Non è un bel giorno questo per me! Sembra ieri eppure sono passati ben trenta lunghi anni da quella fredda mattina del 29 dicembre 1985; ci siamo salutati e sei andato via così, in silenzio.
E lo sai… quando si parla di un periodo così lungo lo si fa con un certo rispetto, una sorta di timore reverenziale; in trent’anni si cresce, si diventa ben maturi, si fanno esperienze di ogni tipo, eppure a me sembra che tutto questo tempo sia volato in un solo attimo. E’ inutile parlarti di quello che ho fatto e di ciò che non ho fatto: ritengo tu lo sappia almeno quanto me. La separazione da te è stata aggravata, da qualche anno, dalla scomparsa di mamma privandoci di quell’ormai unico, insostituibile riferimento: sembra che nella nostra famiglia tutti gli eventi più drammatici si debbano, per un assurdo gioco del destino, verificarsi solo nel periodo natalizio.
Non è stato facile fare a meno del tuo esempio, dei tuoi pareri, del tuo stile di vita semplice e schietto, ma proprio per questo altamente condivisibile.
A volte mi rendo conto di quanto tempo sia esattamente passato solo constatando quando siamo cambiati noi, il contesto in cui viviamo, la comunità con cui interagiamo. E’ veramente enorme, infatti, la distanza fra quel giovanotto di cui ti compiacevi, appena uscito dall’università, pieno di sogni, ambizioni e progetti e l’uomo che ti sta scrivendo; la vita va avanti e mi sforzo di contemperare qualche livido o qualche ferita con le soddisfazioni che la vita e la sorte non fanno, per fortuna, mancare. Due giovani donne costituiscono oggi il nucleo dei miei interessi, delle mie gioie e delle mie quotidiane ansie.
E’ cambiato il nostro Paese che tu amavi e rispettavi, in cui non sei nato ma che ti ha accolto con calore ed empatia; la gente di adesso pensa molto di più ai fatti propri, tendendo con miopia a piccoli vantaggi, trascurando ciò che veramente potrebbe andare nel segno del riscatto e dello sviluppo. Non saprei dirti se la considerazione di cui hai goduto, tu che per tutti qui eri “ju pruf’ssore”, sarebbe la stessa oggi: i ruoli nella società si sono annullati, chiunque si ritiene in grado di qualsiasi cosa o impresa, ed il degrado, frutto di tale stato di cose, purtroppo, è sotto gli occhi di tutti.
Vedi… è anche cambiato il modo di crescere e diventare grandi e se, quando hai vissuto, “bastava” essere una brava persona, onesta, colta e preparata, per conquistare stima e prestigio sociale, oggi ci vuole ben altro: denaro (e molto), spregiudicatezza, visibilità su più fronti. Ti basti sapere che siamo arrivati al punto da far dire ad un famoso personaggio del momento: “Le persone «perbene», oneste e con senso civico non riescono a fare carriera. Spesso vengono emarginate proprio perchè hanno un'etica del lavoro”. Un vero e proprio ribaltamento del merito che lascerebbe interdetto certamente chi, come te, ha educato generazioni di pietramelaresi per decenni ai valori fondanti.
Sarebbe bello rincontrarti trent’anni dopo, papà, e scambiare ancora quattro chiacchiere, ma temo che ciò possa avvenire solo in un tempo lontano ed in una dimensione diversa dalla nostra. ARRIVEDERCI
Scribacchiando per me
martedì 29 dicembre 2015
giovedì 24 dicembre 2015
AUGURI
Auguri a coloro che seguono con interesse e simpatia questo blog “scribacchiato”: mi riempite di orgoglio e soddisfazione quando leggo dei vostri “mi piace” e, parimenti, mi interesso alle vostre critiche ritenendole istruttive ed insostituibili; auguri a quanti incontro per strada e mi dimostrano apprezzamento per tale modo di comunicare i miei ricordi e le mie emozioni, invitandomi semmai a trattare questo o quell’aspetto della “pietramelaresità” finora tralasciato.
Auguri a mille e mille amici che ho trovato nel gruppo “Coltivare l’orto”, il nostro modo di scambiarci esperienze e immagini in tale hobby, sempre più diffuso, senza pretese e saccenterie sia preso a modello anche in altri contesti.
Auguri a quanti si ricorderanno di me tra oggi e domani: sarò felicissimo di leggere e avrò cura di ricambiare ogni pensiero gentile pervenuto da un social network, da un sms o da una breve telefonata.
Auguri a quelle donne e a quegli uomini forti, ai quali le traversie, i guai e i problemi non hanno fatto perdere il coraggio di vivere: leggere sul loro volto un piccolo accenno di sorriso, seppur velato di malinconia, è il miglior incoraggiamento per andare avanti.
Auguri a coloro che perpetuano le tradizioni natalizie: la pratica religiosa, la voglia di uscire e stare insieme, nonostante il freddo pungente, la grande gastronomia derivante da un retroterra culturale unico nel suo genere. Il Natale, festa cardine della cristianità, è minato oggi nei suoi simboli più essenziali, e non ritengo giusto che chi (sottolineo) doverosamente dobbiamo accogliere, si senta leso da un presepe, da un decoro natalizio o da altre manifestazioni esterne. A mio parere la tolleranza deve diventare un paradigma di questi giorni e per il resto dell’anno, ma deve esserlo in modo bilaterale e paritario, senza gli sciocchi ideologismi che fanno del cosiddetto “politically correct” lo scudo e la bandiera portati avanti da una certa parte.
Auguri alla mia famiglia, porto di riferimento del viaggio che vivo giorno per giorno: con l’astronave che conduco ho visitato due galassie (http://scribacchiandoperme.blogspot.it/2011/10/due-galassie.html), ho conosciuto luoghi, uomini e donne diversissimi fra loro ma il traguardo, alla fine, è sempre lo stesso.
Auguri infine e soprattutto a chi non sta bene, a chi si sente debole e minato nel corpo e nello spirito: sappiate anche voi gioire di questi giorni, la famiglia ed il calore della casa vi siano prossimi, vedrete che anche tali piccole cose contribuiranno a farvi stare meglio.
