Scribacchiando per me

Scribacchiando per me
il blog di un pietramelarese

venerdì 28 dicembre 2012

TRA LUCI ED OMBRE...SERENAMENTE

Fine anno, tempo di bilanci, anche per il sottoscritto. L’analisi che si deve condurre su se stessi deve essere severa e mai autoassolutoria, ma allo stesso tempo serena.
Nell’anno che sta per terminare ho conosciuto tanta gente nuova: oltre ai tanti che, quasi quotidianamente, passano per la mia stanza, tanti altri ne ho incontrati muovendomi per lavoro o per seguire i miei interessi e le mie passioni. Da alcuni ho ricevuto riconoscimenti e lodi, da altri delusioni, a volte cocenti.
La mia famiglia è cresciuta: alcuni problemi sono da considerare definitivamente superati, altri, e più complessi da affrontare, si profilano all’orizzonte; mi rendo conto, con una certa apprensione, che mentre mi compiacevo per due bambine che allietavano la mia vita, man mano, due giovani donne stanno prendendo il loro posto.
Il lavoro va avanti e i problemi da risolvere sono all’ordine del giorno ma, per fortuna, nessuno di essi è in grado di turbare la mia esistenza; i rapporti con i superiori e con i colleghi sono generalmente buoni, anche se -va detto - devo mettere in gioco tutto il mio equilibrio per far sì che rimangano veramente tali.
Sono molto dispiaciuto e preoccupato per la piega che ha preso il mio paese, che nella scorsa primavera ha riconfermato la fiducia a persone, a mio parere, prive di progettualità politica e supine nei confronti di “poteri” che da decenni hanno stabilmente occupato la Casa Comunale. L’esempio più lampante dello sfascio e del degrado: opere seppur pervicacemente volute dagli stessi amministratori, che giacciono incompiute e sospese “sine die”.
La terra, a me sacra, dove riposano i miei cari, dove sono nato e vorrei continuare a vivere, penso che meriti qualcosa di più. E’ urgente che qualcuno, in grado di restituirle almeno in parte, quel prestigio di cui ha sempre goduto, si faccia avanti.
Un bilancio, come tanti, connotato da luci ed ombre: ora prevalgono le une, ora le altre. Di una cosa, tuttavia, sono convinto: in queste alterne fortune non ho mai smarrito la serenità interiore. Con tale spirito, preoccupato ma positivo, mi preparo al 2013 e brindo al nuovo anno insieme a voi, miei carissimi “quattro lettori”.



sabato 22 dicembre 2012

IL "DIO NIGLIU"

Per coloro che ancora lo ricordano, nella nostra antica lingua, “Nigliu” era nient’altro che il vezzeggiativo di “puorcu”, nella semplice accezione di animale domestico (senza alcuna allusione a condotte etiche e morali di particolari persone che venivano animalizzate in tale figura colorita) .
Nigliu veniva per lo più utilizzato nel caratteristico richiamo, a volte cantilenato “nigliu tè, tè, tè” che, in buona sostanza, voleva dire “grazioso maialino avvicinatiti, avvicinati, avvicinati”. Mi sembra ancora di sentirlo risuonare: era il richiamo del tardo pomeriggio, momento in cui il suino doveva ricevere la quotidiana razione ed era destinato, dopo una giornata trascorsa all’aria aperta, a rientrare nell’angusta “rolla”, che raramente superava un paio di metri quadri. Un richiamo che si poteva facilmente ascoltare tanto negli angusti vicoli e vinelle all’interno del borgo, quanto tra campagne e masserie; quasi ogni famiglia di estrazione popolare, infatti, allevava almeno uno o due suini. Se, invece, lo stesso richiamo era riferito ad un suino di sesso femminile, il “nigliu” diventava “nella”, ed allora: “nella tè, tè, tè”.
Quale l’esigenza, vi chiederete voi, di usare un richiamo così dolce e musicale per un animale da millenni additato (immeritatamente) come simbolo vivente di sporcizia fisica e morale?
Avete mai sentito parlare del “Dio Bisonte” dei Pellerossa d’America? Ta Tanka, patrono delle cerimonie della salute e del nutrimento, nella religione del popolo delle praterie, era venerato perché il bisonte, appunto, animale di cui rappresentava la deizzazione, forniva carne per sfamarsi, pelle per coprirsi e grasso per gli usi più svariati.
Ritengo, allora, che, nel coniare il vezzeggiativo “nigliu”, la nostra gente abbia seguito (più o meno) lo stesso percorso antropologico: il maiale, infatti, corrispondeva un po’ al bisonte nelle nostre contrade, essendo in grado di sfamare l’uomo con ogni parte del suo corpo; un vero modello di efficienza nella catena alimentare, ormai perduta. Del maiale domestico tutto veniva mangiato o comunque utilizzato: carni, grasso, interiora, orecchie, piedi, pelle ecc., persino le ossa venivano ricotte dopo essere state scarnite, allo scopo di staccarvi gli ultimi brandelli di muscolo.
Una risorsa preziosa per i tempi magri vissuti dai nostri progenitori; tanto preziosa da indurre due popoli, il nostro e quelle pellerossa, così distanti in tutto, ad adottare comportamenti, se non simili ed analoghi, almeno spiegabili facendo ricorso a motivazioni comuni.

