Fine anno, tempo di bilanci, anche per il sottoscritto. L’analisi che si deve condurre su se stessi deve essere severa e mai autoassolutoria, ma allo stesso tempo serena.
Nell’anno che sta per terminare ho conosciuto tanta gente nuova: oltre ai tanti che, quasi quotidianamente, passano per la mia stanza, tanti altri ne ho incontrati muovendomi per lavoro o per seguire i miei interessi e le mie passioni. Da alcuni ho ricevuto riconoscimenti e lodi, da altri delusioni, a volte cocenti.
La mia famiglia è cresciuta: alcuni problemi sono da considerare definitivamente superati, altri, e più complessi da affrontare, si profilano all’orizzonte; mi rendo conto, con una certa apprensione, che mentre mi compiacevo per due bambine che allietavano la mia vita, man mano, due giovani donne stanno prendendo il loro posto.
Il lavoro va avanti e i problemi da risolvere sono all’ordine del giorno ma, per fortuna, nessuno di essi è in grado di turbare la mia esistenza; i rapporti con i superiori e con i colleghi sono generalmente buoni, anche se -va detto - devo mettere in gioco tutto il mio equilibrio per far sì che rimangano veramente tali.
Sono molto dispiaciuto e preoccupato per la piega che ha preso il mio paese, che nella scorsa primavera ha riconfermato la fiducia a persone, a mio parere, prive di progettualità politica e supine nei confronti di “poteri” che da decenni hanno stabilmente occupato la Casa Comunale. L’esempio più lampante dello sfascio e del degrado: opere seppur pervicacemente volute dagli stessi amministratori, che giacciono incompiute e sospese “sine die”.
La terra, a me sacra, dove riposano i miei cari, dove sono nato e vorrei continuare a vivere, penso che meriti qualcosa di più. E’ urgente che qualcuno, in grado di restituirle almeno in parte, quel prestigio di cui ha sempre goduto, si faccia avanti.
Un bilancio, come tanti, connotato da luci ed ombre: ora prevalgono le une, ora le altre. Di una cosa, tuttavia, sono convinto: in queste alterne fortune non ho mai smarrito la serenità interiore. Con tale spirito, preoccupato ma positivo, mi preparo al 2013 e brindo al nuovo anno insieme a voi, miei carissimi “quattro lettori”.
Scribacchiando per me
venerdì 28 dicembre 2012
sabato 22 dicembre 2012
IL "DIO NIGLIU"
Per coloro che ancora lo ricordano, nella nostra antica lingua, “Nigliu” era nient’altro che il vezzeggiativo di “puorcu”, nella semplice accezione di animale domestico (senza alcuna allusione a condotte etiche e morali di particolari persone che venivano animalizzate in tale figura colorita) .
Nigliu veniva per lo più utilizzato nel caratteristico richiamo, a volte cantilenato “nigliu tè, tè, tè” che, in buona sostanza, voleva dire “grazioso maialino avvicinatiti, avvicinati, avvicinati”. Mi sembra ancora di sentirlo risuonare: era il richiamo del tardo pomeriggio, momento in cui il suino doveva ricevere la quotidiana razione ed era destinato, dopo una giornata trascorsa all’aria aperta, a rientrare nell’angusta “rolla”, che raramente superava un paio di metri quadri. Un richiamo che si poteva facilmente ascoltare tanto negli angusti vicoli e vinelle all’interno del borgo, quanto tra campagne e masserie; quasi ogni famiglia di estrazione popolare, infatti, allevava almeno uno o due suini. Se, invece, lo stesso richiamo era riferito ad un suino di sesso femminile, il “nigliu” diventava “nella”, ed allora: “nella tè, tè, tè”.
Quale l’esigenza, vi chiederete voi, di usare un richiamo così dolce e musicale per un animale da millenni additato (immeritatamente) come simbolo vivente di sporcizia fisica e morale?
Avete mai sentito parlare del “Dio Bisonte” dei Pellerossa d’America? Ta Tanka, patrono delle cerimonie della salute e del nutrimento, nella religione del popolo delle praterie, era venerato perché il bisonte, appunto, animale di cui rappresentava la deizzazione, forniva carne per sfamarsi, pelle per coprirsi e grasso per gli usi più svariati.
Ritengo, allora, che, nel coniare il vezzeggiativo “nigliu”, la nostra gente abbia seguito (più o meno) lo stesso percorso antropologico: il maiale, infatti, corrispondeva un po’ al bisonte nelle nostre contrade, essendo in grado di sfamare l’uomo con ogni parte del suo corpo; un vero modello di efficienza nella catena alimentare, ormai perduta. Del maiale domestico tutto veniva mangiato o comunque utilizzato: carni, grasso, interiora, orecchie, piedi, pelle ecc., persino le ossa venivano ricotte dopo essere state scarnite, allo scopo di staccarvi gli ultimi brandelli di muscolo.
Una risorsa preziosa per i tempi magri vissuti dai nostri progenitori; tanto preziosa da indurre due popoli, il nostro e quelle pellerossa, così distanti in tutto, ad adottare comportamenti, se non simili ed analoghi, almeno spiegabili facendo ricorso a motivazioni comuni.
Nigliu veniva per lo più utilizzato nel caratteristico richiamo, a volte cantilenato “nigliu tè, tè, tè” che, in buona sostanza, voleva dire “grazioso maialino avvicinatiti, avvicinati, avvicinati”. Mi sembra ancora di sentirlo risuonare: era il richiamo del tardo pomeriggio, momento in cui il suino doveva ricevere la quotidiana razione ed era destinato, dopo una giornata trascorsa all’aria aperta, a rientrare nell’angusta “rolla”, che raramente superava un paio di metri quadri. Un richiamo che si poteva facilmente ascoltare tanto negli angusti vicoli e vinelle all’interno del borgo, quanto tra campagne e masserie; quasi ogni famiglia di estrazione popolare, infatti, allevava almeno uno o due suini. Se, invece, lo stesso richiamo era riferito ad un suino di sesso femminile, il “nigliu” diventava “nella”, ed allora: “nella tè, tè, tè”.
Quale l’esigenza, vi chiederete voi, di usare un richiamo così dolce e musicale per un animale da millenni additato (immeritatamente) come simbolo vivente di sporcizia fisica e morale?
Avete mai sentito parlare del “Dio Bisonte” dei Pellerossa d’America? Ta Tanka, patrono delle cerimonie della salute e del nutrimento, nella religione del popolo delle praterie, era venerato perché il bisonte, appunto, animale di cui rappresentava la deizzazione, forniva carne per sfamarsi, pelle per coprirsi e grasso per gli usi più svariati.
Ritengo, allora, che, nel coniare il vezzeggiativo “nigliu”, la nostra gente abbia seguito (più o meno) lo stesso percorso antropologico: il maiale, infatti, corrispondeva un po’ al bisonte nelle nostre contrade, essendo in grado di sfamare l’uomo con ogni parte del suo corpo; un vero modello di efficienza nella catena alimentare, ormai perduta. Del maiale domestico tutto veniva mangiato o comunque utilizzato: carni, grasso, interiora, orecchie, piedi, pelle ecc., persino le ossa venivano ricotte dopo essere state scarnite, allo scopo di staccarvi gli ultimi brandelli di muscolo.
Una risorsa preziosa per i tempi magri vissuti dai nostri progenitori; tanto preziosa da indurre due popoli, il nostro e quelle pellerossa, così distanti in tutto, ad adottare comportamenti, se non simili ed analoghi, almeno spiegabili facendo ricorso a motivazioni comuni.
martedì 11 dicembre 2012
E n'ata vota Zi Piè
La società dell’immagine, che viviamo quotidianamente, impone come valori chiave la ricchezza economica e la visibilità; non è una assoluta novità: rivangando nella nostra memoria comune ci imbattiamo in personaggi per i quali la ricerca spasmodica di visibilità e riconoscimenti pubblici a volte ha condotto ad un tale livello di ridicolo che neppure la fine della vita è riuscita a cancellare. Può anche sembrare un paradosso, ma è storia!... chi voleva essere ricordato per meriti e fama viene piuttosto additato per il ridicolo di cui si è coperto, come dimostra la vicenda che vado a raccontarvi!
Si racconta infatti che, tempo fa, un anziano contadino, avendo notevolmente migliorato la propria posizione economica, grazie al lavoro e ai sacrifici, man mano che diventava vecchio sentiva crescere in sé la voglia di visibilità e prestigio sociale. In particolare, tra le sue massime aspirazioni vi era che coloro i quali fino a quel momento si erano rivolti a lui chiamandolo semplicemente “Zì Pietro” (Zì è un appellativo affettuoso che si dava alle persone anziane e, pertanto, degne di rispetto, NDR), sostituissero quell’appellativo con “Don Pietro”, promuovendolo, almeno nelle intenzioni, nella rigida scala sociale del tempo andato.
La voce e la nomea si diffusero, e la cosa stava ben assumendo i contorni del ridicolo a cui, di solito, queste situazioni ed ambizioni espongono i soggetti: si vuole che, incontrandolo per strada a bordo del suo bel calesse, se si voleva ottenere da lui un passaggio bisognava assolutamente chiamarlo Don Pietro, altrimenti il protagonista della nostra storia fingeva di ignorare la richiesta; se nello svolgere un lavoro, una commissione uno dei suoi numerosi garzoni e mezzadri, distrattamente o anche volutamente, gli si rivolgeva con l’usato vocativo “Zì Piè”, lui seccato ed indispettito lo riprendeva: “E n’ata vota Zi Piè?”, che significava “Ti ho detto e ripetuto che voglio che tu mi ti rivolga chiamandomi Don Pietro, ed allora perché mi chiami ancora Zì Pietro?”.
L’episodio e la taccia sono divenuti talmente famosi da essere entrati nell’uso comune del nostro linguaggio rurale, ed è facile che qualcuno, ancor’oggi, indispettito e contrariato per l’ennesimo e noioso ripetersi di una qualsiasi contrarietà esclami, tra il serio e il faceto: “E n’ata vota Zi Piè…”, richiamando alla memoria un uomo a cui il destino fece un brutto scherzo, consegnandolo alla storia come emblema e modello di presunzione sociale e frustrata voglia di visibilità.
Si racconta infatti che, tempo fa, un anziano contadino, avendo notevolmente migliorato la propria posizione economica, grazie al lavoro e ai sacrifici, man mano che diventava vecchio sentiva crescere in sé la voglia di visibilità e prestigio sociale. In particolare, tra le sue massime aspirazioni vi era che coloro i quali fino a quel momento si erano rivolti a lui chiamandolo semplicemente “Zì Pietro” (Zì è un appellativo affettuoso che si dava alle persone anziane e, pertanto, degne di rispetto, NDR), sostituissero quell’appellativo con “Don Pietro”, promuovendolo, almeno nelle intenzioni, nella rigida scala sociale del tempo andato.
La voce e la nomea si diffusero, e la cosa stava ben assumendo i contorni del ridicolo a cui, di solito, queste situazioni ed ambizioni espongono i soggetti: si vuole che, incontrandolo per strada a bordo del suo bel calesse, se si voleva ottenere da lui un passaggio bisognava assolutamente chiamarlo Don Pietro, altrimenti il protagonista della nostra storia fingeva di ignorare la richiesta; se nello svolgere un lavoro, una commissione uno dei suoi numerosi garzoni e mezzadri, distrattamente o anche volutamente, gli si rivolgeva con l’usato vocativo “Zì Piè”, lui seccato ed indispettito lo riprendeva: “E n’ata vota Zi Piè?”, che significava “Ti ho detto e ripetuto che voglio che tu mi ti rivolga chiamandomi Don Pietro, ed allora perché mi chiami ancora Zì Pietro?”.
L’episodio e la taccia sono divenuti talmente famosi da essere entrati nell’uso comune del nostro linguaggio rurale, ed è facile che qualcuno, ancor’oggi, indispettito e contrariato per l’ennesimo e noioso ripetersi di una qualsiasi contrarietà esclami, tra il serio e il faceto: “E n’ata vota Zi Piè…”, richiamando alla memoria un uomo a cui il destino fece un brutto scherzo, consegnandolo alla storia come emblema e modello di presunzione sociale e frustrata voglia di visibilità.
sabato 1 dicembre 2012
LA VILLETTA
Secondo una tendenza abbastanza diffusa gli anni ’70 sono quelli delle grandi tensioni ideali, delle contestazioni studentesche, degli “autunni caldi” sindacali. Non è così, o meglio, non è solo così! Rivendico a gran voce, anche in nome e per conto di quelli come me, che noi siamo stati la generazione dei “casinisti”… gente abituata e propensa a “fare ammuina”, noi nati fra gli anni ’50 e 60, interessati quindi, anche e soprattutto, a tematiche ben più effimere. Bastava veramente poco: uno stereo da quattro soldi, due o tre dischi (sequenza ideale 4 “lenti” e massimo uno o due “svelti”) e la festa poteva cominciare.
Sono un nostalgico, forse neppure io posseggo la forza e gli argomenti per negarlo, ma quel tempo, quello della nostra giovinezza, dobbiamo riconoscerlo, è stato veramente bello!
In particolare ricordo il giardino di una “villetta” sita nella periferia del paese, forse l’unica allora a disporre di una rudimentale piscina, nel quale si ballava nelle sere d’estate, quasi ogni sabato e domenica; gli amici che possedevano la villetta, oggi trasformata in condominio a più piani, erano particolarmente ospitali ed orgogliosi di accoglierci . La potenza dello stereo era talmente bassa che si poteva rimanere lì a ballare anche ben oltre la mezzanotte, tanto non era in grado di dar fastidio a nessuno! D’altronde, chi si trovava in quel luogo non era affatto interessato ad ascoltare la musica, che, più che altro, rappresentava un buon pretesto. La scaletta sempre la stessa: “Odio l’estate” di Bruno Martino, le cover italiane di Aznavour, Samba pa ti per i lenti, Oye como va e Barry White per gli svelti. Chi tra noi si atteggiava a dj, dizione quanto mai impropria, anche in considerazione dell’amplificazione disponibile, veniva guardato dai presenti con una sottile vena di invidia, anche perché detentore del potere di guidare la festa alternando lenti e svelti ed, in questo modo, fare da facilitatore per certi approcci.
Frequente era poi l’epilogo del finire vestiti nella piscina, soprattutto se tra i presenti si trovava il carissimo Carlo, un ex paracadutista, grande, grosso e forte come un toro, che purtroppo ci ha lasciato da qualche anno: una sera il sottoscritto, vittima designata da Carlo per uno di questi bagni forzati, fu sollevato da costui con un solo braccio e, di peso scaraventato quasi al centro della piscina; riemerso che fui, mi ritrovai costretto a farmi prestare l’intero abbigliamento, mutande comprese, dal padrone di casa, in quanto l’aria della sera di fine estate si era fatta frizzante e non avevo alcuna voglia di ritornare a casa per cambiarmi.
Gli incontri, gli sguardi, amori che nascevano ed altri che finivano, quante cose potrebbe raccontare quel giardino! Sensazioni innocenti, forti emozioni, divertimento conquistato con poco, sono stati questi gli ingredienti (altrettanto importanti)della giovinezza di una generazione cresciuta fra la strada e la piazza.
Sono un nostalgico, forse neppure io posseggo la forza e gli argomenti per negarlo, ma quel tempo, quello della nostra giovinezza, dobbiamo riconoscerlo, è stato veramente bello!
In particolare ricordo il giardino di una “villetta” sita nella periferia del paese, forse l’unica allora a disporre di una rudimentale piscina, nel quale si ballava nelle sere d’estate, quasi ogni sabato e domenica; gli amici che possedevano la villetta, oggi trasformata in condominio a più piani, erano particolarmente ospitali ed orgogliosi di accoglierci . La potenza dello stereo era talmente bassa che si poteva rimanere lì a ballare anche ben oltre la mezzanotte, tanto non era in grado di dar fastidio a nessuno! D’altronde, chi si trovava in quel luogo non era affatto interessato ad ascoltare la musica, che, più che altro, rappresentava un buon pretesto. La scaletta sempre la stessa: “Odio l’estate” di Bruno Martino, le cover italiane di Aznavour, Samba pa ti per i lenti, Oye como va e Barry White per gli svelti. Chi tra noi si atteggiava a dj, dizione quanto mai impropria, anche in considerazione dell’amplificazione disponibile, veniva guardato dai presenti con una sottile vena di invidia, anche perché detentore del potere di guidare la festa alternando lenti e svelti ed, in questo modo, fare da facilitatore per certi approcci.
Frequente era poi l’epilogo del finire vestiti nella piscina, soprattutto se tra i presenti si trovava il carissimo Carlo, un ex paracadutista, grande, grosso e forte come un toro, che purtroppo ci ha lasciato da qualche anno: una sera il sottoscritto, vittima designata da Carlo per uno di questi bagni forzati, fu sollevato da costui con un solo braccio e, di peso scaraventato quasi al centro della piscina; riemerso che fui, mi ritrovai costretto a farmi prestare l’intero abbigliamento, mutande comprese, dal padrone di casa, in quanto l’aria della sera di fine estate si era fatta frizzante e non avevo alcuna voglia di ritornare a casa per cambiarmi.
