ed il XIX secolo. Ritrovata nel 1501 durante gli scavi per la pavimentazione stradale e la ristrutturazione del Palazzo Orsini, ben presto si diffuse il costume di appendere nottetempo al collo della statua fogli contenenti satire in versi, dirette a pungere i personaggi pubblici più importanti. Ogni mattina le guardie rimuovevano i fogli, ma ciò avveniva sempre dopo che erano stati letti dalla gente. In breve tempo la statua di Pasquino divenne fonte di preoccupazione, e parallelamente di irritazione, per i potenti presi di mira dalle pasquinate, primi fra tutti i papi: addirittura Benedetto XIII emanò anche un editto che garantiva la pena di morte, la confisca e l'infamia a chi si fosse reso colpevole di “pasquinate”.
E’ giustappunto una pasquinata quella in cui mi sono imbattuto stamattina, all'imbocco della discesa che conduce alla stazione ferroviaria di Riardo: un vecchio wc dismesso, da cui svettava un cartello con la seguente dicitura “Il cesso è un signore nei vostri confronti perché la merda la scarica voi la lasciate per strada!” (vedi foto).
A chi era diretto il messaggio? … a una generica categoria di cittadini particolarmente disattenta alle problematiche ambientali, al potente di turno nella zona (onorevole, assessore, sindaco, chissà) allo scopo di vendicarsi per una promessa non mantenuta, un favore non fatto, o altro che non riusciamo ad immaginare? Le ipotesi potrebbero essere svariate.
Resta la singolarità del fatto: all'epoca dei social networks, qualcuno si affida ancora ad un mezzo risalente a vari secoli fa per esprimere una protesta, un disappunto particolarmente acre. Comportamenti imprevedibili della gente che vive nelle aree rurali, che in genere “non la manda a dire”, che preferisce metodi più diretti, ma che nell'aver voluto ricorrere ad un espediente come questo forse ha inteso anche suscitare un po' di ilarità.

sabato 16 luglio 2016

NIENT'ALTRO CHE LODEVOLI INTENZIONI

E’ senz’altro lodevole l’intenzione di un’amministrazione di condividere le scelte operate sul futuro del nostro territorio; lo è ancora di più allorquando tale condivisione è indirizzata al Piano Urbanistico Comunale, che assegnerà destinazioni urbanistiche, economiche produttive alle varie porzioni di territorio Pietramelarese. Facendo seguito ad un invito pervenutomi da un pubblico manifesto, ho voluto partecipare all’incontro della sera di giovedì scorso, 14 luglio, teso ad illustrare tali scelte e tali destinazioni, nella duplice veste di cittadino nonché di soggetto tecnico impegnato in tale ambito.
Non posso dire, tuttavia, di ritenermi soddisfatto, e soprattutto ho dovuto prendere atto anche della generale insoddisfazione di quasi tutti i partecipanti all’incontro: in sostanza si sono ritrovati a difendere quelle scelte solo i tecnici redattori del PUC, il sindaco e i suoi “fidi pretoriani”. Politici, ex amministratori e tecnici non hanno potuto fare a meno di constatare che l’incontro programmato non era altro che una minestra bell’ e scodellata, per migliorare il cui sapore poco o nulla si poteva fare, e che il momento di confronto era solo annunciato.
Belle enunciazioni di principio… senz’altro! Limitare il consumo di suolo, rivitalizzare e recuperare il centro storico, tendere ad uno sviluppo economico sostenibile: cose sentite già centinaia di volte, fino alla noia. Ma poi, nella sostanza, principi contraddetti dalle carte: espansione della zona edificabile, sanatoria di abusi edilizi commessi di recente e/o più in la nel tempo, nessuna misura concreta per spiegare come rivitalizzare la parte più malata di Pietramelara, cioè il borgo medievale (cosa tra l’altro sottolineata anche da autorevoli protagonisti del dibattito).
Rendere edificabili a Pietramelara aree che attualmente non lo sono, rappresenta un danno di duplice natura: economico, perché gli investimenti in opere di urbanizzazione non verranno mai recuperati, e ambientale in quanto la zona residenziale si espande sempre di più arrecando inquinamento e costi sociali vari. Lottizzazioni iniziate un quarantennio fa ancora non sono state completate, e ad esse si sono aggiunte altre più di recente; la domanda di alloggi in paese è crollata, e lo conferma il numero elevatissimo di immobili in vendita, a prezzi accessibili, che non vengono acquistati da nessuno. Nutro seri dubbi, pertanto, sul fatto che altre lottizzazioni, aggiunte a quelle attuali possano avere maggior successo commerciale.
Che fare allora per Pietramelara? Prima di tutto cominciare ad avere il coraggio di essere impopolari, senza creare illusioni di arricchimento per i potenziali lottizzatori; scegliere pertanto di conservare la struttura urbanistica attuale ed il relativo perimetro, consentendo il completamento delle lottizzazioni attuali (ove possibile); riportare l’asse del commercio nel centro del paese, contrastando la tendenza di centri commerciali che sorgono come funghi e desertificano il nucleo urbano; intraprendere razionali azioni di recupero del borgo e delle parti limitrofe, offrendo servizi a una popolazione che si sente sempre più abbandonata e dimenticata. Poche cose semplici e poco costose, senza fumose enunciazioni di principio contraddette poi miseramente nella realtà delle decisioni intraprese.