martedì 11 dicembre 2012

E n'ata vota Zi Piè

La società dell’immagine, che viviamo quotidianamente, impone come valori chiave la ricchezza economica e la visibilità; non è una assoluta novità: rivangando nella nostra memoria comune ci imbattiamo in personaggi per i quali la ricerca spasmodica di visibilità e riconoscimenti pubblici a volte ha condotto ad un tale livello di ridicolo che neppure la fine della vita è riuscita a cancellare. Può anche sembrare un paradosso, ma è storia!... chi voleva essere ricordato per meriti e fama viene piuttosto additato per il ridicolo di cui si è coperto, come dimostra la vicenda che vado a raccontarvi!
Si racconta infatti che, tempo fa, un anziano contadino, avendo notevolmente migliorato la propria posizione economica, grazie al lavoro e ai sacrifici, man mano che diventava vecchio sentiva crescere in sé la voglia di visibilità e prestigio sociale. In particolare, tra le sue massime aspirazioni vi era che coloro i quali fino a quel momento si erano rivolti a lui chiamandolo semplicemente “Zì Pietro” (Zì è un appellativo affettuoso che si dava alle persone anziane e, pertanto, degne di rispetto, NDR), sostituissero quell’appellativo con “Don Pietro”, promuovendolo, almeno nelle intenzioni, nella rigida scala sociale del tempo andato.
La voce e la nomea si diffusero, e la cosa stava ben assumendo i contorni del ridicolo a cui, di solito, queste situazioni ed ambizioni espongono i soggetti: si vuole che, incontrandolo per strada a bordo del suo bel calesse, se si voleva ottenere da lui un passaggio bisognava assolutamente chiamarlo Don Pietro, altrimenti il protagonista della nostra storia fingeva di ignorare la richiesta; se nello svolgere un lavoro, una commissione uno dei suoi numerosi garzoni e mezzadri, distrattamente o anche volutamente, gli si rivolgeva con l’usato vocativo “Zì Piè”, lui seccato ed indispettito lo riprendeva: “E n’ata vota Zi Piè?”, che significava “Ti ho detto e ripetuto che voglio che tu mi ti rivolga chiamandomi Don Pietro, ed allora perché mi chiami ancora Zì Pietro?”.
L’episodio e la taccia sono divenuti talmente famosi da essere entrati nell’uso comune del nostro linguaggio rurale, ed è facile che qualcuno, ancor’oggi, indispettito e contrariato per l’ennesimo e noioso ripetersi di una qualsiasi contrarietà esclami, tra il serio e il faceto: “E n’ata vota Zi Piè…”, richiamando alla memoria un uomo a cui il destino fece un brutto scherzo, consegnandolo alla storia come emblema e modello di presunzione sociale e frustrata voglia di visibilità.

sabato 1 dicembre 2012

LA VILLETTA

Secondo una tendenza abbastanza diffusa gli anni ’70 sono quelli delle grandi tensioni ideali, delle contestazioni studentesche, degli “autunni caldi” sindacali. Non è così, o meglio, non è solo così! Rivendico a gran voce, anche in nome e per conto di quelli come me, che noi siamo stati la generazione dei “casinisti”… gente abituata e propensa a “fare ammuina”, noi nati fra gli anni ’50 e 60, interessati quindi, anche e soprattutto, a tematiche ben più effimere. Bastava veramente poco: uno stereo da quattro soldi, due o tre dischi (sequenza ideale 4 “lenti” e massimo uno o due “svelti”) e la festa poteva cominciare.
Sono un nostalgico, forse neppure io posseggo la forza e gli argomenti per negarlo, ma quel tempo, quello della nostra giovinezza, dobbiamo riconoscerlo, è stato veramente bello!
In particolare ricordo il giardino di una “villetta” sita nella periferia del paese, forse l’unica allora a disporre di una rudimentale piscina, nel quale si ballava nelle sere d’estate, quasi ogni sabato e domenica; gli amici che possedevano la villetta, oggi trasformata in condominio a più piani, erano particolarmente ospitali ed orgogliosi di accoglierci . La potenza dello stereo era talmente bassa che si poteva rimanere lì a ballare anche ben oltre la mezzanotte, tanto non era in grado di dar fastidio a nessuno! D’altronde, chi si trovava in quel luogo non era affatto interessato ad ascoltare la musica, che, più che altro, rappresentava un buon pretesto. La scaletta sempre la stessa: “Odio l’estate” di Bruno Martino, le cover italiane di Aznavour, Samba pa ti per i lenti, Oye como va e Barry White per gli svelti. Chi tra noi si atteggiava a dj, dizione quanto mai impropria, anche in considerazione dell’amplificazione disponibile, veniva guardato dai presenti con una sottile vena di invidia, anche perché detentore del potere di guidare la festa alternando lenti e svelti ed, in questo modo, fare da facilitatore per certi approcci.
Frequente era poi l’epilogo del finire vestiti nella piscina, soprattutto se tra i presenti si trovava il carissimo Carlo, un ex paracadutista, grande, grosso e forte come un toro, che purtroppo ci ha lasciato da qualche anno: una sera il sottoscritto, vittima designata da Carlo per uno di questi bagni forzati, fu sollevato da costui con un solo braccio e, di peso scaraventato quasi al centro della piscina; riemerso che fui, mi ritrovai costretto a farmi prestare l’intero abbigliamento, mutande comprese, dal padrone di casa, in quanto l’aria della sera di fine estate si era fatta frizzante e non avevo alcuna voglia di ritornare a casa per cambiarmi.
Gli incontri, gli sguardi, amori che nascevano ed altri che finivano, quante cose potrebbe raccontare quel giardino! Sensazioni innocenti, forti emozioni, divertimento conquistato con poco, sono stati questi gli ingredienti (altrettanto importanti)della giovinezza di una generazione cresciuta fra la strada e la piazza.