Gli incontri, gli sguardi, amori che nascevano ed altri che finivano, quante cose potrebbe raccontare quel giardino! Sensazioni innocenti, forti emozioni, divertimento conquistato con poco, sono stati questi gli ingredienti (altrettanto importanti)della giovinezza di una generazione cresciuta fra la strada e la piazza.
sabato 24 novembre 2012
DUE STELLE
A volte penso a me stesso come un marinaio, un navigante costretto a solcare mari insidiosi. Onde alte e possenti si scaricano sul fragile vascello che conduco e sono in grado di farmi deviare dalla rotta! Come ogni buon marinaio, tuttavia, so bene che, per non perdere la rotta, per condurre la nave in un porto sicuro, si devono guardare le stelle, si devono avere dei punti di riferimento fissi, precisi ed inequivocabili.
Con il timone ben stretto tra le mani, alzo lo sguardo e vedo le due stelle che mi guidano, splendono fortemente nello specchio di cielo che si riflette nel mio mare; sono molto diverse fra loro: la prima è un puntino lontano ma luminosissimo, splende di una luce bianca ed un po’ algida, i suoi raggi disegnano geometrie nette e precise. La seconda, invece, appare più grande e vicina, emana una luce molto più calda e rassicurante. Il loro allineamento, la loro posizione nella volta celeste mi sono noti a memoria, le individuo appena alzo gli occhi. E’ per loro che riesco ancora ad orientarmi, anche tra mille difficoltà e problemi, anche quando sembra che ogni riferimento sia stato annullato, che ogni cardine sia stato divelto; grazie a loro sono uscito indenne dalle tempeste violente che mi hanno coinvolto: sono, semplicemente, l’alfa e l’omega di ogni mia azione.
Fare a meno dell’una come dell’altra sarebbe impossibile, un vero atto contro natura: mi perderei di sicuro, ed un mare cupo ed oscuro sarebbe pronto ad inghiottirmi.
Con il timone ben stretto tra le mani, alzo lo sguardo e vedo le due stelle che mi guidano, splendono fortemente nello specchio di cielo che si riflette nel mio mare; sono molto diverse fra loro: la prima è un puntino lontano ma luminosissimo, splende di una luce bianca ed un po’ algida, i suoi raggi disegnano geometrie nette e precise. La seconda, invece, appare più grande e vicina, emana una luce molto più calda e rassicurante. Il loro allineamento, la loro posizione nella volta celeste mi sono noti a memoria, le individuo appena alzo gli occhi. E’ per loro che riesco ancora ad orientarmi, anche tra mille difficoltà e problemi, anche quando sembra che ogni riferimento sia stato annullato, che ogni cardine sia stato divelto; grazie a loro sono uscito indenne dalle tempeste violente che mi hanno coinvolto: sono, semplicemente, l’alfa e l’omega di ogni mia azione.
Fare a meno dell’una come dell’altra sarebbe impossibile, un vero atto contro natura: mi perderei di sicuro, ed un mare cupo ed oscuro sarebbe pronto ad inghiottirmi.
giovedì 8 novembre 2012
In quella bottiglia d'olio
Ho portato con me in ufficio una bottiglia d’olio appena prodotto: simbolico omaggio ai miei colleghi, estemporaneo condimento di bruschette e zuppa di fagioli, così…tanto per ripercorrere un uso ormai quasi consolidatosi in tradizione.
Mentre ci si preparava all’estemporanea colazione, in pausa mensa, guardavo in trasparenza quell’olio grezzo ed opaco, ancora tutt'altro che limpido, e consideravo cosa potesse contenere quella bottiglia.
Lontanissimo dal pensare ad acidi grassi monoinsaturi e a quelli polinsaturi, ai polifenoli nelle mille varianti, ai pigmenti naturali ed alle vitamine, ho letto, in primo luogo, trasparire da quella bottiglia i sacrifici ed il sudore di mio nonno, tanti anni fa in America, per mettere da parte il gruzzolo che gli avesse permesso di acquistare il fondo “Spitalera” in agro del comune di Roccaromana; terra generosa, dal suolo sciolto e fresco, di natura vulcanica, in grado di produrre ogni cosa le fosse stato richiesto: grano, granturco, fagioli, ortaggi, foraggio ed infine, dopo vari decenni, olive da olio, una volta ereditata da mia madre.
Era netta, poi, guardando in controluce, l’immagine della passione mia per la terra e le attività ad essa connesse; passione che mi permette di trascorrere ore ed ore del mio tempo libero in campagna, dimentico di tutto e di tutti, a zappare, vangare, potare, trattare ed, infine, a raccogliere i frutti di un intero anno di lavoro.
Era distinguibile, inoltre, in modo netto l’impegno e la fatica di Giovanni, sessantenne raccoglitore di olive, tutto nervi e muscoli, una vera scimmia, capace anche di raggiungere a vari metri di altezza sparuti gruppetti di drupe, mezza Marlboro fra le labbra, in equilibrio sicuro anche su fuscelli sottilissimi, favorito dal fisco esile e minuto e da un’agilità non comune, soprattutto data l’età.
Infine, quella bottiglia conteneva, e ne sono certo, la sapienza e le tradizioni di generazioni di contadini, gente della terra, che si sono dedicati all’olivo, autentico dono del Creato, sperimentando e diffondendo varietà, tecniche di produzione e quant’altro avesse potuto condurre a quel liquido dorato e prezioso, dal profumo inebriante.
Mentre ci si preparava all’estemporanea colazione, in pausa mensa, guardavo in trasparenza quell’olio grezzo ed opaco, ancora tutt'altro che limpido, e consideravo cosa potesse contenere quella bottiglia.
Lontanissimo dal pensare ad acidi grassi monoinsaturi e a quelli polinsaturi, ai polifenoli nelle mille varianti, ai pigmenti naturali ed alle vitamine, ho letto, in primo luogo, trasparire da quella bottiglia i sacrifici ed il sudore di mio nonno, tanti anni fa in America, per mettere da parte il gruzzolo che gli avesse permesso di acquistare il fondo “Spitalera” in agro del comune di Roccaromana; terra generosa, dal suolo sciolto e fresco, di natura vulcanica, in grado di produrre ogni cosa le fosse stato richiesto: grano, granturco, fagioli, ortaggi, foraggio ed infine, dopo vari decenni, olive da olio, una volta ereditata da mia madre.
Era netta, poi, guardando in controluce, l’immagine della passione mia per la terra e le attività ad essa connesse; passione che mi permette di trascorrere ore ed ore del mio tempo libero in campagna, dimentico di tutto e di tutti, a zappare, vangare, potare, trattare ed, infine, a raccogliere i frutti di un intero anno di lavoro.
Era distinguibile, inoltre, in modo netto l’impegno e la fatica di Giovanni, sessantenne raccoglitore di olive, tutto nervi e muscoli, una vera scimmia, capace anche di raggiungere a vari metri di altezza sparuti gruppetti di drupe, mezza Marlboro fra le labbra, in equilibrio sicuro anche su fuscelli sottilissimi, favorito dal fisco esile e minuto e da un’agilità non comune, soprattutto data l’età.
Infine, quella bottiglia conteneva, e ne sono certo, la sapienza e le tradizioni di generazioni di contadini, gente della terra, che si sono dedicati all’olivo, autentico dono del Creato, sperimentando e diffondendo varietà, tecniche di produzione e quant’altro avesse potuto condurre a quel liquido dorato e prezioso, dal profumo inebriante.
sabato 27 ottobre 2012
LAMP'M 'LLA'
Si racconta dalle nostre parti che, tempo fa, un musicante, un suonatore della locale banda, in una notte di fitta pioggia tornava a casa con il fido strumento sotto braccio, percorrendo un viottolo di campagna; arrivato sulla sponda di un ruscello, reso impetuoso e pieno dall’abbondante pioggia, costui implorò il Cielo che un fulmine illuminasse la notte fitta e buia, affinché egli potesse individuare un guado praticabile senza bagnarsi eccessivamente.
Il fulmine non arrivò e, alla men peggio, il brav’uomo dovette farsi coraggio ed attraversare il ruscello fidando su quel poco che riusciva a vedere:si bagnò fino alla cintola e, appena giunto alla sponda opposta, ecco che un fulmine potente e luminosissimo rischiarò l’intera volta celeste, campagna circostante e ruscello compresi. Roso dall’ira per quanto gli era appena accaduto e dalla beffa giocatagli dal caso, si vuole che il protagonista della nostra storiella esclamasse, a gran voce, al Cielo che gli aveva negato il favore, per poi beffarlo: “Lamp’m ‘llà”, cioè “Adesso che sono già passato e mi sono bagnato, illuminami pure il deretano”.
L’episodio è gustoso ed emblematico, tanto da essere entrato da tempo nel linguaggio comune delle nostre parti e, ogni qual volta attendiamo un intervento esterno, un aiuto miracoloso e risolutivo per un problema che ci attanaglia, per cancellare una negatività che ci angoscia, e che questo prezioso aiuto manca fino alla risoluzione del problema, per poi puntualmente verificarsi a problema risolto, ormai del tutto inutile, siamo soliti ripetere “Lamp’m ‘llà”.
Quante e quante volte, fuori di metafora, carissimi, ci siamo trovati in una situazione analoga a quella del nostro amico musicante: la vita di ogni giorno, il tran tran lavorativo ci mette nelle sue condizioni con cadenza, oserei dire, quotidiana.
Avete presente, a me è capitato, quelle volte in cui ci arrovelliamo il cervello per dare il tocco finale ad un lavoro in via di completamento, ma a cui manca quella nota fortemente positiva per farlo divenire “eccellente”; ci pensiamo e ripensiamo, ma… tutto inutile, alla fine ci arrendiamo e concludiamo la cosa come ci riesce, nel modo migliore a cui hanno portato le nostre possibilità, positivamente ma, purtroppo, senza brillare; e poi, poco dopo aver pronunciato la parola "fine" e, forse, ancor prima che il nostro lavoro cominci a destare effetti, poche righe lette da un libro dimenticato ci aprono al mente, o qualcosa del genere; vorremmo tornare sui nostri passi ma è troppo tardi, quel si doveva fare era già stato fatto, ed allora l’espressione vien fuori spontanea: “Lamp’m ‘llà”.
Il fulmine non arrivò e, alla men peggio, il brav’uomo dovette farsi coraggio ed attraversare il ruscello fidando su quel poco che riusciva a vedere:si bagnò fino alla cintola e, appena giunto alla sponda opposta, ecco che un fulmine potente e luminosissimo rischiarò l’intera volta celeste, campagna circostante e ruscello compresi. Roso dall’ira per quanto gli era appena accaduto e dalla beffa giocatagli dal caso, si vuole che il protagonista della nostra storiella esclamasse, a gran voce, al Cielo che gli aveva negato il favore, per poi beffarlo: “Lamp’m ‘llà”, cioè “Adesso che sono già passato e mi sono bagnato, illuminami pure il deretano”.
L’episodio è gustoso ed emblematico, tanto da essere entrato da tempo nel linguaggio comune delle nostre parti e, ogni qual volta attendiamo un intervento esterno, un aiuto miracoloso e risolutivo per un problema che ci attanaglia, per cancellare una negatività che ci angoscia, e che questo prezioso aiuto manca fino alla risoluzione del problema, per poi puntualmente verificarsi a problema risolto, ormai del tutto inutile, siamo soliti ripetere “Lamp’m ‘llà”.
Quante e quante volte, fuori di metafora, carissimi, ci siamo trovati in una situazione analoga a quella del nostro amico musicante: la vita di ogni giorno, il tran tran lavorativo ci mette nelle sue condizioni con cadenza, oserei dire, quotidiana.
Avete presente, a me è capitato, quelle volte in cui ci arrovelliamo il cervello per dare il tocco finale ad un lavoro in via di completamento, ma a cui manca quella nota fortemente positiva per farlo divenire “eccellente”; ci pensiamo e ripensiamo, ma… tutto inutile, alla fine ci arrendiamo e concludiamo la cosa come ci riesce, nel modo migliore a cui hanno portato le nostre possibilità, positivamente ma, purtroppo, senza brillare; e poi, poco dopo aver pronunciato la parola "fine" e, forse, ancor prima che il nostro lavoro cominci a destare effetti, poche righe lette da un libro dimenticato ci aprono al mente, o qualcosa del genere; vorremmo tornare sui nostri passi ma è troppo tardi, quel si doveva fare era già stato fatto, ed allora l’espressione vien fuori spontanea: “Lamp’m ‘llà”.
venerdì 19 ottobre 2012
Scagnajurnata
Noto con piacere che i miei amici di facebook sorridano e si interessino molto al fatto che io riproponga, con ironia ed un pizzico di malcelata nostalgia, proverbi, modi di dire ed espressioni che fanno parte del mio dialetto: lo arguisco dai commenti, dai “mi piace”, dalle condivisioni sulle varie bacheche personali.
Il dialetto pietramelarese e la saggezza di quella antica gente contadina che lo ha usato, ci rimandano in un’altra dimensione, ormai del tutto tramontata, anche se a tratti quanto mai attuale. Il dialetto, espressione di quella civiltà contadina fatta di lavoro mezzadrile, sudore, sacrifici, a volte persino miseria, ma anche da tutta una serie di elevate positività: valori solidaristici che traspaiono da tradizioni e modi di essere.
Ho già avuto modo di parlare degli “arrusti” che si scambiavano fra famiglie nel periodo invernale, allorquando si consumava il cruento rito del sacrificio del suino di turno (*), del “frischiare” nelle serate estive, eccetera. Ma, da tante e tante ulteriori usanze e tradizioni trapela un senso di solidarietà diffusa fra famiglie, ormai perduta, diciamolo; chi, come me, ha più di un capello bianco dovrebbe ricordare, a tal proposito un’altra consuetudine dei nostri contadini, tenuta in vita sino a qualche decennio fa: lo “scagnajurnata” (scambiagiornata, ndr). Nei periodi in cui nelle nostre campagne diventava più intenso il fabbisogno di braccia e di lavoro, la mietitura, la fienagione, la vendemmia e così via, si usava che gli uomini lavorassero gratis nelle altrui masserie e venissero ricambiati con lo stesso servigio nella propria, da coloro stessi che avevano goduto di quella collaborazione indispensabile, per quei tempi. Detto così la cosa non ha nulla di speciale e pittoresco: un semplice “do ut des” lavorativo, nient’altro, cancellato definitivamente dall’avvento e la diffusione della meccanizzazione agricola! Vedete, a pensarci bene, c’è anche un risvolto sociale e sentimentale della faccenda: poteva succedere, infatti, che in questo continuo andirivieni di persone da una casa all’altra, da un’aia a quella lì vicino, il padre non poteva andare e così ricambiare il favore ricevuto e perciò, in sua sostituzione, mandava il figlio maggiore, già forte ed esperto del mestiere; si sa come vanno le cose, nella masseria vicina potevano esserci una o più ragazze in età da marito e… da cosa nasce cosa, quanti amori sono iniziati in tal modo, quanti matrimoni sono stati celebrati, quante famiglie, infine, hanno rimescolato il proprio sangue per dar luogo a quella gente meravigliosa, con il volto perennemente scottato dal sole, che abitava le nostre campagne.
(*)cfr. su questo blog “Arrustu: tra storia ed antropologia”, 15 febbraio 2011 e “Una mattina di gennaio un sacrificio pagano” 18 gennaio 2012, ndr
Il dialetto pietramelarese e la saggezza di quella antica gente contadina che lo ha usato, ci rimandano in un’altra dimensione, ormai del tutto tramontata, anche se a tratti quanto mai attuale. Il dialetto, espressione di quella civiltà contadina fatta di lavoro mezzadrile, sudore, sacrifici, a volte persino miseria, ma anche da tutta una serie di elevate positività: valori solidaristici che traspaiono da tradizioni e modi di essere.
Ho già avuto modo di parlare degli “arrusti” che si scambiavano fra famiglie nel periodo invernale, allorquando si consumava il cruento rito del sacrificio del suino di turno (*), del “frischiare” nelle serate estive, eccetera. Ma, da tante e tante ulteriori usanze e tradizioni trapela un senso di solidarietà diffusa fra famiglie, ormai perduta, diciamolo; chi, come me, ha più di un capello bianco dovrebbe ricordare, a tal proposito un’altra consuetudine dei nostri contadini, tenuta in vita sino a qualche decennio fa: lo “scagnajurnata” (scambiagiornata, ndr). Nei periodi in cui nelle nostre campagne diventava più intenso il fabbisogno di braccia e di lavoro, la mietitura, la fienagione, la vendemmia e così via, si usava che gli uomini lavorassero gratis nelle altrui masserie e venissero ricambiati con lo stesso servigio nella propria, da coloro stessi che avevano goduto di quella collaborazione indispensabile, per quei tempi. Detto così la cosa non ha nulla di speciale e pittoresco: un semplice “do ut des” lavorativo, nient’altro, cancellato definitivamente dall’avvento e la diffusione della meccanizzazione agricola! Vedete, a pensarci bene, c’è anche un risvolto sociale e sentimentale della faccenda: poteva succedere, infatti, che in questo continuo andirivieni di persone da una casa all’altra, da un’aia a quella lì vicino, il padre non poteva andare e così ricambiare il favore ricevuto e perciò, in sua sostituzione, mandava il figlio maggiore, già forte ed esperto del mestiere; si sa come vanno le cose, nella masseria vicina potevano esserci una o più ragazze in età da marito e… da cosa nasce cosa, quanti amori sono iniziati in tal modo, quanti matrimoni sono stati celebrati, quante famiglie, infine, hanno rimescolato il proprio sangue per dar luogo a quella gente meravigliosa, con il volto perennemente scottato dal sole, che abitava le nostre campagne.