venerdì 15 luglio 2016

MESTIERI

Per conoscere meglio i caratteri e le identità di comunità come la nostra è necessario ricorrere a particolari ritenuti (a torto) secondari, quali ad esempio le arti e i mestieri che un tempo vi si esercitavano e che l’economia, e l’evolversi del costume hanno cancellato.
Li ho visti anch’io, sapete? Aprivano bottega per le vie del centro storico, e lavoravano dall’alba al tramonto con una breve pausa per il pranzo, tutto sommato incuranti dell’inquinamento che potevano produrre o dei rumori. Erano questi ultimi, insieme agli odori ( o puzze) a caratterizzare le botteghe. Le si poteva riconoscere anche da lontano, quando erano ancora celate alla vista: era caratteristico pervenire da quella del maniscalco, o ferracavalli, ad esempio, il ritmato battere del pesante martello sull’incudine, per foggiare il ferro ancora rosso appena tirato fuori dalla forgia. Quando il cavallo o l’asino veniva ferrato, per pareggiare lo zoccolo, il ferro doveva essere ancora incandescente e così l’unghia bruciata produceva un odore acre ed intenso, difficilmente sopportabile. Uno degli ultimi ferracavalli ha lavorato fino agli anni 70, dalle parti di “fore Sant’Austinu”, insieme a qualche altro “pe ttuornu a terra”.
L’attività del carrese, poi, mi è particolarmente cara, essendovisi dedicato per lungo tempo il mio caro nonno Pasquale. Costruiva carretti per l’agricoltura, e carrozzini destinati a classi sociali più altolocate; la parte più complessa da realizzare erano le ruote: in legno, perfettamente circolari e cerchiate in ferro, al loro centro vi era un mozzo sporgente in legno molto duro, generalmente di olmo o “arulu”, per dirla alla pietramelarese; la durezza del legno era necessaria, dovendo tale mozzo, detto “miulu”, reggere lo sforzo e il peso dell’intero carro e del suo carico. La caratteristica durezza del miulu, traslata nel linguaggio plastico ed efficace della gente rurale, è divenuta proverbiale, e ha finito per identificare una persona particolarmente testarda, dalla testa molto dura quindi, come “na cap’ e miulu”.
Le tessitrici di tele di canapa lavoravano in locali angusti, a volte malsani e privi di luce, il telaio era una macchina lignea, rudimentale ma, allo stesso tempo, imponente e complessa, al punto da occupare gran parte del locale. Il rumore in tal caso era altrettanto caratteristico, ma sicuramente meno avvertibile per la minore intensità, e le tessitrici potevano anche cantare, lavorando . Ce n’erano diverse a Pietramelara, sia nelle strade del borgo che in qualche via più periferica, penso siano del tutto scomparse verso la metà degli anni 60.
Gli stagnari, oggi detti lattonieri, si dedicavano a produrre canali di gronda in lamiera, o altri oggetti che potevano essere ottenuti da tale materiale, tipo stari per l’olio, o secchi e recipienti vari; da non confondere con i ramari, dediti a battere il rame per ottenere caldai e pentole; la tossicità del rame imponeva che la parte interna di questi manufatti, quella a contatto con gli alimenti, venisse ricoperta di stagno, a caldo. I fabbri esistevano ed esistono ancora in paese, tuttavia quelli di un tempo non disponevano di saldatrici ne a arco ne a cannello, per cui tutto il lavoro, per produrre aratri o altri attrezzi agricoli, zappe e vanghe, veniva svolto alla forgia, cercando di plasmare il ferro incandescente. Un mestiere, oggi scomparso a Pietramelara, ma molto ricercato ovunque attualmente, era il seggiaru o ‘mpagliasegge, il modello di sedia prodotto quasi sempre lo stesso, in due o tre misure di grandezza (segge e siggiulelle) con intelaiatura in castagno, per i piedini e lo schienale, e paglia ritorta per la seduta.
Ce ne sarebbero altri ancora di cui parlare: ammolaforbici (arrotini), scarpari, zappatori, capère (pettinatrici), seringare (facevano iniezioni a domicilio)ecc. mestieri, attitudini, professionalità ormai perdute, sinonimi e simboli di una civiltà rurale ormai tramontata, ma ancora rinvenibile distintamente in tutti noi.

