Scribacchiando per me

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il blog di un pietramelarese

domenica 9 giugno 2013

PARLENN' CU RISPETTU (o...della pudicizia rurale)


Nel viaggio immaginario ed emozionale all’interno della civiltà contadina, nel quale lo stesso vostro blogger “scribacchiante” è, ad un tempo, guida e viaggiatore incantato, un aspetto ancora non considerato è quello della pudicizia. Un valore questo, una categoria che oggi, nel linguaggio giornalistico va sotto il nome di “pruderie”; secondo una definizione tratta dal web “Il termine starebbe a indicare moralismo di stampo puritano, perbenismo un po’ bigotto, castigatezza oltre misura, esagerato pudore, insomma”. Proprio su questo aspetto della “pudicizia rurale” vorrei soffermarmi: quella dei nostri nonni è stata vera morigeratezza, oppure si tratta solo di una questione di facciata? O meglio: il pudore, la pudicizia sono sentimenti più autentici oggi, al livello di minimo storico, o ieri? Come al solito gli aspetti da considerare sono molteplici e l’analisi rischia di divenire pesante e poco digeribile, mi limiterò, quindi, come al solito, solo a ripercorrere con la memoria ciò che ricordo.
Il pudore traspariva da ogni atto di quella tramontata civiltà, ed a volte ripensarci fa sorridere. La cosa veniva poi portata agli estremi quando un dialogo si stabiliva fra individui appartenenti a diverse classi e categorie, nettamente separate secondo la rigida stratificazione sociale del tempo. In tali contesti, quando proprio non si poteva fare a meno di citare nel discorso parti anatomiche, atti o anche animali considerati “impuri”, si cercava di minimizzare la cosa con la scusante “parlenn’ cu rispettu”, ed allora: “parlenn cu rispettu, i pieri”, “parlenn cu rispettu, stevu a ffà i fatti miei (facevo i miei bisogni, ndr)”, “parlenn cu rispettu, ju puorcu”. Era questo un modo come un altro di cercare di non offendere l’interlocutore altolocato; ma … pensateci: come se tale signore, altolocato o meno che sia stato, non avesse i piedi anch’esso, non faceva mai i propri bisogni e non avesse mai visto un maiale o mangiato le saporite carni, ecc.
Che dire poi di tutte le faccende attinenti al sesso? In tal caso il pudore nel discorso assumeva i tratti dell’omertà! Come in tutti i discorsi che coinvolgevano l’apparato genitale femminile, le sue cicliche indisposizioni e le sue (purtroppo) frequenti malattie. La donna, nei giorni del mestruo, era considerata impura e quindi inadatta a molte faccende domestiche, come la lavorazione delle carni di maiale, quella delle bottiglie di pomodoro ecc. … ma la cosa andava trattata con la dovuta discrezione: ed allora mentre già si era iniziato a lavorare tutte insieme essa, “rea” di una fisiologica ricorrenza mensile, si avvicinava in silenzio e un quasi po’ contrita alla più anziana del gruppo, la matriarca, e le sussurrava qualcosa nell’orecchio e costei , con l’autorità derivante dal ruolo, le diceva comprensiva e severa “… e vvà, vvà”, dispensandola da ogni incombenza, le altre fingevano di non aver udito e non chiedevano alcuna spiegazione in merito all’assenza.
Quando poi la sfortuna si accaniva su qualcuna, con una malattia all’utero, alle ovaie o al seno, guai a parlarne con chiarezza ed apertura! “Se tratta r’ cos’ re femm’n”, si rispondeva severi a chi, imprudente o inconsapevole, chiedesse la causa di qualche malessere di una sorella, di una cognata o di un’amica di famiglia. Ed allora si capiva che non si poteva e non si doveva andare oltre.

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