(*)cfr. su questo blog “Arrustu: tra storia ed antropologia”, 15 febbraio 2011 e “Una mattina di gennaio un sacrificio pagano” 18 gennaio 2012, ndr
martedì 2 ottobre 2012
NONNI
Sono “figlio di persone antiche”, come diceva anche il grande Luciano De Crescenzo, e anche se porto il nome del padre di mio padre, i miei nonni paterni li ho conosciuti solo in fotografia. Ricordo molto bene, invece, quelli dalla parte di mia madre: nonno Pasquale e nonna Peppinella.
Il primo era un vero e proprio modello italo/meridionale per antonomasia: di famiglia contadina, imparò un mestiere e, poco più che adolescente emigrò negli USA. Anni difficili, quelli, anche nel paese più ricco del mondo: la grande depressione del ’29, il proibizionismo, lo strisciante sentimento antitaliano; passato questo periodo buio gli andò, tutto sommato, bene, essendo l’attività di carpentiere molto apprezzata allora da quelle parti. Ritornò in Italia con un consistente gruzzolo da parte, che investì in un bene (immateriale) allora del tutto sconosciuto: la cultura. Spese, infatti, tanti soldi per far studiare mia madre e gli altri figli, cosa di cui non si pentì mai; un vero e proprio innovatore, in anni in cui era raro anche spendere soldi per far studiare figli maschi lui volle figlie femmine laureate. La sue idee, per certi versi rivoluzionarie, suscitarono anche un po’ di ironia e di malcelata gelosia in paese, specie fra le famiglie più benestanti ed altolocate, fra le quali predominava in genere una diffusa e crassa ignoranza; ebbe anche qualche problema nel "Ventennio" per il suo antifascismo di “importazione americana”.
La nonna Peppinella proveniva da una famiglia giunta in paese dal Salernitano, commercianti in legname attratti a Pietramelara dai boschi del Monte Maggiore; era una donna di grande senso pratico, autoritaria e dolcissima allo stesso tempo. Impartiva ordini con il piglio di un sergente prussiano e, appena dopo, era capace di trascorrere accanto a te ore e ore per narrare antichi “cunti”, appresi quanto anche ella era bambina. Il suo pragmatismo la rendevano speculare e complementare rispetto alla figura del coniuge.
Questa breve nota storica sulle mie origini cade in un giorno dedicato ai nonni ed alla loro memoria, quando essi continuano ad esistere solo nel nostro ricordo; il contributo offerto, in termini di idee e di sacrificio affinché noi fossimo diventati, nel bene e nel male, quelli che siamo, è straordinario, e ritengo sia nostro dovere un sentimento di imperitura gratitudine nei loro confronti.
Il primo era un vero e proprio modello italo/meridionale per antonomasia: di famiglia contadina, imparò un mestiere e, poco più che adolescente emigrò negli USA. Anni difficili, quelli, anche nel paese più ricco del mondo: la grande depressione del ’29, il proibizionismo, lo strisciante sentimento antitaliano; passato questo periodo buio gli andò, tutto sommato, bene, essendo l’attività di carpentiere molto apprezzata allora da quelle parti. Ritornò in Italia con un consistente gruzzolo da parte, che investì in un bene (immateriale) allora del tutto sconosciuto: la cultura. Spese, infatti, tanti soldi per far studiare mia madre e gli altri figli, cosa di cui non si pentì mai; un vero e proprio innovatore, in anni in cui era raro anche spendere soldi per far studiare figli maschi lui volle figlie femmine laureate. La sue idee, per certi versi rivoluzionarie, suscitarono anche un po’ di ironia e di malcelata gelosia in paese, specie fra le famiglie più benestanti ed altolocate, fra le quali predominava in genere una diffusa e crassa ignoranza; ebbe anche qualche problema nel "Ventennio" per il suo antifascismo di “importazione americana”.
La nonna Peppinella proveniva da una famiglia giunta in paese dal Salernitano, commercianti in legname attratti a Pietramelara dai boschi del Monte Maggiore; era una donna di grande senso pratico, autoritaria e dolcissima allo stesso tempo. Impartiva ordini con il piglio di un sergente prussiano e, appena dopo, era capace di trascorrere accanto a te ore e ore per narrare antichi “cunti”, appresi quanto anche ella era bambina. Il suo pragmatismo la rendevano speculare e complementare rispetto alla figura del coniuge.
Questa breve nota storica sulle mie origini cade in un giorno dedicato ai nonni ed alla loro memoria, quando essi continuano ad esistere solo nel nostro ricordo; il contributo offerto, in termini di idee e di sacrificio affinché noi fossimo diventati, nel bene e nel male, quelli che siamo, è straordinario, e ritengo sia nostro dovere un sentimento di imperitura gratitudine nei loro confronti.
venerdì 21 settembre 2012
UN MOSAICO MERAVIGLIOSO
Eh si, è proprio vero, miei cari “quattro lettori”, ultimamente vi ho lasciato soli, vi ho fatto mancare i “miei scritti”.
Ovviamente scherzavo, e l’autoironia serve anche perché così mi scuso un poco con voi per il fatto che, ultimamente, sto “vivendo di rendita” e cerco di mantenere viva l’attenzione su “Scribacchiando per me” ripostando vecchi pezzi.
Vedete, carissimi, i vostri feedback mi raggiungono in continuazione e sono, per lo più fortemente positivi; a volte tale positività si abbassa e, in qualche caso, al posto del gradimento espresso trovo l’insulto ma…poco male! Chi scrive o scribacchia, come il sottoscritto, sottoponendo ai media il prodotto della propria penna e del proprio pensiero, deve mettere in conto anche questo; e poi ritengo che vi sia una certa positività anche nell’insulto: se non altro, quello che hai scritto è stato letto da qualcuno.
La filosofia del “pensiero debole”, che professo da sempre, nell’infanzia ed adolescenza inconsapevolmente ed, adesso, con piena cognizione di causa, mi ha insegnato che bisogna anche saper passar sopra alle critiche, alle calunnie ed agli insulti; l’importante è avere la coscienza a posto.
Ma, veniamo al dunque: l’estate è trascorsa, le vacanze ci hanno ritemprato, abbiamo sofferto il caldo e l’afa e, appena dopo, è ricominciata la vita di sempre, quella che amiamo, fatta di sveglia presto al mattino, viaggio in treno, in compagnia di amici che ogni giorno diventano più cari, ufficio con mille incombenze e responsabilità, ma senza il quale non ti sentiresti mai lo stesso, e poi ogni giorno incontrare persone nuove, a volte meravigliose, in grado di colpirti, a volte un po’ meno; il mio mestiere è bello anche per questo.
Poi il ritorno a casa, gli affetti, la famiglia e, se c’è tempo, puoi dedicarti ai passatempo preferiti: la campagna, la bicicletta, la moto (quando funziona). E’ la mia vita, fatta di cose piccole e preziose, tessere di un mosaico meraviglioso (per me) che da cinquantatre anni continuo a comporre. Ignoro, come tutti, il momento in cui questa “opera d’arte” sarà completa e dovrò renderne conto a Qualcuno ma… la serenità non mi manca.
Ovviamente scherzavo, e l’autoironia serve anche perché così mi scuso un poco con voi per il fatto che, ultimamente, sto “vivendo di rendita” e cerco di mantenere viva l’attenzione su “Scribacchiando per me” ripostando vecchi pezzi.
Vedete, carissimi, i vostri feedback mi raggiungono in continuazione e sono, per lo più fortemente positivi; a volte tale positività si abbassa e, in qualche caso, al posto del gradimento espresso trovo l’insulto ma…poco male! Chi scrive o scribacchia, come il sottoscritto, sottoponendo ai media il prodotto della propria penna e del proprio pensiero, deve mettere in conto anche questo; e poi ritengo che vi sia una certa positività anche nell’insulto: se non altro, quello che hai scritto è stato letto da qualcuno.
La filosofia del “pensiero debole”, che professo da sempre, nell’infanzia ed adolescenza inconsapevolmente ed, adesso, con piena cognizione di causa, mi ha insegnato che bisogna anche saper passar sopra alle critiche, alle calunnie ed agli insulti; l’importante è avere la coscienza a posto.
Ma, veniamo al dunque: l’estate è trascorsa, le vacanze ci hanno ritemprato, abbiamo sofferto il caldo e l’afa e, appena dopo, è ricominciata la vita di sempre, quella che amiamo, fatta di sveglia presto al mattino, viaggio in treno, in compagnia di amici che ogni giorno diventano più cari, ufficio con mille incombenze e responsabilità, ma senza il quale non ti sentiresti mai lo stesso, e poi ogni giorno incontrare persone nuove, a volte meravigliose, in grado di colpirti, a volte un po’ meno; il mio mestiere è bello anche per questo.
Poi il ritorno a casa, gli affetti, la famiglia e, se c’è tempo, puoi dedicarti ai passatempo preferiti: la campagna, la bicicletta, la moto (quando funziona). E’ la mia vita, fatta di cose piccole e preziose, tessere di un mosaico meraviglioso (per me) che da cinquantatre anni continuo a comporre. Ignoro, come tutti, il momento in cui questa “opera d’arte” sarà completa e dovrò renderne conto a Qualcuno ma… la serenità non mi manca.
giovedì 6 settembre 2012
PENSIERI DA BLOGGER (DI PAESE)
…eppure vorrei proprio sapere chi è. Chi mi ha letto l’altro ieri dalla Cina, chi sono i tre che assiduamente mi leggono dalla Federazione Russa, per quale strano gioco del caso o del destino si sono imbattuti nei miei scritti due o tre lettori del Vietnam? Li vorrei conoscere di persona, parlare con loro, delle loro cose e del loro modo di vedere la realtà. Vorrei compiacermi insieme a loro di quanto piccolo sia diventato il mondo, grazie ad uno strumento meraviglioso quale la “rete”. Sono tanto lontani ma sembra di sentirli dalla stanza affianco, se sto zitto per un momento mi pare addirittura di percepire il loro respiro e di rendermi conto delle loro emozioni.
Roba moderna, il web, tanto lontana dalle pietramelaresità nelle quali mi piace intrattenervi, miei cari quattro lettori. Scusatemi la nostalgia (e la presunzione), ma penso proprio che questo sconosciuto blogger di paese, ammalato di passato prossimo, dobbiate consideralo come una risorsa da difendere e valorizzare. Cosa volete importi a chi vive tra i grattacieli di Singapore dei “Ciucci turrunari”, del mio dialetto, duro ma musicale, degli usi, oggi apparentemente bizzarri, ma un tempo dettati da stretta necessità? Per loro il mio “borgo natio” è solo un microscopico punto sulla carta geografica di un paese misconosciuto chiamato Italia…ed intanto, eccoli lì i miei lettori lontanissimi decine di migliaia di chilometri, ma allo stesso tempo “inquilini della porta accanto”.
Non mi meravigliano affatto le centinaia di accessi dagli USA, dalla Svizzera e altri paesi in cui la presenza italiana e specialmente meridionale è ormai un dato consolidato nei decenni e, a volte, nei secoli. Ma sono questi accessi “esotici” a generare in me un’ansia di conoscere e di sapere assolutamente fuori dal comune. Come avranno fatto le loro remote entità ad intrufolarsi nei microchip del mio PC? A volte, lo confesso, mi sono sentito anche spiato quando ho visto che qualcuno addirittura dall’IRAN mi aveva letto ma, tant’è: abituiamoci a queste modernità tenendo sempre ben presente, però, chi siamo, chi siamo stati e da dove veniamo; è questa l’unica sicura bussola in un cammino tanto aspro ed accidentato come quello che stiamo percorrendo!
Roba moderna, il web, tanto lontana dalle pietramelaresità nelle quali mi piace intrattenervi, miei cari quattro lettori. Scusatemi la nostalgia (e la presunzione), ma penso proprio che questo sconosciuto blogger di paese, ammalato di passato prossimo, dobbiate consideralo come una risorsa da difendere e valorizzare. Cosa volete importi a chi vive tra i grattacieli di Singapore dei “Ciucci turrunari”, del mio dialetto, duro ma musicale, degli usi, oggi apparentemente bizzarri, ma un tempo dettati da stretta necessità? Per loro il mio “borgo natio” è solo un microscopico punto sulla carta geografica di un paese misconosciuto chiamato Italia…ed intanto, eccoli lì i miei lettori lontanissimi decine di migliaia di chilometri, ma allo stesso tempo “inquilini della porta accanto”.
Non mi meravigliano affatto le centinaia di accessi dagli USA, dalla Svizzera e altri paesi in cui la presenza italiana e specialmente meridionale è ormai un dato consolidato nei decenni e, a volte, nei secoli. Ma sono questi accessi “esotici” a generare in me un’ansia di conoscere e di sapere assolutamente fuori dal comune. Come avranno fatto le loro remote entità ad intrufolarsi nei microchip del mio PC? A volte, lo confesso, mi sono sentito anche spiato quando ho visto che qualcuno addirittura dall’IRAN mi aveva letto ma, tant’è: abituiamoci a queste modernità tenendo sempre ben presente, però, chi siamo, chi siamo stati e da dove veniamo; è questa l’unica sicura bussola in un cammino tanto aspro ed accidentato come quello che stiamo percorrendo!
martedì 28 agosto 2012
...a primm’ acqua è viernu
“…e roppu San Roccu, a primm’ acqua è viernu”, (dopo la metà di agosto la prima pioggia segna l’inizio dell’inverno, ndr) un adagio fin troppo noto qui da noi, un modo come un altro di predisporre l’animo ai giorni che stanno per venire.
Ai tempi in cui la società era quasi solo rurale, fine agosto e inizio settembre significavano soprattutto metter mano agli attrezzi, predisporre la vendemmia, preparare i campi alla semina dei cereali, raccogliere il “raurignu” (granturco, ndr), fare una provvista di legna da ardere.
E oggi?... qual’ è il portato di questi ultimi giorni di agosto, con le vacanze ancora fresche nella memoria?
La società è cambiata, e continua a cambiare: pochi di noi hanno da fare in campagna, ma comunque questo periodo sembra sempre l’inizio di qualcosa di nuovo, un caposaldo da cui partire per cominciare un nuovo ciclo.
Certo, la giornata sempre più corta intristisce l’animo, tuttavia l’impressione di qualcosa di nuovo che stia per cominciare è sempre viva; del caldo non se ne può più e le giornate terse ed assolate di settembre, con il cielo azzurro intenso e la brezza che si respira dopo che è piovuto, sono un dono che ognuno di noi si aspetta.
…A primm’acqua è viernu: un monito che incombe quanto una minaccia; ma la pioggia continua a farsi desiderare, e l’afa la fa ancora da padrona. I meteorologi televisivi, moderni sciamani mediatici, avevano annunciato la “burrasca di fine agosto” come in genere si fa per le star dello spettacolo, o come una sorta di supereroe in grado di liberare il pianeta da una calamità incombente, ma le previsioni, almeno dalle nostre parti, si sono rivelate infondate.
Ansia, speranza, positività dell’attesa, sensazioni dell’animo che contrastano in noi stessi sono la costante del momento: anche se ci rifacciamo alla storia recente, settembre è un mese che in genere connota sempre qualcosa di nuovo, rispetto ai giorni di inizio estate, anche se, in più di un caso, le novità si sono rivelate tutt’altro che positive.
Ai tempi in cui la società era quasi solo rurale, fine agosto e inizio settembre significavano soprattutto metter mano agli attrezzi, predisporre la vendemmia, preparare i campi alla semina dei cereali, raccogliere il “raurignu” (granturco, ndr), fare una provvista di legna da ardere.
E oggi?... qual’ è il portato di questi ultimi giorni di agosto, con le vacanze ancora fresche nella memoria?
La società è cambiata, e continua a cambiare: pochi di noi hanno da fare in campagna, ma comunque questo periodo sembra sempre l’inizio di qualcosa di nuovo, un caposaldo da cui partire per cominciare un nuovo ciclo.
Certo, la giornata sempre più corta intristisce l’animo, tuttavia l’impressione di qualcosa di nuovo che stia per cominciare è sempre viva; del caldo non se ne può più e le giornate terse ed assolate di settembre, con il cielo azzurro intenso e la brezza che si respira dopo che è piovuto, sono un dono che ognuno di noi si aspetta.
…A primm’acqua è viernu: un monito che incombe quanto una minaccia; ma la pioggia continua a farsi desiderare, e l’afa la fa ancora da padrona. I meteorologi televisivi, moderni sciamani mediatici, avevano annunciato la “burrasca di fine agosto” come in genere si fa per le star dello spettacolo, o come una sorta di supereroe in grado di liberare il pianeta da una calamità incombente, ma le previsioni, almeno dalle nostre parti, si sono rivelate infondate.
Ansia, speranza, positività dell’attesa, sensazioni dell’animo che contrastano in noi stessi sono la costante del momento: anche se ci rifacciamo alla storia recente, settembre è un mese che in genere connota sempre qualcosa di nuovo, rispetto ai giorni di inizio estate, anche se, in più di un caso, le novità si sono rivelate tutt’altro che positive.
giovedì 16 agosto 2012
CIUCCI TURRUNARI
E’ uno stereotipo diffuso nel linguaggio delle nostre zone rurali: avete mai sentito qualcuno apostrofarvi con la seguente espressione: “Me pari ju ciucciu r’ju turrunaru” (per il tuo comportamento ti posso accostare al somaro del torronaio, ndr). Ma perché? …cosa aveva di tanto singolare il mansueto animale, da renderlo noto a generazioni e generazioni di pietramelaresi, affini e confinanti? La tradizione tramanda che il venditore di torrone/tipo girava con un carrettino tutte le feste, le sagre e le fiere di paese e, naturalmente, questo carrettino era trainato da un paziente somaro: in ogni occasione, piccola o grande, in cui era presente il torronaio non poteva assolutamente mancare il relativo ciuccio al seguito; da qui la taccia: accostare, perciò, qualcuno al nostro simpatico equino significava che costui era particolarmente avvezzo a frequentare ogni luogo in cui vi era occasione o notizia di festa e di a’mmuina . Oggi i torronai si sono, al pari di altre categorie di ambulanti, evoluti e dispongono di furgoni e banchi di esposizione a norma di legge, ma la memoria del nostro ciuccio resiste e persiste, e raramente un clichè tanto colorito è stato così aderente a determinate tipologie umane.