Auguri a mille e mille amici che ho trovato nel gruppo “Coltivare l’orto”, il nostro modo di scambiarci esperienze e immagini in tale hobby, sempre più diffuso, senza pretese e saccenterie sia preso a modello anche in altri contesti.
Auguri a quanti si ricorderanno di me tra oggi e domani: sarò felicissimo di leggere e avrò cura di ricambiare ogni pensiero gentile pervenuto da un social network, da un sms o da una breve telefonata.
Auguri a quelle donne e a quegli uomini forti, ai quali le traversie, i guai e i problemi non hanno fatto perdere il coraggio di vivere: leggere sul loro volto un piccolo accenno di sorriso, seppur velato di malinconia, è il miglior incoraggiamento per andare avanti.
Auguri a coloro che perpetuano le tradizioni natalizie: la pratica religiosa, la voglia di uscire e stare insieme, nonostante il freddo pungente, la grande gastronomia derivante da un retroterra culturale unico nel suo genere. Il Natale, festa cardine della cristianità, è minato oggi nei suoi simboli più essenziali, e non ritengo giusto che chi (sottolineo) doverosamente dobbiamo accogliere, si senta leso da un presepe, da un decoro natalizio o da altre manifestazioni esterne. A mio parere la tolleranza deve diventare un paradigma di questi giorni e per il resto dell’anno, ma deve esserlo in modo bilaterale e paritario, senza gli sciocchi ideologismi che fanno del cosiddetto “politically correct” lo scudo e la bandiera portati avanti da una certa parte.
Auguri alla mia famiglia, porto di riferimento del viaggio che vivo giorno per giorno: con l’astronave che conduco ho visitato due galassie (http://scribacchiandoperme.blogspot.it/2011/10/due-galassie.html), ho conosciuto luoghi, uomini e donne diversissimi fra loro ma il traguardo, alla fine, è sempre lo stesso.
Auguri infine e soprattutto a chi non sta bene, a chi si sente debole e minato nel corpo e nello spirito: sappiate anche voi gioire di questi giorni, la famiglia ed il calore della casa vi siano prossimi, vedrete che anche tali piccole cose contribuiranno a farvi stare meglio.
martedì 15 dicembre 2015
STORIELLE MUSICALI
“Il mondo a 45 giri” è una trasmissione televisiva di prossima programmazione su RAI 3, essa ripercorrerà trent’anni di storia della musica italiana raccontando la storia della RCA, la mitica casa discografica che con i suoi artisti ha fatto la colonna sonora del nostro paese dagli anni ’50 alla fine degli ’80.
La nota casa discografica ha annoverato fra le sue file, infatti, i più rappresentativi protagonisti della musica leggera, voci di canzonette e canzone d’autore che hanno fatto storia tra festival e jukebox: Gianni Morandi, Paolo Conte, Rita Pavone, Edoardo Vianello, Patty Pravo, Gino Paoli, Ron, Francesco De Gregori, Mal, Riccardo Cocciante, Luca Carboni, Shel Shapiro, Gianna Nannini, Nico Fidenco, Mario Lavezzi, Tosca, Fiorella Mannoia.
Sarà un modo come un’altro per ritornare con la memoria al passato prossimo, agli anni dell’adolescenza e della gioventù , con una colonna sonora emozionale ed evocativa, le canzonette dei festival e delle “canzonissime” televisive. Era il tempo in cui si ascoltava alla radio la hit parade di Lelio Luttazzi (se non mi sbaglio il venerdì), il sabato sera televisivo era dedicato al varietà con presentatori e ospiti di successo: Enrico Simonetti, Mina, la Carrà, Loretta Goggi, Panelli hanno dato vita a trasmissioni passate, a buon diritto, nella memoria collettiva: Studio Uno, Senza Rete, le varie edizioni di Canzonissima, i Festival di Sanremo in inverno e “Un disco per l’estate” appunto in estate.
La domenica poi la storia continuava al cinema, con i film che oggi con un certo sussiego sono stati definiti “musicarelli”, ma che per noi tutti erano “film ‘e cantanti”. Si trattava di un genere abbastanza in voga: quando un pezzo raggiungeva il grande successo, poco dopo veniva girato un film con lo stesso titolo, che per protagonista aveva in genere l’interprete del brano musicale, in coppia con una starlet del momento, in quanto le trame raccontavano sempre storie d’amore abbastanza scontate (amori contrastati, amori finiti, ecc.), il tradimento non era contemplato neppure da lontano, data la “prouderie” del periodo. Quelle domeniche al Cinema Moderno o all’Arena Gloria, ambedue del Barone Sanniti, la platea era subito piena: ragazzi, ragazze, famiglie intere accorrevano attirati da quel genere musical/cinematografico che tanto successo destava un po’ dappertutto, quasi sempre in tali occasioni il film veniva replicato nelle ore serali. Nei bar suonavano i juke box, una canzone cinquanta lire, tre cento lire.
Il disco, piccolo a 45 giri, quello in vinile, per intenderci, era comunque il protagonista, e per suonarlo una “fonovaligia” o un mangiadischi; due i brani, quello di successo sul lato A, quello secondario sul B, anche se non mancano casi in cui il brano accessorio finiva con il riscuotere un successo ancora maggiore, soprattutto fra ascoltatori dal “palato fine”. Con tale attrezzatura da poche lire si poteva ascoltare la musica oppure, volendo, anche ballare.
Roba diversa quella di oggi: al posto dei vinili CD in grado di contenere decine di brani, e per riprodurre fantascientifici impianti Hi-Fi con centinaia e centinaia di Watt di potenza, un suono pulito, privo di fruscii ed assolutamente fedele, ma diciamolo: freddo e privo di qualsiasi poesia.
