Scribacchiando per me

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il blog di un pietramelarese

mercoledì 16 dicembre 2020

RESTANZA

 


Qualche giorno fa, rincasando in auto dal lavoro, udii alla radio per la prima volta la parola “restanza”; dal web, mia principale fonte di conoscenza apprendo che la “restanza” in senso proprio e figurato è ciò che resta e permane; anche, ciò che avanza o non si consuma. Tuttavia il concetto, fattosi strada recentemente  negli studi antropologici, con particolare riferimento alla condizione problematica del Sud d’Italia, è la posizione di chi decide di restare, rinunciando a recidere il legame con la propria terra e comunità d’origine non per rassegnazione, ma con un atteggiamento propositivo.  Ero all’oscuro dell’esistenza di un termine che in qualche modo descrivesse il mio stato d’animo, quando esattamente il 22 marzo 2012, circa otto anni fa scribacchiai su questo blog la nota “siete di qua?” (http://scribacchiandoperme.blogspot.com/2012/03/siete-di-qua.html) , nel corpo della quale tratteggiai  le motivazioni che mi tenevano ancorato al mio paese, alla sua gente, al suo dialetto e alla sua cultura millenaria. In quel pezzo affermavo: “il profondo legame con le radici, secondo un’espressione pluriabusata, determina in me una forza in grado di resistere ad ogni sirena, anche la più allettante. Rimanere nel posto dove sono nato mi ha permesso di crescere rendendomi conto di cosa sono e dove sono”, quella forza che oggi apprendo si chiami “restanza”.

Perché è importante parlare di restanza? Perché le aree rurali sono da decenni vittime di spopolamento, cioè diminuzione della popolazione di un’area a causa dell’abbandono volontario o forzato da parte dei suoi residenti. Questo causa un invecchiamento della popolazione (sono giovani single e famiglie a partire), e un futuro fatto probabilmente   di "paesi fantasma", mentre nelle città medie e nelle metropoli non c’è spazio per la gente che vuole abitarci.

I danni non si limitano a questo: vi è una progressiva perdita delle tradizioni, aumenta il rischio di dissesto idrogeologico, specialmente nelle zone montane. Eppure è fondamentale contrastare lo spopolamento, per garantire la conservazione del patrimonio culturale dei piccoli centri, per tutelare la produzione agricola ed enogastronomica. Non solo, sarebbe anche conveniente, perché si possono trasformare certi luoghi in fruttuose opportunità turistiche.

L’antropologo Vito Teti, teorico della restanza, afferma che essa “denota non un pigro e inconsapevole stare fermi, un attendere muti e rassegnati. Indica, al contrario, un movimento, una tensione, un’attenzione. Richiede pienezza di essere, persuasione, scelta, passione. Un sentirsi in viaggio camminando, una ricerca continua del proprio luogo, sempre in atteggiamento di attesa: sempre pronti allo spaesamento, disponibili al cambiamento e alla condivisione dei luoghi che ci sono affidati. Un avvertirsi in esilio e straniero nel luogo in cui si vive…”.

Il mutamento epocale consiste in questo:  se prima vi era il coraggio e il sacrificio dell’emigrante che partiva, ad esso si è sostituito il coraggio di chi resta.

L’esperimento più riuscito di “restanza” e vicino a noi, è quello di Valogno, frazione di Sessa Aurunca, in cui Giovanni Casale, romano – ma originario del borgo – a cui si deve la rinascita del paesino attraverso l’arte dei murales,  ha deciso di lasciare Roma e di trasferirsi nella casa paterna, per aprila a tutti e farla diventare luogo di incontri, scambio di idee e di condivisione.

Restare, allora, non è uno slogan né un proclama. Presuppone sapere individuare dove soffia lo spirito del Carnevale, del rovesciamento, dell’utopia. Il paese presepe è finito, frantumato, smembrato, esploso, svuotato. Le sue schegge hanno costruito nuovi abitati, nuovi mondi. Molte di queste schegge tornano, profondamente mutate, all’indietro. Ma ogni ritorno è un nuovo inizio!

 

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