Di “ciucci turrunari” (umani) è pieno anche il mondo moderno, e in nessun ambiente lavorativo, familiare, sociale o politico mancano.
Li trovi presenti immancabilmente ad ogni evento, cena, banchetto, festa o raduno, non importa chi l’abbia organizzato, il partito o il sodalizio promotore.
Sono di carattere allegro e gioviale, ed anche di buona compagnia, ma raramente si tratta di persone sincere. Sono inclini a scrutare lo scenario ed il contesto e, a valutazioni fatte, si schierano sempre dalla parte del più forte, del vincente, nella considerazione che ciò arrecherà loro vantaggi immediati o futuri.
Fatte le opportune eccezioni, alla lunga la loro conoscenza non si rivela mai un’esperienza pienamente positiva.
Di “ciucci turrunari” (umani) è pieno anche il mondo moderno, e in nessun ambiente lavorativo, familiare, sociale o politico mancano.
Li trovi presenti immancabilmente ad ogni evento, cena, banchetto, festa o raduno, non importa chi l’abbia organizzato, il partito o il sodalizio promotore.
Sono di carattere allegro e gioviale, ed anche di buona compagnia, ma raramente si tratta di persone sincere. Sono inclini a scrutare lo scenario ed il contesto e, a valutazioni fatte, si schierano sempre dalla parte del più forte, del vincente, nella considerazione che ciò arrecherà loro vantaggi immediati o futuri.
Fatte le opportune eccezioni, alla lunga la loro conoscenza non si rivela mai un’esperienza pienamente positiva.
mercoledì 8 agosto 2012
Tipi da...villaggio
Per chi ha occhio buono ed allenato anche il girovagar per vacanze costituisce occasione di osservazione. E’ il caso di uno sconosciuto blogger di paese che ritrovatosi, grazie al gioco del caso, in uno dei tanti villaggi per turisti del meridione, ha posto l’occhio sulle molteplici categorie antropiche che vi ha riscontato.
Tra le tante tipologie umanoidi in cui ha potuto imbattersi, tre lo hanno colpito in modo particolare:l’esaurito “under 8”, il bulimico da vacanza, la bbona (o autopresunta tale).
L’esaurito “under 8” è un bambino perennemente sull’orlo di una crisi di nervi e, pertanto, perennemente frignante: le sue gravi nevrosi sono in genere acuite da un fratellino maggiore (stronzo) o da un genitore (altrettanto str…) che lo vessano. I decibel emessi con il pianto sottoombrellonale e/o intraristorantiale sono in funzione diretta della vessazione subita, stesso dicasi per la durata media del pianto. Le vessazioni se provengono dal fratello consistono in strappamento di giocattoli, calci negli stinchi mollati di nascosto o altre piacevolezze del genere, se provengono in linea paterna sono ancora peggiori, visto che l’età, soprattutto in alcuni soggetti, acuisce di molto la str...ggine, ed allora imposizione di foto in spiaggia in ora di punta, con sabbia rovente sotto i piedi e sole a picco; ritorno al villaggio a piedi quando il trenino/navetta è gratuito, efficiente e veloce, “perché si va in vacanza anche per fare esercizio fisico”,ed altro ancora.
In un villaggio turistico propagandato, poi, come specializzato nell’accogliere famiglie con bambini, si creano particolari sinergie fra nuclei familiari vicini di tavolo o di ombrellone, motivo per il quale alcune zone della spiaggia o del ristorante divengono praticabili sono grazie all’uso di tappi alle orecchie o cuffie protettive.
Il “bulimico da vacanza” , altra tipologia estremamente rappresentata, esprime il meglio di se alla colazione, momento favorevole al superamento del record mondiale di “divoramento di cornetti”, sembra che nel villaggio ospitante il nostro blogger, qualcuno sia arrivato a farne fuori una ventina in pochi minuti, abilmente variando tra quelli alla crema, i vuoti o i ripieni alla marmellata. Non è che il bulimico si riposi ad ora di pranzo…giammai! Lo vedi con piramidi di spaghetti ai frutti di mare, roba da far schiattare d’invidia Cheope e Micerino, o mattonelle di pasta al forno in grado di sostenere grandiose architetture; a cena, il nostro, per concludere degnamente la giornata, arriva a divorare anche tredici porzioni di dolce…tanto sono state pagate!
Tra le tre tipologie umanoidi più evidenti all’occhio del nostro blogger, infine, la più patetica è la “bbona” (o autopresunta tale): narcisa fino all’inverosimile, porta auree catene e catenelle dappertutto, al collo, in vita, alla caviglia. L’ora che preferisce è quella della cena, in cui può sfoggiare tutto il guardaroba al seguito: sembra che il capiente bagagliaio del SUV di famiglia, insieme al divano posteriore, siano stati dedicati per sua volontà alle innumerevoli valigie… il resto della famiglia ha raggiunto il villaggio in treno o in autostop. Non ama molto la spiaggia, la vive come un male necessario, soprattutto perché il bikini firmato non nasconde quella cellulite che non se ne vuole proprio andare, neanche con sei sedute settimanali di palestra (i soliti ben informati sostengono però che il tempo in palestra è impiegato soprattutto a trastullarsi negli spogliatoi con il trainer personale!!!).
Tra le tante tipologie umanoidi in cui ha potuto imbattersi, tre lo hanno colpito in modo particolare:l’esaurito “under 8”, il bulimico da vacanza, la bbona (o autopresunta tale).
L’esaurito “under 8” è un bambino perennemente sull’orlo di una crisi di nervi e, pertanto, perennemente frignante: le sue gravi nevrosi sono in genere acuite da un fratellino maggiore (stronzo) o da un genitore (altrettanto str…) che lo vessano. I decibel emessi con il pianto sottoombrellonale e/o intraristorantiale sono in funzione diretta della vessazione subita, stesso dicasi per la durata media del pianto. Le vessazioni se provengono dal fratello consistono in strappamento di giocattoli, calci negli stinchi mollati di nascosto o altre piacevolezze del genere, se provengono in linea paterna sono ancora peggiori, visto che l’età, soprattutto in alcuni soggetti, acuisce di molto la str...ggine, ed allora imposizione di foto in spiaggia in ora di punta, con sabbia rovente sotto i piedi e sole a picco; ritorno al villaggio a piedi quando il trenino/navetta è gratuito, efficiente e veloce, “perché si va in vacanza anche per fare esercizio fisico”,ed altro ancora.
In un villaggio turistico propagandato, poi, come specializzato nell’accogliere famiglie con bambini, si creano particolari sinergie fra nuclei familiari vicini di tavolo o di ombrellone, motivo per il quale alcune zone della spiaggia o del ristorante divengono praticabili sono grazie all’uso di tappi alle orecchie o cuffie protettive.
Il “bulimico da vacanza” , altra tipologia estremamente rappresentata, esprime il meglio di se alla colazione, momento favorevole al superamento del record mondiale di “divoramento di cornetti”, sembra che nel villaggio ospitante il nostro blogger, qualcuno sia arrivato a farne fuori una ventina in pochi minuti, abilmente variando tra quelli alla crema, i vuoti o i ripieni alla marmellata. Non è che il bulimico si riposi ad ora di pranzo…giammai! Lo vedi con piramidi di spaghetti ai frutti di mare, roba da far schiattare d’invidia Cheope e Micerino, o mattonelle di pasta al forno in grado di sostenere grandiose architetture; a cena, il nostro, per concludere degnamente la giornata, arriva a divorare anche tredici porzioni di dolce…tanto sono state pagate!
Tra le tre tipologie umanoidi più evidenti all’occhio del nostro blogger, infine, la più patetica è la “bbona” (o autopresunta tale): narcisa fino all’inverosimile, porta auree catene e catenelle dappertutto, al collo, in vita, alla caviglia. L’ora che preferisce è quella della cena, in cui può sfoggiare tutto il guardaroba al seguito: sembra che il capiente bagagliaio del SUV di famiglia, insieme al divano posteriore, siano stati dedicati per sua volontà alle innumerevoli valigie… il resto della famiglia ha raggiunto il villaggio in treno o in autostop. Non ama molto la spiaggia, la vive come un male necessario, soprattutto perché il bikini firmato non nasconde quella cellulite che non se ne vuole proprio andare, neanche con sei sedute settimanali di palestra (i soliti ben informati sostengono però che il tempo in palestra è impiegato soprattutto a trastullarsi negli spogliatoi con il trainer personale!!!).
sabato 28 luglio 2012
PARTO!
Finalmente il tempo del riposo è giunto: si parte!... una vacanza breve, secondo lo stile montiano/minimalista, tanto caro al nostro beneamato premier, ma, ne sono sicuro, una vacanza ritemprante e rigenerante.
Parto! …cosa porto in valigia? Non saprei: forse costumi di varia foggia, calzini, mutande, camicie e pantaloni?... però so di certo ciò che non troverà posto nella mia valigia. Non porterò con me l’affanno tipico dei giorni dell’ufficio, magari in prossimità di qualche scadenza; non porterò l’alea della vita del pendolare ferroviario che conosce di sicuro l’ora della partenza, ma ignora nel modo più assoluto quella del rincasare; avrò cura di liberarmi delle piccole gelosie e delle chiacchiere del corridoio; farò in modo di dimenticare da qualche parte l’ignoranza di certa gente; riporrò in un angolo remoto l’amarezza per non essere stato capito e/o apprezzato da qualcuno.
Mi saranno compagni i miei libri, da divorare sul bagnasciuga, magari accarezzato dalla brezza; le “mie donne” saranno l’ideale cornice per una vacanza in cerca di me stesso e degli affetti più prossimi, se non altro per il maggiore lasso di tempo da passare insieme. Camminerò tanto, da solo, fra la moltitudine dei bagnati di agosto, lettore mp3 in tasca e cuffiette perennemente alle orecchie.
La mia quasi perpetua dieta, peraltro con risultati evidentemente scarsi, subirà una temporanea interruzione: in vacanza si è per vacanzare!
Parto! …cosa porto in valigia? Non saprei: forse costumi di varia foggia, calzini, mutande, camicie e pantaloni?... però so di certo ciò che non troverà posto nella mia valigia. Non porterò con me l’affanno tipico dei giorni dell’ufficio, magari in prossimità di qualche scadenza; non porterò l’alea della vita del pendolare ferroviario che conosce di sicuro l’ora della partenza, ma ignora nel modo più assoluto quella del rincasare; avrò cura di liberarmi delle piccole gelosie e delle chiacchiere del corridoio; farò in modo di dimenticare da qualche parte l’ignoranza di certa gente; riporrò in un angolo remoto l’amarezza per non essere stato capito e/o apprezzato da qualcuno.
Mi saranno compagni i miei libri, da divorare sul bagnasciuga, magari accarezzato dalla brezza; le “mie donne” saranno l’ideale cornice per una vacanza in cerca di me stesso e degli affetti più prossimi, se non altro per il maggiore lasso di tempo da passare insieme. Camminerò tanto, da solo, fra la moltitudine dei bagnati di agosto, lettore mp3 in tasca e cuffiette perennemente alle orecchie.
La mia quasi perpetua dieta, peraltro con risultati evidentemente scarsi, subirà una temporanea interruzione: in vacanza si è per vacanzare!
venerdì 20 luglio 2012
Un diritto fondamentale
Educazione, fede religiosa, formazione scolastica ci hanno imposto un sistema di regole non scritte ma rigide nella loro applicazione: responsabilità nel lavoro, attaccamento alla famiglia, legami profondi con le radici ed il luogo di nascita, rispetto delle tradizioni.
Fuori da ogni dubbio, le conseguenze che ne sono derivate sono state positive sotto più di un punto di vista: l’istaurarsi un sistema di relazioni sociali equilibrate e durature hanno accompagnato il cammino della nostra civiltà occidentale, dapprima rurale, quindi industriale ed infine, postindustriale e/o postmoderna.
In uno scenario di questo tipo, si è salvato chi ha saputo mantenere entro se stesso un equilibrio fra ciò che doveva, perché imposto dalle regole, e ciò che voleva, perché suggerito dall’istinto; per coloro ai quali, invece, la cosa non è riuscita le conseguenze sono state e sono serie: la nevrosi, patologia sempre più diffusa e presente nell’uomo moderno è il frutto, il portato proprio di questa intima mancanza di equilibrio. Nei casi più gravi subentra l’alienazione totale dal mondo, determinando quella vasta fascia di emarginazione sociale presente soprattutto nelle realtà metropolitane più importanti.
La filosofia “del pensiero debole”, cioè il modo di pensare tipico delle persone semplici e serene, ha rappresentato per molti il paracadute, la rete tesa tra il trapezista ed il suolo, ma…è quella la sola strada per salvarsi? A ragion veduta, e per l’esperienza di vita che mi son potuto fare, non penso che esistano serie e credibili alternative al compromesso che si stabilisce con se stessi; tuttavia, due cose sono da tener ben presenti: primo, ogni uomo detiene il fondamentale “diritto a vivere”, e secondo, la consapevolezza di tale diritto a volte induce anche a percorrere strade alternative a quella delle regole.
L’interpretazione della vita in chiave “positivistica”, cioè quella che concede poco o nulla alle regole, anche se può dare soddisfazione, richiede un coraggio particolare: quello di infrangere gli schemi ed intraprendere un percorso proprio,
fatto di assoluta libertà.
Quante persone al giorno d’oggi possono dire di aver avuto tale coraggio, anche solo per un breve periodo della vita?
Fuori da ogni dubbio, le conseguenze che ne sono derivate sono state positive sotto più di un punto di vista: l’istaurarsi un sistema di relazioni sociali equilibrate e durature hanno accompagnato il cammino della nostra civiltà occidentale, dapprima rurale, quindi industriale ed infine, postindustriale e/o postmoderna.
In uno scenario di questo tipo, si è salvato chi ha saputo mantenere entro se stesso un equilibrio fra ciò che doveva, perché imposto dalle regole, e ciò che voleva, perché suggerito dall’istinto; per coloro ai quali, invece, la cosa non è riuscita le conseguenze sono state e sono serie: la nevrosi, patologia sempre più diffusa e presente nell’uomo moderno è il frutto, il portato proprio di questa intima mancanza di equilibrio. Nei casi più gravi subentra l’alienazione totale dal mondo, determinando quella vasta fascia di emarginazione sociale presente soprattutto nelle realtà metropolitane più importanti.
La filosofia “del pensiero debole”, cioè il modo di pensare tipico delle persone semplici e serene, ha rappresentato per molti il paracadute, la rete tesa tra il trapezista ed il suolo, ma…è quella la sola strada per salvarsi? A ragion veduta, e per l’esperienza di vita che mi son potuto fare, non penso che esistano serie e credibili alternative al compromesso che si stabilisce con se stessi; tuttavia, due cose sono da tener ben presenti: primo, ogni uomo detiene il fondamentale “diritto a vivere”, e secondo, la consapevolezza di tale diritto a volte induce anche a percorrere strade alternative a quella delle regole.
L’interpretazione della vita in chiave “positivistica”, cioè quella che concede poco o nulla alle regole, anche se può dare soddisfazione, richiede un coraggio particolare: quello di infrangere gli schemi ed intraprendere un percorso proprio,
fatto di assoluta libertà.
Quante persone al giorno d’oggi possono dire di aver avuto tale coraggio, anche solo per un breve periodo della vita?
lunedì 9 luglio 2012
UN GIORNO CREDI
Metti che una domenica ti trovi a passare per puro caso per un centro commerciale nel cui androne si esibisce una cover di Eduardo Bennato, le cui qualità canore e musicali sono più che accettabili; e metti che un po’ la curiosità, un po’ la nostalgia ti spingono a fermarti, a prendere una sedia ed inforcarla a cavalcioni, e così, quasi per puro caso, comincia lo spettacolo e l’ascolto: mano mano che la scaletta va avanti ti ritornano alla mente tante immagini e tanti suoni di una gioventù neanche troppo lontana, secondo le sensazioni, ma cronologicamente remota. I giorni vissuti fra il finire degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 riemergono con forza e nitidezza, accompagnati da quelle note dure e metalliche.
E dopo “La torre di babele”, “Mangiafuoco”, “Rinnegato”, ecco che iniziano le note di una canzone che hai imparato da ragazzo, verso per verso, strofa per strofa, e che tante volte hai canticchiato insieme ad amici: il grande rockman di Bagnoli, idolo di almeno due generazioni di giovani ed adolescenti, quando scrisse, nel ’73, insieme a Patrizio Trampetti, “Un giorno credi”, forse non immaginava di dare vita ad un autentico capolavoro di poesia e di musica.