La nota casa discografica ha annoverato fra le sue file, infatti, i più rappresentativi protagonisti della musica leggera, voci di canzonette e canzone d’autore che hanno fatto storia tra festival e jukebox: Gianni Morandi, Paolo Conte, Rita Pavone, Edoardo Vianello, Patty Pravo, Gino Paoli, Ron, Francesco De Gregori, Mal, Riccardo Cocciante, Luca Carboni, Shel Shapiro, Gianna Nannini, Nico Fidenco, Mario Lavezzi, Tosca, Fiorella Mannoia.
Sarà un modo come un’altro per ritornare con la memoria al passato prossimo, agli anni dell’adolescenza e della gioventù , con una colonna sonora emozionale ed evocativa, le canzonette dei festival e delle “canzonissime” televisive. Era il tempo in cui si ascoltava alla radio la hit parade di Lelio Luttazzi (se non mi sbaglio il venerdì), il sabato sera televisivo era dedicato al varietà con presentatori e ospiti di successo: Enrico Simonetti, Mina, la Carrà, Loretta Goggi, Panelli hanno dato vita a trasmissioni passate, a buon diritto, nella memoria collettiva: Studio Uno, Senza Rete, le varie edizioni di Canzonissima, i Festival di Sanremo in inverno e “Un disco per l’estate” appunto in estate.
La domenica poi la storia continuava al cinema, con i film che oggi con un certo sussiego sono stati definiti “musicarelli”, ma che per noi tutti erano “film ‘e cantanti”. Si trattava di un genere abbastanza in voga: quando un pezzo raggiungeva il grande successo, poco dopo veniva girato un film con lo stesso titolo, che per protagonista aveva in genere l’interprete del brano musicale, in coppia con una starlet del momento, in quanto le trame raccontavano sempre storie d’amore abbastanza scontate (amori contrastati, amori finiti, ecc.), il tradimento non era contemplato neppure da lontano, data la “prouderie” del periodo. Quelle domeniche al Cinema Moderno o all’Arena Gloria, ambedue del Barone Sanniti, la platea era subito piena: ragazzi, ragazze, famiglie intere accorrevano attirati da quel genere musical/cinematografico che tanto successo destava un po’ dappertutto, quasi sempre in tali occasioni il film veniva replicato nelle ore serali. Nei bar suonavano i juke box, una canzone cinquanta lire, tre cento lire.
Il disco, piccolo a 45 giri, quello in vinile, per intenderci, era comunque il protagonista, e per suonarlo una “fonovaligia” o un mangiadischi; due i brani, quello di successo sul lato A, quello secondario sul B, anche se non mancano casi in cui il brano accessorio finiva con il riscuotere un successo ancora maggiore, soprattutto fra ascoltatori dal “palato fine”. Con tale attrezzatura da poche lire si poteva ascoltare la musica oppure, volendo, anche ballare.
Roba diversa quella di oggi: al posto dei vinili CD in grado di contenere decine di brani, e per riprodurre fantascientifici impianti Hi-Fi con centinaia e centinaia di Watt di potenza, un suono pulito, privo di fruscii ed assolutamente fedele, ma diciamolo: freddo e privo di qualsiasi poesia.
domenica 22 novembre 2015
EFFETTI COLLATERALI
E’ proprio vero!.. è venuto il momento di reagire, è questo il momento di riaffermare la positività della nostra civiltà occidentale, a volte un po’ sbiadita e senz’anima; è questo il momento di gridare con orgoglio che essa nel tempo ha prodotto progresso sociale ed economico, innalzamento culturale, emancipazione delle fasce più deboli, democrazia!
Il folle fondamentalismo islamico si è macchiato della “mattanza” di Parigi di venerdì scorso e, accanto alla pietà diffusa, ha scatenato, come effetto collaterale, una catena senza fine, sui principali media, sulla carta stampata, ma specialmente sui social networks fatta di riaffermazioni, a volte – diciamolo - un po’ trite. Tra queste le più frequenti: “si al crocifisso nelle aule scolastiche”, “si al presepe”. Condivido senza riserve, è d’altronde veramente difficile, da parte nostra, non essere d’accordo.
Ma poi, a sangue freddo i dubbi e le perplessità cominciano a montare; ed allora viene da chiedersi: quanti di costoro, che in coro a volte un po’ stonato, si ostinano a ripetere “si al crocifisso nelle aule scolastiche”, “si al presepe”, conoscono e condividono i valori che stanno ad indicare un crocifisso appeso alla parete? … quanti amano il presepe per il simbolico messaggio di amore insito in esso? Non sarà che in tal modo questi due simboli siano stati un po’ sviliti nel loro significato più autentico, solo allo scopo di ridare smalto ad un sistema un po’ sbiadito?
La croce di Cristo, trascinata a stento sul Calvario, è la stessa, per dimensioni, natura e destino, di quella dei due famigerati ladroni crocifissi con lui, racchiude sofferenza estrema e morte; essa sta inequivocabilmente ad indicare la catarsi a cui deve, per forza di cose, sottostare il genere umano se non si vuole perdere.
Il presepe parla di un bambino nato in una povera stamberga, perché il papà e la mamma (oggi sarebbero stati definiti barboni o homeless) non disponevano neppure di quel poco sufficiente per una notte e un parto in un misero alberghetto; ci tramanda di pastori svegliati nella notte che in un moto di solidarietà recano piccoli doni al bambino per alleviarne il freddo; ci racconta di tre sapienti, qualcuno di essi era anche di pelle nera, che viaggiano per mesi (forse per anni) seguendo una stella, da oriente verso occidente. Quanta similitudine con i viaggi della speranza, dal sud al nord del mondo, dall’oriente dilaniato dalla guerra all’occidente opulento e (solo in apparenza) pacifico!
Il folle fondamentalismo islamico si è macchiato della “mattanza” di Parigi di venerdì scorso e, accanto alla pietà diffusa, ha scatenato, come effetto collaterale, una catena senza fine, sui principali media, sulla carta stampata, ma specialmente sui social networks fatta di riaffermazioni, a volte – diciamolo - un po’ trite. Tra queste le più frequenti: “si al crocifisso nelle aule scolastiche”, “si al presepe”. Condivido senza riserve, è d’altronde veramente difficile, da parte nostra, non essere d’accordo.
