Che la mia terra fosse luogo di contraddizioni, di contrappassi, di mutevoli umori, i miei “quattro lettori” l’avranno già capito da un pezzo: non è un caso che, ad una manciata di chilometri, si erga ancora, dopo aver sfidato più di venticinque secoli, un tempio al Dio Giano Bifronte, e che il culto di tale divinità sia stato tanto importante da conferire il nome stesso alla località, Giano Vetusto, appunto. E, dal momento che esse sono un’espressione autentica di stati d’animo collettivi, dalle nostre parti neanche le tradizioni folcloristiche locali sfuggano alla legge della contraddizione e del contrappasso.
Ritengo sia il caso di Carnevale e Caraes’ma (Quaresima), tradizioni vicine e confinanti nel tempo, in fine inverno, ma diametralmente opposte nel portato di significati. Anche le raffigurazioni, le personificazioni ci danno conto di questa antinomia: Carnevale raffigurato come un Re grasso e tarchiato, Caraes’ma come una vecchina macilenta e malvestita, intenta a lavorare al fuso.
Di questi tempi il grasso monarca doveva affrettarsi a preparare banchetti e festini vari, perché, lo sapeva, la sua ora stava per scoccare. Fino a circa un quarantennio fa, per le vie del Paese, la sua fine era una rappresentazione fissa, con tanto di Carnevale morente e con la “pariata” (cfr. nota) sull’addome messa a disposizione da qualche macellaio locale, modo ingenuo ma efficace per significare che il tempo è concluso, che la malattia è avanzata e che per il moribondo non c’è più nulla da fare. Gli uomini impegnati nella pantomima avevano volti seri e compassati, e sembrava quasi avessero fretta di concludere il loro compito: chi si improvvisava chirurgo con coltellacci e mannaie in luogo del bisturi, chi si improvvisava portantino spingendo faticosamente una carriola che faceva da lettiga per il re agonizzante, e chi, infine, interpretava il ruolo di Carnevale morente lanciando urla strazianti con la “pariata” sulla pancia, che faceva bella mostra di sé.
Avevano fretta, si diceva, perché la vecchina, sgradevole e malvestita, stava per prendere il posto che era appartenuto a Carnevale: allora le astinenze avrebbero preso il posto delle abbondanti manciate e bevute, i lazzi e gli scherzi avrebbero dovuto cedere il passo a comportamenti molto più seri. Passato il Carnevale qualcuno sentiva addirittura il bisogno di dover, con un simbolo esteriore, dare conto del momento che si stava attraversando: ed allora, la mattina delle Ceneri, allestiva un manichino, lo vestiva generalmente di nero, con un fazzoletto sulla testa (anch’esso nero) ed un fuso tra le mani, era la figura di Caraes’ma. Questo manichino veniva, ed in qualche contrada ancora viene, issato ed esposto su di un palo quasi come un ammonimento a chi passa a dimenticare gli eccessi del Carnevale ed ad indirizzare la mente a comportamenti più in sintonia con la Quaresima.
NDR La “pariata” è un intestino di pecora, comunemente in vendita nelle macellerie.:
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