E’ una canzone immediata, estremamente percettibile, lontana dagli ermetismi a cui ci eravamo abituati in quegli anni; parla di cose familiari: alterne fortune (un giorno credi di esser giusto e di essere un grande uomo, in un altro ti svegli e devi cominciare da zero), solitudine (situazioni che stancamente si ripetono senza tempo, una musica per pochi amici come tre anni fa), ma contiene anche e soprattutto un fortissimo messaggio di riscatto: “Quando ti alzi e ti senti distrutto, datti forza e va incontro al tuo giorno…”, indirizzato a tanti sconfitti dalla vita, dal destino, a volte da se stessi.
“Un giorno credi”, mi piacque immediatamente, dalla prima volta che l’ascoltai, per la rabbia che esprimeva, ma soprattutto per la positività del testo e per quell’impareggiabile assolo di tromba fra la penultima e l’ultima strofa.
E dopo “La torre di babele”, “Mangiafuoco”, “Rinnegato”, ecco che iniziano le note di una canzone che hai imparato da ragazzo, verso per verso, strofa per strofa, e che tante volte hai canticchiato insieme ad amici: il grande rockman di Bagnoli, idolo di almeno due generazioni di giovani ed adolescenti, quando scrisse, nel ’73, insieme a Patrizio Trampetti, “Un giorno credi”, forse non immaginava di dare vita ad un autentico capolavoro di poesia e di musica.
E’ una canzone immediata, estremamente percettibile, lontana dagli ermetismi a cui ci eravamo abituati in quegli anni; parla di cose familiari: alterne fortune (un giorno credi di esser giusto e di essere un grande uomo, in un altro ti svegli e devi cominciare da zero), solitudine (situazioni che stancamente si ripetono senza tempo, una musica per pochi amici come tre anni fa), ma contiene anche e soprattutto un fortissimo messaggio di riscatto: “Quando ti alzi e ti senti distrutto, datti forza e va incontro al tuo giorno…”, indirizzato a tanti sconfitti dalla vita, dal destino, a volte da se stessi.
“Un giorno credi”, mi piacque immediatamente, dalla prima volta che l’ascoltai, per la rabbia che esprimeva, ma soprattutto per la positività del testo e per quell’impareggiabile assolo di tromba fra la penultima e l’ultima strofa.
lunedì 2 luglio 2012
POMERIGGI D'ESTATE ('A CALANDRELLA)
E’ una delle cose della mia infanzia che ricordo con più fastidio: d’estate il dover andare a dormire dopo pranzo. Una vera tortura, ma alla fine le mie rimostranze furono ascoltate e arrivò la sospirata “dispensa”: mi fu permesso di trascorrere il pomeriggio senza “siesta”. Ma i problemi, purtroppo, non erano finiti: rimaneva quello di impiegare quell’ora, ora e mezza. Le condizioni non erano delle migliori: i pomeriggi di luglio e agosto dalle nostre parti sono torridi e, anche volendo uscire non si incontrava per strada che qualche cane randagio in cerca di ombra.
Sento ancora risuonare la domanda ricorrente e stupita di mia madre: “…ma dove vai, cu ‘sta calandrella?” … ma, di cosa si trattava? … è ancora fortemente presente nella memoria, è il fenomeno ottico che nel nostro dialetto chiamiamo ancora “calandrella”; ho fatto ricerche sul web, ma sono risultate infruttuose, e sono giunto alla conclusione che non esista un nome scientifico attribuibile ad esso. La cosa funziona più o meno così: sopra una qualsiasi fonte di calore, come l’asfalto o il suolo roventi, l' aria si scalda e comincia a salire verso l'alto, rimpiazzata da quella fredda che entra dal basso, e questo moto convettivo reso invisibile dal fatto che l'aria é trasparente diventa visibile quando si guarda un'immagine attraverso lo strato caldo.
I raggi luminosi vengono distorti seguendo la diversa densità dello strato e l'immagine risulta tremolante.
Ed erano proprio queste figure tremule ad eccitare di più la mia fantasia: auto che, mentre percorrevano la strada, sembravano quasi dissolversi, intere pareti di palazzi compromesse nella loro stabilità, quasi interessate da un terremoto, figure umane danzanti senza musica. Nell’ingenuità di un bambino cercavo di rincorrerle ed avvicinarmi di più a loro, ma esse alla stregua di un miraggio, si allontanavano sempre di più fino a sparire.
In uno dei “voli pindarici” della mia mente ‘a calandrella, oggi, dopo anni, mi appare come uno dei fattori che maggiormente hanno compromesso lo sviluppo economico del Mezzogiorno d’Italia: per forza! …nelle ore più calde del pomeriggio da noi si determina quasi un’impossibilità materiale di lavorare.
Stanco di vagare in bicicletta rincasavo, e mi attendeva qualche lettura o un disco da ascoltare, la TV cominciava le trasmissioni solo nel tardo pomeriggio ed allora non rimaneva altro che aspettare che il pomeriggio terminasse, l’aria divenisse un po’ più fresca e, con il risveglio della famiglia, riprendessero le consuete attività.
Sento ancora risuonare la domanda ricorrente e stupita di mia madre: “…ma dove vai, cu ‘sta calandrella?” … ma, di cosa si trattava? … è ancora fortemente presente nella memoria, è il fenomeno ottico che nel nostro dialetto chiamiamo ancora “calandrella”; ho fatto ricerche sul web, ma sono risultate infruttuose, e sono giunto alla conclusione che non esista un nome scientifico attribuibile ad esso. La cosa funziona più o meno così: sopra una qualsiasi fonte di calore, come l’asfalto o il suolo roventi, l' aria si scalda e comincia a salire verso l'alto, rimpiazzata da quella fredda che entra dal basso, e questo moto convettivo reso invisibile dal fatto che l'aria é trasparente diventa visibile quando si guarda un'immagine attraverso lo strato caldo.
I raggi luminosi vengono distorti seguendo la diversa densità dello strato e l'immagine risulta tremolante.
Ed erano proprio queste figure tremule ad eccitare di più la mia fantasia: auto che, mentre percorrevano la strada, sembravano quasi dissolversi, intere pareti di palazzi compromesse nella loro stabilità, quasi interessate da un terremoto, figure umane danzanti senza musica. Nell’ingenuità di un bambino cercavo di rincorrerle ed avvicinarmi di più a loro, ma esse alla stregua di un miraggio, si allontanavano sempre di più fino a sparire.
In uno dei “voli pindarici” della mia mente ‘a calandrella, oggi, dopo anni, mi appare come uno dei fattori che maggiormente hanno compromesso lo sviluppo economico del Mezzogiorno d’Italia: per forza! …nelle ore più calde del pomeriggio da noi si determina quasi un’impossibilità materiale di lavorare.
Stanco di vagare in bicicletta rincasavo, e mi attendeva qualche lettura o un disco da ascoltare, la TV cominciava le trasmissioni solo nel tardo pomeriggio ed allora non rimaneva altro che aspettare che il pomeriggio terminasse, l’aria divenisse un po’ più fresca e, con il risveglio della famiglia, riprendessero le consuete attività.
martedì 26 giugno 2012
CORREGGETE IL TIRO
Smorzati anche gli ultimi echi della campagna elettorale, le elezioni sono passate già da più di un mese e mezzo, è possibile un’analisi della situazione generale del nostro piccolo paese? Certo! … e di sicuro ne guadagnerà la serenità dell’analisi, anche perché più nessuno è alla ricerca di voti.
La complessità del quadro è elevata, pertanto non si può fare a meno di scegliere, fra i tanti, due o tre indicatori, giudicati più importanti, su cui fondare l’esame della situazione: lo stato dell’ambiente, l’economia locale e la coesione sociale.
Pietramelara non è immune problemi ambientali: scarso controllo del territorio, diffusa mancanza di senso civico, disattenzione delle istituzioni hanno “cancrenizzato” i problemi dell’abusivismo più o meno legalizzato, dell’inquinamento delle falde superficiali e sotterranee, della raccolta dei rifiuti, differenziata solo sulla carta. Le responsabilità sono talmente evidenti che il gioco della ricerca del colpevole appare quasi infantile! I frutti di tale stato di degrado si concretizzano in imbruttimento di un paesaggio caratterizzato da singolare armonia, aumento a dismisura delle patologie tumorali, ed il disagio della cittadinanza che vede il proprio impegno a differenziare, più e più volte deluso da raccolte “omnibus” per ogni tipo di rifiuto urbano.
L’economia versa in uno stato di prostrazione profondo, accentuato da una crisi planetaria e generalizzata. La moria di attività economiche è giornaliera e, soprattutto nel centro storico, ha prodotto l’aspetto urbano di una città fantasma: quasi tutte le saracinesche sono costantemente abbassate e le poche attività che sopravvivono lo fanno a costo di enormi sacrifici o per mancanza di alternative occupazionali. Il carico fiscale è opprimente; si avverte, inoltre, la mancanza del cosiddetto “marketing territoriale”, che eserciti funzione di richiamo nei confronti di eventuali turisti. E’ vero: ogni tanto si celebra qualche cerimonia a carattere sovracomunale, che qualcuno si ostina ancora a chiamare “Grandi Eventi”, ma, passata la giornata, tutto torna a tacere come sempre.
La coesione sociale, terzo ma non ultimo indicatore da esaminare, è anch’essa ai minimi storici. In una comunità caratterizzata da senso dell’ospitalità e proverbialmente incline alle relazioni umane e familiari, ci si richiude sempre più in se stessi. La piazza ha da tempo perso la funzione secolare di “agorà”: chi vi si reca allo scopo di scambiare quattro chiacchiere, memore di tradizioni vissute sin da ragazzo, è destinato a rimanere deluso il più delle volte. Anche le iniziative destinate alla gioventù, per quanto meritorie, non riescono a conseguire che benefici momentanei.
E’ questo il frutto, il portato dell’azione delle ultime tre/quattro amministrazioni comunali, che hanno concentrato il proprio operato quasi esclusivamente sulle opere pubbliche, ignorando il fabbisogno di servizi che la popolazione rivendica a volte a gran voce.
Scusate, miei cari “quattro lettori”, lo sfogo di chi si definisce dichiaratamente ed onestamente “di parte”, ma non credo, tuttavia, che bisogni essere “di parte” per notare quanti e quali problemi affliggano la nostra comunità, alla quale comunque mi onoro di appartenere.
Un appello, infine, a chi a visto rinnovarsi, da parte dell’elettorato, il mandato ad amministrare: siete ancora in tempo… correggete il tiro!
La complessità del quadro è elevata, pertanto non si può fare a meno di scegliere, fra i tanti, due o tre indicatori, giudicati più importanti, su cui fondare l’esame della situazione: lo stato dell’ambiente, l’economia locale e la coesione sociale.
Pietramelara non è immune problemi ambientali: scarso controllo del territorio, diffusa mancanza di senso civico, disattenzione delle istituzioni hanno “cancrenizzato” i problemi dell’abusivismo più o meno legalizzato, dell’inquinamento delle falde superficiali e sotterranee, della raccolta dei rifiuti, differenziata solo sulla carta. Le responsabilità sono talmente evidenti che il gioco della ricerca del colpevole appare quasi infantile! I frutti di tale stato di degrado si concretizzano in imbruttimento di un paesaggio caratterizzato da singolare armonia, aumento a dismisura delle patologie tumorali, ed il disagio della cittadinanza che vede il proprio impegno a differenziare, più e più volte deluso da raccolte “omnibus” per ogni tipo di rifiuto urbano.
L’economia versa in uno stato di prostrazione profondo, accentuato da una crisi planetaria e generalizzata. La moria di attività economiche è giornaliera e, soprattutto nel centro storico, ha prodotto l’aspetto urbano di una città fantasma: quasi tutte le saracinesche sono costantemente abbassate e le poche attività che sopravvivono lo fanno a costo di enormi sacrifici o per mancanza di alternative occupazionali. Il carico fiscale è opprimente; si avverte, inoltre, la mancanza del cosiddetto “marketing territoriale”, che eserciti funzione di richiamo nei confronti di eventuali turisti. E’ vero: ogni tanto si celebra qualche cerimonia a carattere sovracomunale, che qualcuno si ostina ancora a chiamare “Grandi Eventi”, ma, passata la giornata, tutto torna a tacere come sempre.
La coesione sociale, terzo ma non ultimo indicatore da esaminare, è anch’essa ai minimi storici. In una comunità caratterizzata da senso dell’ospitalità e proverbialmente incline alle relazioni umane e familiari, ci si richiude sempre più in se stessi. La piazza ha da tempo perso la funzione secolare di “agorà”: chi vi si reca allo scopo di scambiare quattro chiacchiere, memore di tradizioni vissute sin da ragazzo, è destinato a rimanere deluso il più delle volte. Anche le iniziative destinate alla gioventù, per quanto meritorie, non riescono a conseguire che benefici momentanei.
E’ questo il frutto, il portato dell’azione delle ultime tre/quattro amministrazioni comunali, che hanno concentrato il proprio operato quasi esclusivamente sulle opere pubbliche, ignorando il fabbisogno di servizi che la popolazione rivendica a volte a gran voce.
Scusate, miei cari “quattro lettori”, lo sfogo di chi si definisce dichiaratamente ed onestamente “di parte”, ma non credo, tuttavia, che bisogni essere “di parte” per notare quanti e quali problemi affliggano la nostra comunità, alla quale comunque mi onoro di appartenere.
Un appello, infine, a chi a visto rinnovarsi, da parte dell’elettorato, il mandato ad amministrare: siete ancora in tempo… correggete il tiro!
sabato 16 giugno 2012
RIFLESSIONE SEMISERIA II
Mi ha fatto visita stamattina un amico diverso dai soliti! Ero intento nei lavori di campagna che, di consueto, riservo per il sabato. Solo, come si può essere soli in una delle nostre terre: i rumori che ti giungono da lontano sono prodotti dai motori dei trattori, dalle bestie al pascolo, da rabbiose imprecazioni attutite dalla distanza, e che percepisci come tali solo per il tono.
Immerso nei miei pensieri, la mia attenzione è stata destata all’improvviso da uno sfrascare tra i viluppi di una siepe a qualche metro: temendo un serpente mi avvicino guardingo, ma mi si para davanti un fagiano maschio per nulla intimorito di me: “salve, amico mio” mi saluta quasi con aria di sfida, ma l’empatia che si stabilisce è immediata. “Salve” rispondo.
E lui: “Sono stato portato qui circa un mese fa, a bordo di un furgone, racchiuso in una gabbia di legno, sono nato e sono stato allevato in un centro di riproduzione selvaggina, a pochi chilometri, conosco bene il genere umano perciò mi sono avvicinato a te senza alcun timore. Appena liberato ho cominciato a svolazzare qua e la... ma sai che questo è proprio un bel posto? Dove stavo prima, gli uomini mi portavano da mangiare e da bere. Avevo una compagna della mia stessa specie, è stata scaricata insieme a me da un’altra gabbia, siamo rimasti insieme uno o due settimane, ma l’altro ieri qualcuno me l’ha portata via”.
“Ecco…” ho replicato “vedi, carissimo, al genere umano a cui tu sei tanto affezionato e grato per averti allevato e sfamato, appartiene probabilmente anche chi ti ha privato della compagna, adesso ti aggiri solo tra gli ulivi, ma stai attento, diffida dagli uomini perché potrebbero avere intenzioni poco rassicuranti anche nei tuoi confronti”.
“Suvvia” ha ripreso “per quanto non sappia, per mia natura, volare molto alto, conosco bene le opere dell’uomo…prendi ad esempio questa campagna che ci circonda: fossi, alberature, siepi, vigne, masserie, e tante altre cose belle e buone prodotte dalla mente e dalle braccia umane. Sono sicuro che chi, nel corso di secoli, è stato capace di realizzare tanto non può essere cattivo per sua natura”.
Questo dialogo che ormai aveva preso corpo tra me, che mi spostavo fra i filari di ulivo, e lui che mi seguiva come un fido cagnolino, si è concluso quando gli ho fatto notare: “Aver perso la compagna di una vita avrebbe trascinato nella disperazione, almeno per qualche giorno, un appartenente al genere umano, mentre tu mi hai raccontato la cosa come la più normale. Questa la differenza fra animali ed uomini, salvo poi tornare, appena il dolore è lenito, a compiere azioni che neppure il più feroce dei lupi o la più scaltra fra le volpi saprebbe ideare”.
Un battito di ali vigoroso, vero spettacolo della natura, il suo saluto di commiato, ed in pochi secondi era già lontano centinaia di metri da me.
venerdì 1 giugno 2012
Ha uno strano alone stasera la Luna!
Ha uno strano alone stasera la Luna! La luce che emana è una luce malinconica; malinconica quanto la stagione che stiamo attraversando, costellata quasi ogni giorno da pioggerelline londinesi.
In campagna è tutto un lussureggiare di erbe, ma i frutti, quelli, non si vedono. Neppure l’odore del fieno, così frequente e diffuso di questi tempi, si fa avvertire. Per forza!... Con tutta questa pioggia nessuno sfalcia.
Ed è la pioggia la vera protagonista di questa fine primavera, a volte insieme ad un freddo umidissimo che penetra fin nelle ossa.
Se di una cosa possiamo esser certi, è il fatto di non andare incontro ad una siccità estiva prolungata: di pioggia ne è caduta tanta che ormai i bacini e le falde sono stati rimpinguati a dovere.
…Ma l’estate dov’è?
Fa pensare ad una di quelle primedonne che prima di esordire sul palcoscenico, si fanno attendere dai propri beniamini con ritardi voluti e ben congegnati. Sappiamo che essa è appena dietro l’angolo, quasi nascosta dietro ad un drappo del sipario, ma orgoglio ed amor proprio sono più forti della voglia di inondare di se la scena.