Ma poi, a sangue freddo i dubbi e le perplessità cominciano a montare; ed allora viene da chiedersi: quanti di costoro, che in coro a volte un po’ stonato, si ostinano a ripetere “si al crocifisso nelle aule scolastiche”, “si al presepe”, conoscono e condividono i valori che stanno ad indicare un crocifisso appeso alla parete? … quanti amano il presepe per il simbolico messaggio di amore insito in esso? Non sarà che in tal modo questi due simboli siano stati un po’ sviliti nel loro significato più autentico, solo allo scopo di ridare smalto ad un sistema un po’ sbiadito?
La croce di Cristo, trascinata a stento sul Calvario, è la stessa, per dimensioni, natura e destino, di quella dei due famigerati ladroni crocifissi con lui, racchiude sofferenza estrema e morte; essa sta inequivocabilmente ad indicare la catarsi a cui deve, per forza di cose, sottostare il genere umano se non si vuole perdere.
Il presepe parla di un bambino nato in una povera stamberga, perché il papà e la mamma (oggi sarebbero stati definiti barboni o homeless) non disponevano neppure di quel poco sufficiente per una notte e un parto in un misero alberghetto; ci tramanda di pastori svegliati nella notte che in un moto di solidarietà recano piccoli doni al bambino per alleviarne il freddo; ci racconta di tre sapienti, qualcuno di essi era anche di pelle nera, che viaggiano per mesi (forse per anni) seguendo una stella, da oriente verso occidente. Quanta similitudine con i viaggi della speranza, dal sud al nord del mondo, dall’oriente dilaniato dalla guerra all’occidente opulento e (solo in apparenza) pacifico!
venerdì 13 novembre 2015
DAVANTI A UN FALLIMENTO
E’ veramente difficile in questi momenti pensare, agire, parlare e scrivere di ciò che sta accadendo. Il primo pensiero va alle vittime degli attentati, alle loro famiglie e a quanti si sono separati per sempre da queste vite innocenti.
Non è certamente compito di un “blogger scribacchiante” come il sottoscritto, analizzare ciò che sta accadendo sulla sponda nord e sulla quella sud del mediterraneo: un intero bacino comprendente decine e decine di paesi e ben tre continenti, ormai in perenne allarme per guerre guerregiate, guerriglie e atti di terrorismo vari, ma il sangue versato e lo stato di inquietudine generale impongono anche a chi scrive di esprimere con chiarezza le proprie idee in merito .
Purtroppo agli episodi accaduti ieri in Parigi, si deve apporre un aggettivo “ennesimi” a cui nessuno sarebbe voluto giungere. La degenerazione della cosiddetta “guerra santa”, combattuta da vari gruppi estremisti islamici, riempie le cronache purtroppo con cadenza quotidiana. Essa non è altro che il frutto della destabilizzazione di un’area, già di per se ribollente, sulla quale i paesi occidentali si sono innestati, essendone dapprima consapevoli spettatori ben informati dei fatti, dopo protagonisti e quindi vittime. Gli enormi interessi in gioco hanno indotto l’abbattimento di regimi duri e sanguinari, nei quali il diritto era assente ma hanno, al contempo, concesso spazio di manovra a gruppuscoli, dapprima isolati, che si sono man mano organizzati in modo sempre più terribilmente efficiente, fino a giungere a ciò a cui stiamo assistendo.
Riacquistare il controllo pieno delle aree petrolifere, tenere alto il prezzo del petrolio, questo il vero obiettivo, mai dichiarato, delle “campagne di liberazione”, gestite dalle cancellerie occidentali. E adesso? Il controllo sui giacimenti è oggi più che mai lontano, il greggio viene venduto a prezzi stracciati e in più come effetti collaterali abbiamo da una parte un terrorismo islamico sempre più agguerrito, audace ed efficace, dall’altra centinaia di migliaia di profughi innocenti che bussano alle nostre porte in cerca di asilo per se e le proprie famiglie.
Davanti al fallimento completo di una politica estera fortemente condizionata dalle lobbies petrolifere, non possiamo che constatare tale situazione caotica che, per essere riassestata, ha bisogno di decenni.
Liberarsi dalla schiavitù dei combustibili fossili (petrolio e gas naturali) come fonte primaria di energia nei paesi industrializzati, diventa sempre più urgente. Già nel settembre 2002 (13 anni fa!!!) con l’uscita in libreria del best seller di Jeremy Rifkin “Economia all'idrogeno”, furono azzardate varie previsioni sullo scenario che stiamo vivendo e che, purtroppo, si sono rivelate quanto mai profetiche; le strade che conducono all’affrancamento dal petrolio, senza rinunciare a quei minimi a cui la civiltà occidentale ci ha abituato, sono svariate: energie rinnovabili, uso dell’idrogeno, ritorno alla ricerca sul “nucleare pulito”. Tutto ciò indurrebbe nel contempo ad un interesse internazionale sempre minore su quelle aree dove il petrolio si produce e sulle popolazioni che vi vivono; e i gruppi terroristici che si finanziano commerciando petrolio sul mercato nero avrebbero sempre meno risorse da dedicare alle guerre “sante” che combattono. Pensiamoci.
Non è certamente compito di un “blogger scribacchiante” come il sottoscritto, analizzare ciò che sta accadendo sulla sponda nord e sulla quella sud del mediterraneo: un intero bacino comprendente decine e decine di paesi e ben tre continenti, ormai in perenne allarme per guerre guerregiate, guerriglie e atti di terrorismo vari, ma il sangue versato e lo stato di inquietudine generale impongono anche a chi scrive di esprimere con chiarezza le proprie idee in merito .