mercoledì 13 luglio 2016

COMPAGNI DI VIAGGIO MAI CONOSCIUTI

La tragedia di queste ore mi tocca da vicino: per me, pendolare, quelle ventisette vite spezzate sono i miei compagni di viaggio, con i quali scherzo, sorrido, commento il livello del servizio ferroviario. Quei due treni della 'Ferrotramviaria', le ferrovie del Nord barese, che si sono scontrati frontalmente intorno alle 11.30 di ieri , sulla tratta a binario unico tra Andria e Corato, in aperta campagna, erano in tutto e per tutto quelli che uso prendere io per andare e tornare dal lavoro, i viaggiatori per la stragrande maggioranza pendolari, come me.
Viaggiare in treno per lavoro o per studio è un’esperienza coinvolgente e socializzante e io li immagino, questi compagni di viaggio mai conosciuti un istante prima dell’impatto fatale: c’era sicuramente qualcuno che chiacchierava, qualcuno leggeva, altri ascoltavano musica o osservavano il display dello smartphone, il livello dell’aria condizionata poteva essere troppo caldo o troppo freddo, e fuori dal finestrino la campagna pugliese, arida e bellissima, con il mare sull’orizzonte. Tempo qualche attimo e il viaggio si è interrotto… per non essere mai più ripreso. La scena del dramma: i corpi straziati, i lamenti dei feriti, le lamiere contorte e fumanti.
Il mestiere del pendolare non è piacevole, lo si fa per bisogno, ma dopo poco tempo lo si ama, a tal punto da non poterne fare a meno. D’inverno si esce di mattina quando è ancora notte e si ritorna a sera, quando l’oscurità è già calata; insieme si soffre il freddo pungente e d’estate il caldo torrido, insieme si soffrono ritardi e soppressioni di treni, disagi che, se da un lato turbano non poco gli equilibri quotidiani, dall’altro rinsaldano rapporti, nella solidarietà che può essere indotta solo da una comune disavventura. Da pendolari si osservano scene che difficilmente si potrebbero osservare altrove, un’umanità tutta da raccontare, variegata e multietnica, che soffre, spera, e soprattutto cerca di progredire nello studio e nel lavoro.
In tale cornice si è consumata una tragedia immane, forse il più grave incidente che la storia ferroviaria di questa nazione possa ricordare. Ben ventisette vittime e cinquanta feriti sono l’ennesimo tributo pagato da questo sud operoso alla disattenzione politica, all’ignorare problemi annosi che di giorno in giorno accrescono la loro gravità. Riposate in pace, miei cari compagni di viaggio mai conosciuti, per il momento non posso dire altro.