Quando l’estate verrà la luce sarà forte ed il caldo opprimente, soffriremo non poco per essa, ma ugualmente la desideriamo con trasporto, stanchi come siamo di questo sprazzo di novembre a fine primavera. Un novembre fuori stagione che, di mattina presto, non manca di manifestarsi in una delle sue vesti più tipiche: la nebbia.
Abbiamo voglia di spiaggia, di mare, di gelati e granite, di anguria, di donne generose vestite in modo succinto, di serata trascorse in piazza fino a tardi, sui tavolini del bar a discutere di mille cose; abbiamo voglia di stancarci del caldo e desiderare una pioggia d’agosto, di quelle che appena finite ritemprano la temperatura, ma anche lo spirito.
In campagna è tutto un lussureggiare di erbe, ma i frutti, quelli, non si vedono. Neppure l’odore del fieno, così frequente e diffuso di questi tempi, si fa avvertire. Per forza!... Con tutta questa pioggia nessuno sfalcia.
Ed è la pioggia la vera protagonista di questa fine primavera, a volte insieme ad un freddo umidissimo che penetra fin nelle ossa.
Se di una cosa possiamo esser certi, è il fatto di non andare incontro ad una siccità estiva prolungata: di pioggia ne è caduta tanta che ormai i bacini e le falde sono stati rimpinguati a dovere.
…Ma l’estate dov’è?
Fa pensare ad una di quelle primedonne che prima di esordire sul palcoscenico, si fanno attendere dai propri beniamini con ritardi voluti e ben congegnati. Sappiamo che essa è appena dietro l’angolo, quasi nascosta dietro ad un drappo del sipario, ma orgoglio ed amor proprio sono più forti della voglia di inondare di se la scena.
Quando l’estate verrà la luce sarà forte ed il caldo opprimente, soffriremo non poco per essa, ma ugualmente la desideriamo con trasporto, stanchi come siamo di questo sprazzo di novembre a fine primavera. Un novembre fuori stagione che, di mattina presto, non manca di manifestarsi in una delle sue vesti più tipiche: la nebbia.
Abbiamo voglia di spiaggia, di mare, di gelati e granite, di anguria, di donne generose vestite in modo succinto, di serata trascorse in piazza fino a tardi, sui tavolini del bar a discutere di mille cose; abbiamo voglia di stancarci del caldo e desiderare una pioggia d’agosto, di quelle che appena finite ritemprano la temperatura, ma anche lo spirito.
venerdì 25 maggio 2012
L'incidente
Caserta, via Vivaldi, ore 15 e 30 circa, sotto la pioggia battente mi avvio a riporre la fida bici nel solito garage; devo girare a sinistra, allungo il braccio, e lui che mi segue (piano) intende che io lo voglia far passare, frena solo quando il muso della “Ipsilon” già quasi mi sfiora; la frenata allungata dal fondo appena umido, l’urto, la caduta: questione di pochi attimi vissuti in un lasso di tempo interminabile.
Penso di esser volato sul cofano, sono sicuro, invece, di essere atterrato su un gluteo, ed adesso ci sorrido anche sopra, ma poteva andare anche molto, ma molto peggio: in quei pochi istanti ripercorri la vita intera, cominci già a pensare che ti porteranno in ospedale, ed anche ad una eventuale permanente invalidità.
Ci vuole molto coraggio, dopo, ad affrontare l’emozione che monta in me, insieme alla paura per il pericolo scampato che, a volte, è superiore a quella di un pericolo eventuale. Ed allora respiro profondamente, come ho imparato a fare per autocontrollarmi, cerco di rassicurare l’investitore che scopro essere anche un collega di ufficio, rassicuro anche i passanti che animati da spirito samaritano vogliono aiutarmi, ed intanto mi rialzo frenato da un dolore lancinante al posteriore.
Riprendo la bici, a fatica la rimetto in ordine di marcia, assistito anche dal mio investitore/soccorritore, mi avvio ai binari, mi aspetta un treno pronto a partire, insieme ai miei abituali compagni di viaggio.
E’ andata bene… sono sicuro che Qualcuno mi è stato affianco anche in quel breve ma intenso lasso di tempo!
Penso di esser volato sul cofano, sono sicuro, invece, di essere atterrato su un gluteo, ed adesso ci sorrido anche sopra, ma poteva andare anche molto, ma molto peggio: in quei pochi istanti ripercorri la vita intera, cominci già a pensare che ti porteranno in ospedale, ed anche ad una eventuale permanente invalidità.
Ci vuole molto coraggio, dopo, ad affrontare l’emozione che monta in me, insieme alla paura per il pericolo scampato che, a volte, è superiore a quella di un pericolo eventuale. Ed allora respiro profondamente, come ho imparato a fare per autocontrollarmi, cerco di rassicurare l’investitore che scopro essere anche un collega di ufficio, rassicuro anche i passanti che animati da spirito samaritano vogliono aiutarmi, ed intanto mi rialzo frenato da un dolore lancinante al posteriore.
Riprendo la bici, a fatica la rimetto in ordine di marcia, assistito anche dal mio investitore/soccorritore, mi avvio ai binari, mi aspetta un treno pronto a partire, insieme ai miei abituali compagni di viaggio.
E’ andata bene… sono sicuro che Qualcuno mi è stato affianco anche in quel breve ma intenso lasso di tempo!
domenica 20 maggio 2012
MELISSA
Per quanto possa sembrare piaggeria, non penso possa mancare su questo blog un pensiero per Melissa.
La sua bellissima giovinezza recisa da chissà chi, e con chissà quali intenti, ci impone di fermarci, di pensare, di considerare.
Al suo posto poteva essere chiunque, qualunque giovane studentessa delle superiori, ed è per questo che penso che l’ Istituto Professionale "Morvillo-Falcone" sia quella scuola sotto casa, a pochi passi. Le distanze chilometriche in tali casi si annullano e perdono qualsiasi significato geometrico. Il dolore di quei genitori, di quegli amici, di quei compagni di scuola è e deve essere il nostro dolore.
L’imbarbarimento progressivo della società, indiscutibilmente legato anche al momento particolare che attraversiamo, ha raggiunto ed oltrepassato il livello di guardia. La disperazione però, quella no, non deve prendere il sopravvento: chi può, ad ogni livello, deve far qualcosa, adoperarsi per evitare che tornino a ripetersi episodi di tale gravità.
La sua bellissima giovinezza recisa da chissà chi, e con chissà quali intenti, ci impone di fermarci, di pensare, di considerare.
Al suo posto poteva essere chiunque, qualunque giovane studentessa delle superiori, ed è per questo che penso che l’ Istituto Professionale "Morvillo-Falcone" sia quella scuola sotto casa, a pochi passi. Le distanze chilometriche in tali casi si annullano e perdono qualsiasi significato geometrico. Il dolore di quei genitori, di quegli amici, di quei compagni di scuola è e deve essere il nostro dolore.
L’imbarbarimento progressivo della società, indiscutibilmente legato anche al momento particolare che attraversiamo, ha raggiunto ed oltrepassato il livello di guardia. La disperazione però, quella no, non deve prendere il sopravvento: chi può, ad ogni livello, deve far qualcosa, adoperarsi per evitare che tornino a ripetersi episodi di tale gravità.
sabato 12 maggio 2012
MAMME IN FESTA
Chi può scrivere qualcosa sulle mamme, evitando con sicurezza il rischio della retorica?
Ma…è forse retorica quella di un bambino di pochi mesi, che pronuncia come prime sillabe sempre quelle, sempre le stesse: Mam…ma!
E’ questa la domenica della festa della Mamma: è una festa che conosco da sempre, molto, ma molto prima della degenerazione mediatica e filocommerciale, che ha portato, in tempi abbastanza recenti, prima alla Festa del Papà, poi a quella dei Nonni e così via; io lo ricordo bene: questa festa è sempre esistita, anche in periodi più magri di quello attuale. In una domenica di maggio dedicata alla Mamma, nella memoria di un attempato cinquantenne, è vivo il ricordo di recite scolastiche di bambini ed altre iniziative ed eventi sul tema.
Questa festa serve a noi stessi prima che a loro, alle mamme, per permettere di fermarci un attimo a riflettere, dedicare un pensiero ad una mamma vivente, o rimpiangere il tempo trascorso insieme quando la mamma non c’è più, almeno fisicamente.
Dico fisicamente, sì! …perché l’esperienza di aver perso la mamma ti segna per sempre, è vero, ma le mamme non ti lasciano mai, neppure dopo morte.
Ancor oggi, dopo anni, quando (frequentemente) ci rincontriamo nei sogni, al risveglio è forte in me l’impressione di quei due occhi severi ma dolcissimi, che mi scrutano con attenzione passo dopo passo, conoscono ogni mia debolezza e fragilità, ma allo stesso tempo ripongono fiducia illimitata nei miei mezzi.
Mamma, concetto astratto e concretissimo allo stesso tempo, sintesi di domini del pensiero lontani fra loro: biologia, eros, etica, estetica, morale, religione.
Dell’azione di quante mamme è intessuta la storia?...la storia, sì, quella importante e degli uomini importanti, dei Vips, come si direbbe oggi, e quella della gente comune, di tutti i giorni. Quante nel tempo le mano tese per instillare fiducia, infondere sicurezza e coraggio, quanti i sacrifici?... tanti, anche quelli “estremi”.
Auguri a tutte Voi, Mamme.
Ma…è forse retorica quella di un bambino di pochi mesi, che pronuncia come prime sillabe sempre quelle, sempre le stesse: Mam…ma!
E’ questa la domenica della festa della Mamma: è una festa che conosco da sempre, molto, ma molto prima della degenerazione mediatica e filocommerciale, che ha portato, in tempi abbastanza recenti, prima alla Festa del Papà, poi a quella dei Nonni e così via; io lo ricordo bene: questa festa è sempre esistita, anche in periodi più magri di quello attuale. In una domenica di maggio dedicata alla Mamma, nella memoria di un attempato cinquantenne, è vivo il ricordo di recite scolastiche di bambini ed altre iniziative ed eventi sul tema.
Questa festa serve a noi stessi prima che a loro, alle mamme, per permettere di fermarci un attimo a riflettere, dedicare un pensiero ad una mamma vivente, o rimpiangere il tempo trascorso insieme quando la mamma non c’è più, almeno fisicamente.
Dico fisicamente, sì! …perché l’esperienza di aver perso la mamma ti segna per sempre, è vero, ma le mamme non ti lasciano mai, neppure dopo morte.
Ancor oggi, dopo anni, quando (frequentemente) ci rincontriamo nei sogni, al risveglio è forte in me l’impressione di quei due occhi severi ma dolcissimi, che mi scrutano con attenzione passo dopo passo, conoscono ogni mia debolezza e fragilità, ma allo stesso tempo ripongono fiducia illimitata nei miei mezzi.
Mamma, concetto astratto e concretissimo allo stesso tempo, sintesi di domini del pensiero lontani fra loro: biologia, eros, etica, estetica, morale, religione.
Dell’azione di quante mamme è intessuta la storia?...la storia, sì, quella importante e degli uomini importanti, dei Vips, come si direbbe oggi, e quella della gente comune, di tutti i giorni. Quante nel tempo le mano tese per instillare fiducia, infondere sicurezza e coraggio, quanti i sacrifici?... tanti, anche quelli “estremi”.
Auguri a tutte Voi, Mamme.
domenica 6 maggio 2012
Appunti verso Madama Marta.
La pendice Nord del Montemaggiore, la nostra per intenderci, quella che si vede da Riardo, Pietramelara e Roccaromana, è una sorta di parete verde, quasi verticale. Inerpicarsi per uno dei suoi tantissimi sentieri è un avventura affascinante, ma anche tanto faticosa. Invito chiunque a farlo, anche perché è difficilissimo perdersi, dato che il percorso di ogni sentiero è segnatalato a distanze regolari di cinquanta/cento metri e poi, anche perché l’orografia è tanto semplice che basta guardare verso il basso per rendersi conto di dove si è.
Domenica mattina, insieme a due amici siamo saliti, zaino in spalla, da “Fosse della Neve” a Pizzo “Madama Marta”: per intenderci la cima rocciosa, a forma di torrione che si vede osservando la montagna verso sud/est, spostata a sinistra di Pietramelara, sulla verticale di Santa Croce/Roccaromana.
Lo sforzo fisico è mediamente intenso ma prolungato nel tempo, occorrendo, per raggiungere la meta, circa due ore e mezzo di cammino, di buon passo. Si potrebbero seguire anche altre vie, ma consiglio vivamente questa , perché anche se più lunga, consente di superare il dislivello in maniera estremamente più graduale.
Dopo aver lasciato alle spalle il piano di Fosse delle Neve, si comincia a scendere e si raggiungono le “Crucivalli”, una profonda incisione della montagna: data la forte umidità, la vegetazione alta ed il fatto che i raggi del sole raramente illuminano questo luogo vi si è insediata una vegetazione di sottobosco tipica fatta di felci e muschi. Vi dimorano gradi faggi, veri giganti del bosco.
Si ricomincia poi a prendere di nuovo quota, diretti verso il “tunnu iarsu”, località interessata dal grande incendio dell’agosto 1974, da tale punto, una ferita del bosco quasi del tutto rimarginata, si può già godere di un panorama sulla valle di Pietramelara. Si scorgono nettamente le tracce di qualche “amante della natura” che si è spinto fin quassù con una moto da trial.
Dopo circa mezz’ora si arriva sulla cresta della montagna, e si incontra la piana dei “Sugli a’ tocca”, il sentiero lambisce proprio da vicino uno di essi, un suglio, cioè una fossa scavata dagli animali selvatici o pascolanti dove il terreno è più umido, allo scopo di dissetarsi o quando manca l’acqua, nella stagione calda, ricoprirsi di fango.
Si segue allora, quasi in piano, la cresta della montagna per un chilometro o poco più, sino ad arrivare ai piedi di Pizzo “Madama Marta”, sono presenti molteplici punti di osservazione che danno sulla valle, la vegetazione è rada e si può guardare anche verso ovest. Il cammino, per quanto pressoché piano, è molto difficoltoso perché il suolo è disseminato di sassi molto mobili sotto il piede. Tali sassi sono tipici, una vera peculiarità del posto, perché levigati dal vento, sempre presente quassù, danno l’impressione di piccole basole calcaree.
E si continua così fino al pianoro sommitale di Pizzo “Madama Marta”, il luogo che ci accoglie per la breve sosta e relativa colazione: il colpo d’occhio è indescrivibile!... spazia dalle alture del Roccamonfina, al Matese ed al Taburno. Alcune cime, le più alte, sono ancora imbiancate da un po’ di neve. Più giù un susseguirsi di valli, interrotte da colli sulle cui pendici sono sorti innumeverevoli borghi; le grandi infrastrutture, ferrovie, strade ed autostrade, sono li testimoni del fatto che il progresso è giunto anche in questi luoghi incantati.
Si ricomincia il cammino di ritorno, verso casa, e ti viene in mente quanto una piccola avventura del genere sia una metafora aderente alla vita di tutti i giorni: la fatica per la salita, e poco dopo il cammino reso facile da una leggera discesa, il ritornare sui propri passi a causa di un momentaneo disorientamento, le insidie tese da un sasso non ancorato al terreno, sul quale, appoggiando sicuro il piede, rischi di cadere, il silenzio, il grande silenzio violato dai passi tuoi e dei tuoi compagni, ma, dappertutto e sempre, la soddisfazione di guardarsi intorno ed ammirare quanto di meraviglioso ti circonda.
(la foto di copertina è di Mariano Gallo)
giovedì 19 aprile 2012
PICCOLE COSE
Le mie piccole cose sono come me. Riflettono una luce un’allegra luce, sempre soffusa di malinconia.
Mi guardo intorno, vedo la mia terra, poco generosa in quanto a frutti, ma sempre pronta ad accogliermi e a rigenerarmi, ad offrirmi silenzi e concentrazione. La mia macchina, bella e scattante quanto si vuole, ma perennemente sporca ed infangata per gli usi impropri che esigo da essa. La mia bicicletta, compagna inseparabile di mille giri a zonzo, senza una meta, splendente al sole per le tante cromature, ma con qualche immancabile punto di ruggine. La mia moto, vecchia di quasi trent’anni, ma capace ancora di comunicarmi un senso di libertà infinita e di gioventù che tarda a passare, nonostante i decenni. La mia cartella, fatta di un cuoio duro e resistente ma, allo stesso tempo, morbido al tatto, non la potrei immaginare senza tutti quei graffi ed abrasioni, segno di un uso intenso e vissuto. I miei libri: seri, allegri, romantici, compagni di viaggio, o rimedio di una notte insonne.
Le mie piccole cose riflettono, in se stesse, le contraddizioni che caratterizzano il mio essere.
Mi guardo intorno, vedo la mia terra, poco generosa in quanto a frutti, ma sempre pronta ad accogliermi e a rigenerarmi, ad offrirmi silenzi e concentrazione. La mia macchina, bella e scattante quanto si vuole, ma perennemente sporca ed infangata per gli usi impropri che esigo da essa. La mia bicicletta, compagna inseparabile di mille giri a zonzo, senza una meta, splendente al sole per le tante cromature, ma con qualche immancabile punto di ruggine. La mia moto, vecchia di quasi trent’anni, ma capace ancora di comunicarmi un senso di libertà infinita e di gioventù che tarda a passare, nonostante i decenni. La mia cartella, fatta di un cuoio duro e resistente ma, allo stesso tempo, morbido al tatto, non la potrei immaginare senza tutti quei graffi ed abrasioni, segno di un uso intenso e vissuto. I miei libri: seri, allegri, romantici, compagni di viaggio, o rimedio di una notte insonne.