Purtroppo agli episodi accaduti ieri in Parigi, si deve apporre un aggettivo “ennesimi” a cui nessuno sarebbe voluto giungere. La degenerazione della cosiddetta “guerra santa”, combattuta da vari gruppi estremisti islamici, riempie le cronache purtroppo con cadenza quotidiana. Essa non è altro che il frutto della destabilizzazione di un’area, già di per se ribollente, sulla quale i paesi occidentali si sono innestati, essendone dapprima consapevoli spettatori ben informati dei fatti, dopo protagonisti e quindi vittime. Gli enormi interessi in gioco hanno indotto l’abbattimento di regimi duri e sanguinari, nei quali il diritto era assente ma hanno, al contempo, concesso spazio di manovra a gruppuscoli, dapprima isolati, che si sono man mano organizzati in modo sempre più terribilmente efficiente, fino a giungere a ciò a cui stiamo assistendo.
Riacquistare il controllo pieno delle aree petrolifere, tenere alto il prezzo del petrolio, questo il vero obiettivo, mai dichiarato, delle “campagne di liberazione”, gestite dalle cancellerie occidentali. E adesso? Il controllo sui giacimenti è oggi più che mai lontano, il greggio viene venduto a prezzi stracciati e in più come effetti collaterali abbiamo da una parte un terrorismo islamico sempre più agguerrito, audace ed efficace, dall’altra centinaia di migliaia di profughi innocenti che bussano alle nostre porte in cerca di asilo per se e le proprie famiglie.
Davanti al fallimento completo di una politica estera fortemente condizionata dalle lobbies petrolifere, non possiamo che constatare tale situazione caotica che, per essere riassestata, ha bisogno di decenni.
Liberarsi dalla schiavitù dei combustibili fossili (petrolio e gas naturali) come fonte primaria di energia nei paesi industrializzati, diventa sempre più urgente. Già nel settembre 2002 (13 anni fa!!!) con l’uscita in libreria del best seller di Jeremy Rifkin “Economia all'idrogeno”, furono azzardate varie previsioni sullo scenario che stiamo vivendo e che, purtroppo, si sono rivelate quanto mai profetiche; le strade che conducono all’affrancamento dal petrolio, senza rinunciare a quei minimi a cui la civiltà occidentale ci ha abituato, sono svariate: energie rinnovabili, uso dell’idrogeno, ritorno alla ricerca sul “nucleare pulito”. Tutto ciò indurrebbe nel contempo ad un interesse internazionale sempre minore su quelle aree dove il petrolio si produce e sulle popolazioni che vi vivono; e i gruppi terroristici che si finanziano commerciando petrolio sul mercato nero avrebbero sempre meno risorse da dedicare alle guerre “sante” che combattono. Pensiamoci.
sabato 7 novembre 2015
DONI INASPETTATI
Il tardo autunno ci sta regalando uno sprazzo di “quasi estate”; dopo le abbondanti piogge la terra è tornata asciutta grazie alle temperature elevate, le mattine sono nebbiose si, ma dopo, a nebbia diradata, il paesaggio rurale si rallegra per un ricco ornamento di raggi solari. I colori dell’autunno, vivi in settembre ed ottobre, sono ormai spenti e gli alberi sono quasi del tutto privi di fogliame. In campagna è tutto un andirivieni di uomini e mezzi che si danno da fare per completare le semine, perché questa pausa calda e soleggiata potrebbe finire da un momento all’altro. Chi le ha… raccoglie le olive, chi no, come il sottoscritto, non si perde d’animo e pensa ad organizzarsi per l’anno prossimo.
Chi, solo dieci giorni fa, avrebbe immaginato tanto splendore? Ricordate: piogge che hanno prodotto danni ed eventi luttuosi a pochi passi da noi, sembrava proprio che il tempo fosse orientato all’inverno senza alcun tipo di indugio o ripensamento, ed invece… qualcuno, facendo bene, oggi approfittando del sabato, va addirittura al mare.
Sono doni inaspettati che la natura concede, e di cui dobbiamo essere grati: manca poco più di un mese e mezzo e saremo nel pieno del periodo natalizio. Per la verità io non sono affatto contento: le festività imminenti comporteranno spostamenti, spese, a volte malumori. Il freddo si farà sentire e le giornate particolarmente corte non predisporranno lo spirito ad essere allegro ma… così è la vita! Non lamentiamoci, via.
Chi, solo dieci giorni fa, avrebbe immaginato tanto splendore? Ricordate: piogge che hanno prodotto danni ed eventi luttuosi a pochi passi da noi, sembrava proprio che il tempo fosse orientato all’inverno senza alcun tipo di indugio o ripensamento, ed invece… qualcuno, facendo bene, oggi approfittando del sabato, va addirittura al mare.
Sono doni inaspettati che la natura concede, e di cui dobbiamo essere grati: manca poco più di un mese e mezzo e saremo nel pieno del periodo natalizio. Per la verità io non sono affatto contento: le festività imminenti comporteranno spostamenti, spese, a volte malumori. Il freddo si farà sentire e le giornate particolarmente corte non predisporranno lo spirito ad essere allegro ma… così è la vita! Non lamentiamoci, via.
domenica 1 novembre 2015
I MORTI
Ogn'anno, il due novembre, c'è l'usanza
per i defunti andare al Cimitero.
Ognuno ll'adda fa' chesta crianza;
ognuno adda tené chistu penziero
L’ incipit della celeberrima “livella” decurtisiana , introduce al tema del giorno: il culto dei defunti. A dire il vero da bambino io questa ricorrenza l’ho vissuta più come una festa, nel senso stretto della parola, che come un’occasione per il ricordo ed il rimpianto. Vedere tanta gente nel cimitero aggirarsi fra i vialetti mi riempiva d’allegria. E tale clima festoso era percepito come tale non solo dal sottoscritto ma anche da tante altre persone; il tutto accompagnato dal fatto che il tempo meteorologico in genere in questi giorni ha offerto giornate limpide e soleggiate. La gente venuta da fuori a far visita al cimitero incontrava parenti e amici che non vedeva, semmai, da anni e la gioia nel salutarsi ed abbracciarsi dopo un lungo periodo di lontananza era evidente anche da lontano.
Il tutto è cominciato a cambiare da quando quelle tombe, tra le quali mi aggiravo allegro e spensierato, hanno cominciato ad accogliere le persone che avevo amato, nonni prima, genitori poi. Uso frequentare il cimitero in ogni periodo dell’anno, anche quando il tempo è freddo o pioviggina, nel trascorrere della domenica o di qualunque altro giorno festivo per me è una tappa obbligata, dalla quale mi sottraggo raramente. Pertanto in questi primi giorni di novembre mi reco si al cimitero, ma lo faccio quasi per consolidare una tradizione ancora viva. I sentimenti e le emozioni dell’infanzia sono oggi mutati se non opposti, e mi viene da chiedere, a volte, cosa ci fa tanta gente nel nostro cimitero, quale sia l’utilità di queste visite. Cosa cercano donne e uomini affardellati di ceri e fiori pagati a peso d’oro. Il culto dei morti, secondo il mio modo di vedere, impone una visita raccolta, e il raccoglimento è favorito dal silenzio, cosa che manca assolutamente in questi giorni. Ed allora…
A egregie cose il forte animo accendono
l'urne de' forti, o Pindemonte; e bella
e santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta
Va cercato, forse in tali versi foscoliani la risposta al mio interrogativo? Una visita, seppure fugace e poco raccolta, al cimitero in questi giorni potrebbe in qualche modo migliorare chi la fa, nel ricordo della condotta di vita di un parente o di un amico ormai scomparso. Le “urne dei forti” d’altronde sono un po’ dovunque, nei grandi cimiteri monumentali delle metropoli, come in quelli dei piccoli paesi di campagna; donne e uomini, a volte senza alcuna fama, che dormono ed il cui esempio tuttavia ha costituito e costituisce ancora un paradigma di vita per tanti di noi che restiamo. E tali urne, tra l’altro, hanno il merito di fare “bella e santa” la terra che le accoglie al “peregrin”, poco importa se costui al cimitero ci viene, si o no, una volta l’anno.
per i defunti andare al Cimitero.
Ognuno ll'adda fa' chesta crianza;
ognuno adda tené chistu penziero
L’ incipit della celeberrima “livella” decurtisiana , introduce al tema del giorno: il culto dei defunti. A dire il vero da bambino io questa ricorrenza l’ho vissuta più come una festa, nel senso stretto della parola, che come un’occasione per il ricordo ed il rimpianto. Vedere tanta gente nel cimitero aggirarsi fra i vialetti mi riempiva d’allegria. E tale clima festoso era percepito come tale non solo dal sottoscritto ma anche da tante altre persone; il tutto accompagnato dal fatto che il tempo meteorologico in genere in questi giorni ha offerto giornate limpide e soleggiate. La gente venuta da fuori a far visita al cimitero incontrava parenti e amici che non vedeva, semmai, da anni e la gioia nel salutarsi ed abbracciarsi dopo un lungo periodo di lontananza era evidente anche da lontano.
Il tutto è cominciato a cambiare da quando quelle tombe, tra le quali mi aggiravo allegro e spensierato, hanno cominciato ad accogliere le persone che avevo amato, nonni prima, genitori poi. Uso frequentare il cimitero in ogni periodo dell’anno, anche quando il tempo è freddo o pioviggina, nel trascorrere della domenica o di qualunque altro giorno festivo per me è una tappa obbligata, dalla quale mi sottraggo raramente. Pertanto in questi primi giorni di novembre mi reco si al cimitero, ma lo faccio quasi per consolidare una tradizione ancora viva. I sentimenti e le emozioni dell’infanzia sono oggi mutati se non opposti, e mi viene da chiedere, a volte, cosa ci fa tanta gente nel nostro cimitero, quale sia l’utilità di queste visite. Cosa cercano donne e uomini affardellati di ceri e fiori pagati a peso d’oro. Il culto dei morti, secondo il mio modo di vedere, impone una visita raccolta, e il raccoglimento è favorito dal silenzio, cosa che manca assolutamente in questi giorni. Ed allora…
A egregie cose il forte animo accendono
l'urne de' forti, o Pindemonte; e bella
e santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta
Va cercato, forse in tali versi foscoliani la risposta al mio interrogativo? Una visita, seppure fugace e poco raccolta, al cimitero in questi giorni potrebbe in qualche modo migliorare chi la fa, nel ricordo della condotta di vita di un parente o di un amico ormai scomparso. Le “urne dei forti” d’altronde sono un po’ dovunque, nei grandi cimiteri monumentali delle metropoli, come in quelli dei piccoli paesi di campagna; donne e uomini, a volte senza alcuna fama, che dormono ed il cui esempio tuttavia ha costituito e costituisce ancora un paradigma di vita per tanti di noi che restiamo. E tali urne, tra l’altro, hanno il merito di fare “bella e santa” la terra che le accoglie al “peregrin”, poco importa se costui al cimitero ci viene, si o no, una volta l’anno.
lunedì 26 ottobre 2015
IL RISCHIO IN UNA TRADIZIONE
Ci risiamo: l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) di Lione, che fa parte della Organizzazione mondiale della Sanità (OMS), ha inserito le carni rosse e lavorate fra le sostanze che possono causare il cancro negli uomini. Secondo un‘autorevole rivista medica il team IARC ha deciso di catalogare fra i cancerogeni certi «sulla base di sufficienti evidenze che le legano al tumore del colon, le carni rosse lavorate, ovvero quelle salate, essiccate, fermentate, affumicate, trattate con conservanti per migliorarne il sapore o la conservazione. Inoltre un legame è stato individuato anche con il tumore allo stomaco».
Ci risiamo perché non è la prima volta che prodotti tipici della nostra tradizione enogastronomica più autentica vengono presi di mira da questi “oracoli della salute”; il riferimento alle carni lavorate (salate, essiccate, fermentate, affumicate, trattate) va a colpire nello specifico il nostro insaccato di riferimento: la salsiccia. Essa è un alimento che ci parla di cultura contadina, di civiltà antica, di consumi che forse erano già praticati nell’età delle caverne, di una tecnologia di conservazione che ha avuto modo di affinarsi nei secoli, fino a giungere ai giorni nostri consegnandoci una vera e propria delizia per il palato. Una vera e propria “identità golosa”.