Le mie piccole cose riflettono, in se stesse, le contraddizioni che caratterizzano il mio essere.
sabato 14 aprile 2012
“sott’ a’ preula”
Chi, come me, ha avuto la fortuna/sfortuna di aver viaggiato in due galassie, chi cioè ha vissuto l’infanzia e la maturità attraversando mondi opposti, (vedi su questo blog “Due Galassie” , 30 ottobre 2011), ricorderà che in quelle masserie vecchie, ma tanto singolari nell’architettura, lontane lontane dal paese, anche se a poco più di un chilometro dal paese, vi era, immancabilmente, un luogo destinato al riposo estivo. Dico lontane lontane perché, nonostante la distanza minima, secondo criteri attuali, erano unite all’abitato da vie fangose in inverno ed incredibilmente polverose d’estate, così da essere giudicate, dai più, quasi sempre difficoltosamente percorribili.
Il lavoro dei campi, fino ad un quarantennio fa, era veramente duro, la meccanizzazione agricola era solo agli albori e la maggior parte delle operazioni era condotta manualmente, e questo, d'estate,con il caldo, poteva anche rappresentare una dura prova.
Allora, appena si poteva, ci si rinfrancava dalla fatica: un pezzo di pane, un povero companatico ed un bicchiere di vino, per una colazione da consumare fuori, magari insieme ad un compagno di lavoro. I luoghi destinati a tale funzione erano principalmente due: o “sott’ a’ preula” o “mmiez’ all’aria” (sotto la pergola o in mezzo all’aia, NDR).
La pergola era una pensilina viva, fatta intrecciando i tralci della vite, sostenuti da pali di legno; in genere era l’uva fragola, con il suo inconfondibile ed intenso profumo, la varietà di vite scelta per tale funzione. Mentre l’aia era uno spiazzo pavimentato circondato da un muretto, che assolveva anche ad altre svariate funzioni; il fresco, in tal caso, era assicurato da un frondoso gelso oppure da una centenaria quercia.
Confortevoli, perché caratterizzate da frescura delicata anche nelle estati più torride, “sott’ a’ preula” o “mmiez’ all’aria” erano luoghi deputati, anche ai contatti sociali: i visitatori della masseria, signori o cafoni che siano stati, secondo le rigide stratificazioni sociali dell’epoca, venivano ricevuti e fatti accomodare in tali precarie strutture e ivi si discuteva, si ragionava, si contrattavano affari e matrimoni, si osservava il cielo di giorno per le previsioni del tempo, o di notte per verificare le fasi lunari.
A ragion veduta, secondo il mio personale metro di giudizio, l’aia e la pergola sono state i luoghi che hanno visto nascere la “filosofia del pensiero debole”.
Il lavoro dei campi, fino ad un quarantennio fa, era veramente duro, la meccanizzazione agricola era solo agli albori e la maggior parte delle operazioni era condotta manualmente, e questo, d'estate,con il caldo, poteva anche rappresentare una dura prova.
Allora, appena si poteva, ci si rinfrancava dalla fatica: un pezzo di pane, un povero companatico ed un bicchiere di vino, per una colazione da consumare fuori, magari insieme ad un compagno di lavoro. I luoghi destinati a tale funzione erano principalmente due: o “sott’ a’ preula” o “mmiez’ all’aria” (sotto la pergola o in mezzo all’aia, NDR).
La pergola era una pensilina viva, fatta intrecciando i tralci della vite, sostenuti da pali di legno; in genere era l’uva fragola, con il suo inconfondibile ed intenso profumo, la varietà di vite scelta per tale funzione. Mentre l’aia era uno spiazzo pavimentato circondato da un muretto, che assolveva anche ad altre svariate funzioni; il fresco, in tal caso, era assicurato da un frondoso gelso oppure da una centenaria quercia.
Confortevoli, perché caratterizzate da frescura delicata anche nelle estati più torride, “sott’ a’ preula” o “mmiez’ all’aria” erano luoghi deputati, anche ai contatti sociali: i visitatori della masseria, signori o cafoni che siano stati, secondo le rigide stratificazioni sociali dell’epoca, venivano ricevuti e fatti accomodare in tali precarie strutture e ivi si discuteva, si ragionava, si contrattavano affari e matrimoni, si osservava il cielo di giorno per le previsioni del tempo, o di notte per verificare le fasi lunari.
A ragion veduta, secondo il mio personale metro di giudizio, l’aia e la pergola sono state i luoghi che hanno visto nascere la “filosofia del pensiero debole”.
mercoledì 4 aprile 2012
INSONNIA
E’ una disavventura ricorrente, la mia insonnia! No, non è un ulteriore segno dell’età che avanza: potrei giurarvi che da sempre ho dovuto fare i conti con essa. Di notte girarsi e rigirarsi avendo cura di non infastidire chi ti sta accanto: le dita delle mani incrociate tra la nuca ed il cuscino, lo sguardo fisso verso l’alto, ma… ciò che vedi non è affatto una volta imbiancata da cui pende un lampadario. Le immagini che ti si susseguono agli occhi ed alla mente sono talmente realistiche da superare la realtà stessa; non c’è verso di riaddormentarsi ed allora ti alzi, giri per casa, dai uno sguardo alla TV, mangi qualcosa senza fame, ritorni a letto e… si ricomincia.
Ti frulla un’idea in testa, sei impegnato a pensare, ideare, progettare. Un pensiero ti arrovella la mente e quanto più lo vuoi scacciare tanto più insistente si ripresenta.
Tra le varie congetture e ricordi, ecco che la memoria richiama le Sliding Doors, le porte scorrevoli del famoso film, in cui il destino della protagonista prende una piega diversa in dipendenza della chiusura di esse e del fatto che sia potuta salire o meno, a volo, sulla metropolitana (perché quelle porte scorrevoli si chiudono un istante prima che essa possa salire).
Ed i fatti della vita, alla stregua di quelle porte, aperte o chiuse, ti inducono a dubitare: se quel giorno, nella medesima situazione, non avessi detto quelle parole, le cose si sarebbero potute mettere diversamente? E se, invece, ne avessi detta qualcuna in più?
Se in quel contesto mi fossi comportato in modo opposto, forse l’obiettivo diveniva molto più facilmente conseguibile, ed invece…
I numerosi decenni vissuti, come in una moviola al massimo della velocità, ti scorrono davanti in meno di un attimo.
E mentre il tempo passa, comincia a farsi giorno, ti assopisci un poco e la sveglia suona, perentoria ed intransigente. Mentre ti alzi pensi di avere vissuto un poco di più, rimanendo sveglio quella notte, e finisci per affezionarti anche alla tua insonnia.
Ti frulla un’idea in testa, sei impegnato a pensare, ideare, progettare. Un pensiero ti arrovella la mente e quanto più lo vuoi scacciare tanto più insistente si ripresenta.
Tra le varie congetture e ricordi, ecco che la memoria richiama le Sliding Doors, le porte scorrevoli del famoso film, in cui il destino della protagonista prende una piega diversa in dipendenza della chiusura di esse e del fatto che sia potuta salire o meno, a volo, sulla metropolitana (perché quelle porte scorrevoli si chiudono un istante prima che essa possa salire).
Ed i fatti della vita, alla stregua di quelle porte, aperte o chiuse, ti inducono a dubitare: se quel giorno, nella medesima situazione, non avessi detto quelle parole, le cose si sarebbero potute mettere diversamente? E se, invece, ne avessi detta qualcuna in più?
Se in quel contesto mi fossi comportato in modo opposto, forse l’obiettivo diveniva molto più facilmente conseguibile, ed invece…
I numerosi decenni vissuti, come in una moviola al massimo della velocità, ti scorrono davanti in meno di un attimo.
E mentre il tempo passa, comincia a farsi giorno, ti assopisci un poco e la sveglia suona, perentoria ed intransigente. Mentre ti alzi pensi di avere vissuto un poco di più, rimanendo sveglio quella notte, e finisci per affezionarti anche alla tua insonnia.
sabato 31 marzo 2012
UN BORGO MODELLATO DALLA NECESSITA'
Ieri sera ho accompagnato per le anguste vie del Borgo di Pietramelara un gruppo di turisti del T.C.I. di Capua; è stata questa l’occasione per guardare quelle pietre, quei vicoli, quei manufatti con occhio meno distratto del solito. Le città, i paesi, i borghi vanno letti, soprattutto per capire chi sono stati gli autori che man mano, succedendosi nel tempo, hanno fornito contributi per il risultato che è sotto i nostri occhi: questa è la filosofia che mi ha guidato.
Molti, quasi tutti, conoscono l’episodio storico più importante che ha vissuto il nostro Borgo: il sacco con la barbara e cruenta distruzione, subita all’alba del 12 marzo 1496, ad opera delle truppe Aragonesi, con il conseguente eccidio ed il tramonto dell’intera comunità per un lasso di tempo non quantificabile; indubbiamente tale fatto ha impresso una straordinaria impronta fisica ed urbanistica che, a distanza di 5 secoli, sebbene attenuata, non si è ancora cancellata.
Tuttavia pochi si sono interrogati invece sui mille e mille microepisodi vissuti da donne e uomini nei secoli, pietramelaresi comuni, ma anch’essi autori di caratteri speciali conferiti al nostro monumento più importante.
Ogni pietra, ogni scorcio, ogni manufatto parla di loro: il forno, presente in ogni casa, nelle dimore patrizie come in quelle più modeste, permetteva di creare una riserva dell’alimento principale dell’alimentazione della gente di questi luoghi, il pane che veniva “fatto” in media una volta a settimana; in qualche casa di famiglie benestanti, poi, è possibile vedere ancora un fornetto destinato solo a riscaldare pasti e vivande, accanto a uno di dimensioni maggiori destinato, appunto, principalmente alla cottura del pane. La cisterna per la raccolta delle acque piovane, delle dimensioni permesse dal caso e dal luogo, dalla presenza di eventuali cavità naturali: in talune case ne sono presenti anche due o tre. La stalla del maiale, che da direttamente sulla strada, delinea un esigenza di custodia di un animale che crescendo produceva alimenti preziosi, apportando preziose proteine e grassi a una dieta “da povera gente” basata per lo più su cereali e legumi vari.
In discorso a parte va fatto per lo spazio, una risorsa evidentemente da sfruttare con parsimonia; tale esigenza ha indotto a costruire case l’una sull’ altra determinando una tipicità unica per il nostro borgo: gli angiporti, cioè strade sormontante da case. In altre parole, lo spazio era ritenuto tanto prezioso da dover edificare anche immediatamente al disopra della sede stradale.
Il castello distrutto nel giorno del sacco, e di cui sopravvive ormai solo la torre normanna e le mura perimetrali, e che nel tempo è stato trasformato in giardino ed orto pensile.
Per concludere: un borgo modellato più dalla necessità quotidiana che dalla storia.
I nostri ospiti di Capua sono rimasti rapiti ed ammaliati da tanta millenaria bellezza, ma allo stesso tempo colpiti dal silenzio di un abbandono ineluttabile, determinato anche dalle esigenze della vita moderna; è tempo di conferire una destinazione al nostro Borgo, allo scopo di tenerlo in vita; tra qualche anno sarà troppo tardi!
Molti, quasi tutti, conoscono l’episodio storico più importante che ha vissuto il nostro Borgo: il sacco con la barbara e cruenta distruzione, subita all’alba del 12 marzo 1496, ad opera delle truppe Aragonesi, con il conseguente eccidio ed il tramonto dell’intera comunità per un lasso di tempo non quantificabile; indubbiamente tale fatto ha impresso una straordinaria impronta fisica ed urbanistica che, a distanza di 5 secoli, sebbene attenuata, non si è ancora cancellata.
Tuttavia pochi si sono interrogati invece sui mille e mille microepisodi vissuti da donne e uomini nei secoli, pietramelaresi comuni, ma anch’essi autori di caratteri speciali conferiti al nostro monumento più importante.
Ogni pietra, ogni scorcio, ogni manufatto parla di loro: il forno, presente in ogni casa, nelle dimore patrizie come in quelle più modeste, permetteva di creare una riserva dell’alimento principale dell’alimentazione della gente di questi luoghi, il pane che veniva “fatto” in media una volta a settimana; in qualche casa di famiglie benestanti, poi, è possibile vedere ancora un fornetto destinato solo a riscaldare pasti e vivande, accanto a uno di dimensioni maggiori destinato, appunto, principalmente alla cottura del pane. La cisterna per la raccolta delle acque piovane, delle dimensioni permesse dal caso e dal luogo, dalla presenza di eventuali cavità naturali: in talune case ne sono presenti anche due o tre. La stalla del maiale, che da direttamente sulla strada, delinea un esigenza di custodia di un animale che crescendo produceva alimenti preziosi, apportando preziose proteine e grassi a una dieta “da povera gente” basata per lo più su cereali e legumi vari.
In discorso a parte va fatto per lo spazio, una risorsa evidentemente da sfruttare con parsimonia; tale esigenza ha indotto a costruire case l’una sull’ altra determinando una tipicità unica per il nostro borgo: gli angiporti, cioè strade sormontante da case. In altre parole, lo spazio era ritenuto tanto prezioso da dover edificare anche immediatamente al disopra della sede stradale.
Il castello distrutto nel giorno del sacco, e di cui sopravvive ormai solo la torre normanna e le mura perimetrali, e che nel tempo è stato trasformato in giardino ed orto pensile.
Per concludere: un borgo modellato più dalla necessità quotidiana che dalla storia.
I nostri ospiti di Capua sono rimasti rapiti ed ammaliati da tanta millenaria bellezza, ma allo stesso tempo colpiti dal silenzio di un abbandono ineluttabile, determinato anche dalle esigenze della vita moderna; è tempo di conferire una destinazione al nostro Borgo, allo scopo di tenerlo in vita; tra qualche anno sarà troppo tardi!
giovedì 22 marzo 2012
SIETE DI QUA?
Vi hanno mai fermato per strada, magari mentre siete assorti tra mille cose e mille pensieri, e vi hanno posto la domanda di rito “…ma voi siete di qua?”.
Curiosità, esigenza di un’informazione, smarrimento: cosa si cela dietro quella domanda, in apparenza banale?
“…ma voi siete di qua?” tuttavia, è un interrogativo che ognuno può porre anche a se stesso: cosa significa, per te, pietramelarese, allora “essere di qua”?.
Essere del posto, abitare in paese… “essere di qua” è una scelta fatta di coraggio e di rinunce: pendolarismo, assenza di scuole superiori ed altri servizi, opportunità più difficili da individuare e da cogliere, sono il costo da sostenere per l’essere voluti rimanere in paese; per lavoro si esce la mattina di notte e si rincasa quando la sera è già scesa da un pezzo, sono pochi i fortunati a godere di un posto a pochi passi da casa.
Ma allora, vi chiederete voi, chi te lo fa fare?
Vedete, il profondo legame con le radici, secondo un’espressione pluriabusata, determina in me una forza in grado di resistere ad ogni sirena, anche la più allettante. Rimanere nel posto dove sono nato mi ha permesso di crescere rendendomi conto di cosa sono e dove sono, il risultato lo avete davanti e…a voi l’ardua sentenza!
Essere di qua mi spinge la sera in piazza, anche senza aver nulla da comprare, nessun appuntamento con chicchessia; in quel luogo incontro amici e conoscenti, discorro con loro di cose vecchie e recenti, e gli argomenti sono i più svariati: si va dalla birra alle leggi della fisica, dalla potatura alla teologia, dalla politica locale, fatta di voti, assessorati, determine, fino alle grandi ideologie. Il posto dove abito è ancora “a misura d’uomo” e posso scriverlo senza tema di smentite.
Essere di qua mi permette di godere di una passeggiata tra i campi , scarpette al piede e cuffiette nelle orecchie, tra la musica e la bellezza di una natura che ha già cominciato a risvegliarsi, mi da l’occasione di continuare a coltivare l’oliveto di famiglia, di curare un piccolo orto fidando esclusivamente sulle mie forze…e senza prospettiva alcuna di guadagno.
Essere di qua non mi fa stare in apprensione e in trepidio, anche quando le persone che più amo escono di sera e già comincia a farsi tardi; una serenità che deriva dal sapere dove sono e con chi sono; tale serenità altrove, in realtà urbane di maggiori dimensioni non la ritroverei mai.
Essere di qua, infine, mi consente di coltivare la memoria e le tradizioni del passato, un campo di azione del pensiero che per me parte ormai da lontano, e che si è poi materializzato in tanti fatti ed atti, reali e tangibili.
Curiosità, esigenza di un’informazione, smarrimento: cosa si cela dietro quella domanda, in apparenza banale?
“…ma voi siete di qua?” tuttavia, è un interrogativo che ognuno può porre anche a se stesso: cosa significa, per te, pietramelarese, allora “essere di qua”?.
Essere del posto, abitare in paese… “essere di qua” è una scelta fatta di coraggio e di rinunce: pendolarismo, assenza di scuole superiori ed altri servizi, opportunità più difficili da individuare e da cogliere, sono il costo da sostenere per l’essere voluti rimanere in paese; per lavoro si esce la mattina di notte e si rincasa quando la sera è già scesa da un pezzo, sono pochi i fortunati a godere di un posto a pochi passi da casa.
Ma allora, vi chiederete voi, chi te lo fa fare?