Ma vi pare che in tanto tempo l’uomo che si è cibato di tale delizia non abbia avuto il modo di rendersi conto, anche in base ad un ragionamento puramente empirico, della pericolosità legata a quel particolare consumo, se questa fosse stata reale? Se facciamo solo per un attimo mente locale a tutti coloro, nostri avi e progenitori, che hanno consumato salsicce e soppressate, in base alle conclusioni dello studio appena citato ci dovremmo trovare di fronte a intere generazioni di uomini affetti da cancri allo stomaco e all’intestino. Che dire poi di quanti fra noi ancora oggi (compreso il sottoscritto) continuano a cibarsene e non hanno la benché minima intenzione di smettere?
L’interesse delle multinazionali dell’agroalimentare è, suvvia, fin troppo evidente!... si vuole colpire quel ciclo virtuoso fatto di bellezze naturali, tradizioni enogastronomiche e monumenti che hanno, tra l’altro, determinato il successo planetario dell’Expo di Milano, che fra qualche giorno chiuderà i battenti. Tale connubio di fattori di sviluppo è possibile in questa misura, si badi bene, solo in Italia e pertanto la concorrenza europea ed internazionale non fa altro che escogitare mezzi e mezzucci per stemperarne la positività.
Diverso ed opposto il sistema alimentare basato sul modello del “International Food”, tanto caro al mondo anglosassone: alimenti senza carattere ne specificità, che soddisfano nell’uomo il solo fabbisogno nutrizionale, ma non concedono alcun tipo di gratificazione ed emozione.
Gi stessi esperti IARC che hanno inserito le carni rosse e lavorate fra le sostanze che possono causare il cancro negli uomini, d’altronde, invitano alla moderazione , e spiega Carmine Pinto, presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica: «È necessario capire quali sono i reali margini di rischio e sapere non solo in che lista si trova una certa sostanza, ma anche quali sono i dosaggi e la durata d’esposizione oltre le quali il rischio diventa reale e non solo teorico». Dunque, niente allarmismo. « Gli studi sugli insaccati hanno indotto gli esperti a collocarli nel gruppo più a rischio perché se ne è appurata la cancerogenicità, soprattutto per via di nitrati e nitriti, i conservanti che vengono utilizzati». Ma va detto, avverte l’oncologo, «che si tratta in gran parte di studi vecchi, oggi si usano molto meno questi conservanti tossici»; ed inoltre che nitriti e nitrati sono additivi tipici dell’industria salumiera “su grande scala”, di cui il piccolo e medio produttore delle nostre parti non ha mai fatto uso.
La nostra alimentazione mediterranea, basata sull’impiego equilibrato di alimenti di origine vegetale ed animale, nella quale trovano giusto posto anche gli insaccati, si dimostra sempre più come modello da esportare.
Ci risiamo perché non è la prima volta che prodotti tipici della nostra tradizione enogastronomica più autentica vengono presi di mira da questi “oracoli della salute”; il riferimento alle carni lavorate (salate, essiccate, fermentate, affumicate, trattate) va a colpire nello specifico il nostro insaccato di riferimento: la salsiccia. Essa è un alimento che ci parla di cultura contadina, di civiltà antica, di consumi che forse erano già praticati nell’età delle caverne, di una tecnologia di conservazione che ha avuto modo di affinarsi nei secoli, fino a giungere ai giorni nostri consegnandoci una vera e propria delizia per il palato. Una vera e propria “identità golosa”.
Ma vi pare che in tanto tempo l’uomo che si è cibato di tale delizia non abbia avuto il modo di rendersi conto, anche in base ad un ragionamento puramente empirico, della pericolosità legata a quel particolare consumo, se questa fosse stata reale? Se facciamo solo per un attimo mente locale a tutti coloro, nostri avi e progenitori, che hanno consumato salsicce e soppressate, in base alle conclusioni dello studio appena citato ci dovremmo trovare di fronte a intere generazioni di uomini affetti da cancri allo stomaco e all’intestino. Che dire poi di quanti fra noi ancora oggi (compreso il sottoscritto) continuano a cibarsene e non hanno la benché minima intenzione di smettere?
L’interesse delle multinazionali dell’agroalimentare è, suvvia, fin troppo evidente!... si vuole colpire quel ciclo virtuoso fatto di bellezze naturali, tradizioni enogastronomiche e monumenti che hanno, tra l’altro, determinato il successo planetario dell’Expo di Milano, che fra qualche giorno chiuderà i battenti. Tale connubio di fattori di sviluppo è possibile in questa misura, si badi bene, solo in Italia e pertanto la concorrenza europea ed internazionale non fa altro che escogitare mezzi e mezzucci per stemperarne la positività.
Diverso ed opposto il sistema alimentare basato sul modello del “International Food”, tanto caro al mondo anglosassone: alimenti senza carattere ne specificità, che soddisfano nell’uomo il solo fabbisogno nutrizionale, ma non concedono alcun tipo di gratificazione ed emozione.
Gi stessi esperti IARC che hanno inserito le carni rosse e lavorate fra le sostanze che possono causare il cancro negli uomini, d’altronde, invitano alla moderazione , e spiega Carmine Pinto, presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica: «È necessario capire quali sono i reali margini di rischio e sapere non solo in che lista si trova una certa sostanza, ma anche quali sono i dosaggi e la durata d’esposizione oltre le quali il rischio diventa reale e non solo teorico». Dunque, niente allarmismo. « Gli studi sugli insaccati hanno indotto gli esperti a collocarli nel gruppo più a rischio perché se ne è appurata la cancerogenicità, soprattutto per via di nitrati e nitriti, i conservanti che vengono utilizzati». Ma va detto, avverte l’oncologo, «che si tratta in gran parte di studi vecchi, oggi si usano molto meno questi conservanti tossici»; ed inoltre che nitriti e nitrati sono additivi tipici dell’industria salumiera “su grande scala”, di cui il piccolo e medio produttore delle nostre parti non ha mai fatto uso.