Vedete, il profondo legame con le radici, secondo un’espressione pluriabusata, determina in me una forza in grado di resistere ad ogni sirena, anche la più allettante. Rimanere nel posto dove sono nato mi ha permesso di crescere rendendomi conto di cosa sono e dove sono, il risultato lo avete davanti e…a voi l’ardua sentenza!
Essere di qua mi spinge la sera in piazza, anche senza aver nulla da comprare, nessun appuntamento con chicchessia; in quel luogo incontro amici e conoscenti, discorro con loro di cose vecchie e recenti, e gli argomenti sono i più svariati: si va dalla birra alle leggi della fisica, dalla potatura alla teologia, dalla politica locale, fatta di voti, assessorati, determine, fino alle grandi ideologie. Il posto dove abito è ancora “a misura d’uomo” e posso scriverlo senza tema di smentite.
Essere di qua mi permette di godere di una passeggiata tra i campi , scarpette al piede e cuffiette nelle orecchie, tra la musica e la bellezza di una natura che ha già cominciato a risvegliarsi, mi da l’occasione di continuare a coltivare l’oliveto di famiglia, di curare un piccolo orto fidando esclusivamente sulle mie forze…e senza prospettiva alcuna di guadagno.
Essere di qua non mi fa stare in apprensione e in trepidio, anche quando le persone che più amo escono di sera e già comincia a farsi tardi; una serenità che deriva dal sapere dove sono e con chi sono; tale serenità altrove, in realtà urbane di maggiori dimensioni non la ritroverei mai.
Essere di qua, infine, mi consente di coltivare la memoria e le tradizioni del passato, un campo di azione del pensiero che per me parte ormai da lontano, e che si è poi materializzato in tanti fatti ed atti, reali e tangibili.
domenica 11 marzo 2012
AVETE VINTO VOI
Avete vinto voi, nemici del mio Paese! I segni più chiari della vostra vittoria si leggevano stamattina, erano da un pezzo passate le nove, ed in piazza San Rocco non sostava nessuno. Il sentimento più immediato in me: rabbia, quella profonda che ti scuote l’animo.
La domenica mattina, sin dalle prime ore del giorno centinaia di persone si affollavano in piazza, chi fare acquisti, chi per trovare un operaio per i lavori di campagna, chi per ottenere la giusta remunerazione per servigi già resi. Oggi, stamattina, il deserto, il cimitero, la tristezza della desolazione.
E voi lì, soddisfatti del potere esercitato, riguardate il tutto, e gioite persino delle rovine che avete causato. Aver immolato tutto ciò che di più peculiare abbiamo avrà anche soddisfatto il vostro Ego, la vostra avidità, la vostra presunzione convinta di fare bene …ma,badate bene: i brandelli del nostro tessuto sociale, ormai disgregato, un giorno si renderanno conto del torto che è stato fatto loro e, presa coscienza di sé, vi verranno cercare, vi chiederanno conto di ognuna delle vostre nefandezze, e, penso, che quello non sarà un momento felice per voi e per i vostri interessati complici.
Appalti, favori alla clientela, scempi ambientali: saranno questi i conti che vi saranno presentati e dubito che avrete in quel momento giustificazioni plausibili del vostro immondo comportamento.
La domenica mattina, sin dalle prime ore del giorno centinaia di persone si affollavano in piazza, chi fare acquisti, chi per trovare un operaio per i lavori di campagna, chi per ottenere la giusta remunerazione per servigi già resi. Oggi, stamattina, il deserto, il cimitero, la tristezza della desolazione.
E voi lì, soddisfatti del potere esercitato, riguardate il tutto, e gioite persino delle rovine che avete causato. Aver immolato tutto ciò che di più peculiare abbiamo avrà anche soddisfatto il vostro Ego, la vostra avidità, la vostra presunzione convinta di fare bene …ma,badate bene: i brandelli del nostro tessuto sociale, ormai disgregato, un giorno si renderanno conto del torto che è stato fatto loro e, presa coscienza di sé, vi verranno cercare, vi chiederanno conto di ognuna delle vostre nefandezze, e, penso, che quello non sarà un momento felice per voi e per i vostri interessati complici.
Appalti, favori alla clientela, scempi ambientali: saranno questi i conti che vi saranno presentati e dubito che avrete in quel momento giustificazioni plausibili del vostro immondo comportamento.
mercoledì 7 marzo 2012
DONNE
Tanto tempo fa, ero ancora giovane, mi occupavo di riforestazione: è ovvio che con gli operai nei cantieri non si parlava solo di lavoro. Ricordo in particolare uno di loro, sessantenne più o meno, che nelle pause mi avvicinava ed amava ripetere, in un suo personalissimo dialetto italianizzato: “Dottò, uardate che grande cosa: ’ncopp’ a facc’ ra terra ogni cosa è soggetta a gl’ome, e gl’ome è suggetto alla femm’na” (in questo mondo tutto è soggetto all’uomo e l’uomo è soggetto alla donna, ndr), massima questa stabiliva un principio che definirei sconcertante: ogni potere del sesso maschile si esaurisce e si annulla e, per la proprietà transitiva, passa al sesso femminile, in una sorta di volontario abdicare.
D’altro canto, il capolavoro teatrale “La Gatta Cenerentola”, si conclude con la sentenza di una zingara: “per far andar bene il mondo o tutte le femmine dovrebbero essere maschi, o tutti i maschi dovrebbero essere femmine, oppure ancora non ci dovrebbero essere ne maschi ne femmine”
Quanto ci sia di vero in tutto ciò …non saprei!
Tuttavia, ho riportato questi due citazioni, attinte dalla mia esperienza di vita e dalla letteratura, perché mi offrono l’occasione di parlare un pò di loro, delle donne, dei nostri rapporti con loro, nell’imminenza della loro festa, domani 8 marzo.
Cosa sarebbe il mondo senza di loro, senza tutte le tensioni che da sempre hanno suscitato, senza tutti gli errori delle quali sono state la causa più o meno evidente, ma anche senza il grande contributo di equilibrio, di intelligenza, razionalità ed affettività di cui sono state sempre capaci?
Mogli, mamme, sorelle, fidanzate, eventuali amanti: quante donne interagiscono con l’esistenza di un uomo! …ma con un comune denominatore, una comune richiesta, quella di essere rispettate ed onorate non solo in questo giorno di marzo, ma costantemente e continuamente, per un’intera vita. Attenzione, però, donne: il rispetto esige rispetto e, nessuna di voi può illudersi di ottenerlo senza ricambiarlo. Detto questo…AUGURI AD OGNUNA DI VOI
D’altro canto, il capolavoro teatrale “La Gatta Cenerentola”, si conclude con la sentenza di una zingara: “per far andar bene il mondo o tutte le femmine dovrebbero essere maschi, o tutti i maschi dovrebbero essere femmine, oppure ancora non ci dovrebbero essere ne maschi ne femmine”
Quanto ci sia di vero in tutto ciò …non saprei!
Tuttavia, ho riportato questi due citazioni, attinte dalla mia esperienza di vita e dalla letteratura, perché mi offrono l’occasione di parlare un pò di loro, delle donne, dei nostri rapporti con loro, nell’imminenza della loro festa, domani 8 marzo.
Cosa sarebbe il mondo senza di loro, senza tutte le tensioni che da sempre hanno suscitato, senza tutti gli errori delle quali sono state la causa più o meno evidente, ma anche senza il grande contributo di equilibrio, di intelligenza, razionalità ed affettività di cui sono state sempre capaci?
Mogli, mamme, sorelle, fidanzate, eventuali amanti: quante donne interagiscono con l’esistenza di un uomo! …ma con un comune denominatore, una comune richiesta, quella di essere rispettate ed onorate non solo in questo giorno di marzo, ma costantemente e continuamente, per un’intera vita. Attenzione, però, donne: il rispetto esige rispetto e, nessuna di voi può illudersi di ottenerlo senza ricambiarlo. Detto questo…AUGURI AD OGNUNA DI VOI
giovedì 1 marzo 2012
PRIMO MARZO
Di che colore era la mattina del 1 marzo 2012? Verde dell’erba ancora umida sotto i miei piedi, bruno della terra arata ma non seminata, argenteo delle foglie aguzze dell’olivo, o giallo di un sole tiepido e gradevole come i tizzi del focolare…mah, forse un magico miscuglio di ognuno di essi, nel quale però ognuno ha conservato la propria precisa singolarità.
Che bellezza “marinare la scuola” e trascorrere il mattino in campagna, senza i rumori della città, le lamentele dell’ufficio, che bello ascoltare solo l’acqua che scorre imperturbabile nel rivo accanto, lo starnazzare di una gallina poco lontano e il muggito di qualche bufala.
E’ stata questa la mia mattinata, una che ricorderò per tanto tempo ancora, complice uno sciopero ferroviario, ci si è organizzati per tempo con un giorno di ferie e…via.
Sono momenti questi in cui ti riconcili con te stesso ed il resto del Creato, sono momenti in grado di farti dimenticare angosce e preoccupazioni, dispiaceri e miserie, piccole e grandi.
Dopo tutto, miei cari “quattro lettori” è questo il sale della vita: ricevere tanto da cose minime, senza che tu abbia fatto alcunché perché ciò si sia determinato.
lunedì 27 febbraio 2012
DOMENICA
La mattinata in piazza insieme a quattro amici, a discutere di un manifesto politico dai contenuti poco chiari; il mercato, aggirandosi tra le bancarelle, tra un assaggio di olive e i “panni americani”; il pranzo domenicale con la famiglia: odore di buono che si avverte già dalla strada; una passeggiata dopo pranzo iniziata con il sole e finita con il timore della pioggia; la sera di nuovo in piazza per rivedere alcuni amici, incontrare altri che non avevo visto stamattina… è così che trascorre la domenica qui da noi!
Niente di speciale, nessuna cosa di cui valga la pena raccontare, eppure chi, volendosi fregiare del titolo di pietramelarese DOC, si priverebbe di ciò?
Quali le ragioni di tanto attaccamento a cose che, alla prima apparenza, sembrano ancor meno che futili? Quali i motivi che hanno indotto uomini a sobbarcarsi viaggi transoceanici per il solo gusto di vivere momenti di questo tipo?
“Otium”, che i latini contrapponevano al “negotium”, sua logica negazione: il contemplare inattivo opposto all’indaffararsi affannato; in altre parole riposo contemplativo per noi, per le nostre interiorità e per il nostro stare insieme, che reciprocamente si osservano.
Ciò che si fa di domenica, pertanto, serve anche a contemperare gli individualismi a cui siamo costretti nell’intera settimana; le corse con il cuore in gola dietro il raggiungimento di un obiettivo, il doversi adeguare, a volte e controvoglia, al volere di chi sta sopra di te, e tanto altro.
Essere legati a questo modo di trascorrere la domenica, giorno clou della settimana, è segno che un’identità collettiva ancora esiste, che ancore si avverte un comune sentire, anche se in modo molto più flebile che in passato.
Niente di speciale, nessuna cosa di cui valga la pena raccontare, eppure chi, volendosi fregiare del titolo di pietramelarese DOC, si priverebbe di ciò?
Quali le ragioni di tanto attaccamento a cose che, alla prima apparenza, sembrano ancor meno che futili? Quali i motivi che hanno indotto uomini a sobbarcarsi viaggi transoceanici per il solo gusto di vivere momenti di questo tipo?
“Otium”, che i latini contrapponevano al “negotium”, sua logica negazione: il contemplare inattivo opposto all’indaffararsi affannato; in altre parole riposo contemplativo per noi, per le nostre interiorità e per il nostro stare insieme, che reciprocamente si osservano.
Ciò che si fa di domenica, pertanto, serve anche a contemperare gli individualismi a cui siamo costretti nell’intera settimana; le corse con il cuore in gola dietro il raggiungimento di un obiettivo, il doversi adeguare, a volte e controvoglia, al volere di chi sta sopra di te, e tanto altro.
Essere legati a questo modo di trascorrere la domenica, giorno clou della settimana, è segno che un’identità collettiva ancora esiste, che ancore si avverte un comune sentire, anche se in modo molto più flebile che in passato.
domenica 19 febbraio 2012
Carnevale e Caraes'ma
Che la mia terra fosse luogo di contraddizioni, di contrappassi, di mutevoli umori, i miei “quattro lettori” l’avranno già capito da un pezzo: non è un caso che, ad una manciata di chilometri, si erga ancora, dopo aver sfidato più di venticinque secoli, un tempio al Dio Giano Bifronte, e che il culto di tale divinità sia stato tanto importante da conferire il nome stesso alla località, Giano Vetusto, appunto. E, dal momento che esse sono un’espressione autentica di stati d’animo collettivi, dalle nostre parti neanche le tradizioni folcloristiche locali sfuggano alla legge della contraddizione e del contrappasso.
Ritengo sia il caso di Carnevale e Caraes’ma (Quaresima), tradizioni vicine e confinanti nel tempo, in fine inverno, ma diametralmente opposte nel portato di significati. Anche le raffigurazioni, le personificazioni ci danno conto di questa antinomia: Carnevale raffigurato come un Re grasso e tarchiato, Caraes’ma come una vecchina macilenta e malvestita, intenta a lavorare al fuso.
Di questi tempi il grasso monarca doveva affrettarsi a preparare banchetti e festini vari, perché, lo sapeva, la sua ora stava per scoccare. Fino a circa un quarantennio fa, per le vie del Paese, la sua fine era una rappresentazione fissa, con tanto di Carnevale morente e con la “pariata” (cfr. nota) sull’addome messa a disposizione da qualche macellaio locale, modo ingenuo ma efficace per significare che il tempo è concluso, che la malattia è avanzata e che per il moribondo non c’è più nulla da fare. Gli uomini impegnati nella pantomima avevano volti seri e compassati, e sembrava quasi avessero fretta di concludere il loro compito: chi si improvvisava chirurgo con coltellacci e mannaie in luogo del bisturi, chi si improvvisava portantino spingendo faticosamente una carriola che faceva da lettiga per il re agonizzante, e chi, infine, interpretava il ruolo di Carnevale morente lanciando urla strazianti con la “pariata” sulla pancia, che faceva bella mostra di sé.
Avevano fretta, si diceva, perché la vecchina, sgradevole e malvestita, stava per prendere il posto che era appartenuto a Carnevale: allora le astinenze avrebbero preso il posto delle abbondanti manciate e bevute, i lazzi e gli scherzi avrebbero dovuto cedere il passo a comportamenti molto più seri. Passato il Carnevale qualcuno sentiva addirittura il bisogno di dover, con un simbolo esteriore, dare conto del momento che si stava attraversando: ed allora, la mattina delle Ceneri, allestiva un manichino, lo vestiva generalmente di nero, con un fazzoletto sulla testa (anch’esso nero) ed un fuso tra le mani, era la figura di Caraes’ma. Questo manichino veniva, ed in qualche contrada ancora viene, issato ed esposto su di un palo quasi come un ammonimento a chi passa a dimenticare gli eccessi del Carnevale ed ad indirizzare la mente a comportamenti più in sintonia con la Quaresima.
NDR La “pariata” è un intestino di pecora, comunemente in vendita nelle macellerie.:
Ritengo sia il caso di Carnevale e Caraes’ma (Quaresima), tradizioni vicine e confinanti nel tempo, in fine inverno, ma diametralmente opposte nel portato di significati. Anche le raffigurazioni, le personificazioni ci danno conto di questa antinomia: Carnevale raffigurato come un Re grasso e tarchiato, Caraes’ma come una vecchina macilenta e malvestita, intenta a lavorare al fuso.
Di questi tempi il grasso monarca doveva affrettarsi a preparare banchetti e festini vari, perché, lo sapeva, la sua ora stava per scoccare. Fino a circa un quarantennio fa, per le vie del Paese, la sua fine era una rappresentazione fissa, con tanto di Carnevale morente e con la “pariata” (cfr. nota) sull’addome messa a disposizione da qualche macellaio locale, modo ingenuo ma efficace per significare che il tempo è concluso, che la malattia è avanzata e che per il moribondo non c’è più nulla da fare. Gli uomini impegnati nella pantomima avevano volti seri e compassati, e sembrava quasi avessero fretta di concludere il loro compito: chi si improvvisava chirurgo con coltellacci e mannaie in luogo del bisturi, chi si improvvisava portantino spingendo faticosamente una carriola che faceva da lettiga per il re agonizzante, e chi, infine, interpretava il ruolo di Carnevale morente lanciando urla strazianti con la “pariata” sulla pancia, che faceva bella mostra di sé.
Avevano fretta, si diceva, perché la vecchina, sgradevole e malvestita, stava per prendere il posto che era appartenuto a Carnevale: allora le astinenze avrebbero preso il posto delle abbondanti manciate e bevute, i lazzi e gli scherzi avrebbero dovuto cedere il passo a comportamenti molto più seri. Passato il Carnevale qualcuno sentiva addirittura il bisogno di dover, con un simbolo esteriore, dare conto del momento che si stava attraversando: ed allora, la mattina delle Ceneri, allestiva un manichino, lo vestiva generalmente di nero, con un fazzoletto sulla testa (anch’esso nero) ed un fuso tra le mani, era la figura di Caraes’ma. Questo manichino veniva, ed in qualche contrada ancora viene, issato ed esposto su di un palo quasi come un ammonimento a chi passa a dimenticare gli eccessi del Carnevale ed ad indirizzare la mente a comportamenti più in sintonia con la Quaresima.
NDR La “pariata” è un intestino di pecora, comunemente in vendita nelle macellerie.:
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