La nostra alimentazione mediterranea, basata sull’impiego equilibrato di alimenti di origine vegetale ed animale, nella quale trovano giusto posto anche gli insaccati, si dimostra sempre più come modello da esportare.
sabato 17 ottobre 2015
CANTINE AL BORGO: MOLTE LUCI E POCHE OMBRE
Complimenti!... c’è poco altro da dire. La creatura è cresciuta e pare che sia ormai matura. Lo sforzo mediatico destinato a far conoscere all’intera provincia (e oltre) l’evento denominato “Le Cantine del Borgo" è stato coronato da un successo pieno. C’è da dire che neppure lo sforzo fisico è stato “da meno”; l’evento in preparazione da mesi è costato ore e ore di fatica tra pulizie, restauri e allestimenti: si consideri che lo stato di manutenzione del nostro borgo “ordinariamente” lascia un po’ a desiderare, quindi renderlo nella veste in cui l’abbiamo ammirato non è cosa da poco.
Cantine al Borgo, nata da un’idea dell’ Associazione “I Giovani Crescono” di Pietramelara, coordinata dal dinamico Gianluca Spiniello, ha iniziato il suo cammino qualche anno fa: si tratta di una kermesse dedicata al vino di qualità, inserita in una cornice di rara suggestione qual è il nostro borgo millenario. Le mescite e le cucine sono state collocate in locali popolari, o in qualche“cellaro”, oppure ancora in qualche cantina di palazzi nobiliari. Preparata con cura anche la cultura “enologica” di ragazze e ragazzi che accoglievano gli “enoappassionati” giunti da ogni dove.
Oltre al vino sono state offerte pietanze e piatti tipici, tratti dalla cultura contadina del paese: cavati, carne saucicciara, zuffritto, pesce fritto servito nel cuoppo, ed altro. Per usare un’espressione alla moda si è trattato di un vero e proprio trionfo dello “street food”, rivisitato in chiave rurale.
A latere momenti di intrattenimento con il gruppo della nostra Adele Bassi, da anni impegnata nel recupero di tradizioni artistiche popolari, con Antonello Musto, cantautore emergente cresciuto fra di noi,e con un raffinato gruppo partenopeo che si è esibito nella celebrata “pusteggia”, offrendo melodie classiche accompagnate da chitarre e mandolini. Da ricordare anche la interessante e bella performance artistica del pittore locale Carmelo Mitrano, insieme alle visite guidate al borgo portate avanti dalla “Work in progress - Pietramelara", guidata da Giovanni Zarone.
Critiche? … ci sono anche quelle! … soprattutto l’aver ancora una volta dimenticato di inserire un angolo dedicato alla viticoltura pietramelarese, a coloro che ancora per passione o anche per tradizione familiare continuano a farsi il vino in casa. Non sarebbe assolutamente stato fuori luogo un angolo dedicato a loro, e di sicuro avrebbe potuto indurre anche un miglioramento della qualità dei vini prodotti. Spero proprio che il mio messaggio giunga a chi di dovere.
Tuttavia, in conclusione un invito, il mio, a partecipare stasera a questa bella festa, per godere dei piaceri di Bacco e dalla tavola e per ammirare il nostro Borgo, prezioso scrigno di bellezze e suggestioni.
Cantine al Borgo, nata da un’idea dell’ Associazione “I Giovani Crescono” di Pietramelara, coordinata dal dinamico Gianluca Spiniello, ha iniziato il suo cammino qualche anno fa: si tratta di una kermesse dedicata al vino di qualità, inserita in una cornice di rara suggestione qual è il nostro borgo millenario. Le mescite e le cucine sono state collocate in locali popolari, o in qualche“cellaro”, oppure ancora in qualche cantina di palazzi nobiliari. Preparata con cura anche la cultura “enologica” di ragazze e ragazzi che accoglievano gli “enoappassionati” giunti da ogni dove.
Oltre al vino sono state offerte pietanze e piatti tipici, tratti dalla cultura contadina del paese: cavati, carne saucicciara, zuffritto, pesce fritto servito nel cuoppo, ed altro. Per usare un’espressione alla moda si è trattato di un vero e proprio trionfo dello “street food”, rivisitato in chiave rurale.
A latere momenti di intrattenimento con il gruppo della nostra Adele Bassi, da anni impegnata nel recupero di tradizioni artistiche popolari, con Antonello Musto, cantautore emergente cresciuto fra di noi,e con un raffinato gruppo partenopeo che si è esibito nella celebrata “pusteggia”, offrendo melodie classiche accompagnate da chitarre e mandolini. Da ricordare anche la interessante e bella performance artistica del pittore locale Carmelo Mitrano, insieme alle visite guidate al borgo portate avanti dalla “Work in progress - Pietramelara", guidata da Giovanni Zarone.
Critiche? … ci sono anche quelle! … soprattutto l’aver ancora una volta dimenticato di inserire un angolo dedicato alla viticoltura pietramelarese, a coloro che ancora per passione o anche per tradizione familiare continuano a farsi il vino in casa. Non sarebbe assolutamente stato fuori luogo un angolo dedicato a loro, e di sicuro avrebbe potuto indurre anche un miglioramento della qualità dei vini prodotti. Spero proprio che il mio messaggio giunga a chi di dovere.
Tuttavia, in conclusione un invito, il mio, a partecipare stasera a questa bella festa, per godere dei piaceri di Bacco e dalla tavola e per ammirare il nostro Borgo, prezioso scrigno di bellezze e suggestioni.
domenica 4 ottobre 2015
GRAZIE INFINITE
Auguri, auguri, auguri!... Ti arrivano con tutti i mezzi messi a disposizione dalla tecnologia: telefonate (da fisso e da mobile), sms, face book, what’s app e diavolerie simili. Che dire? … sono commosso? … non sapevo di avere tante persone che mi stimavano? Banale!
D’altronde so bene che portare il nome di un grande Santo costituisce una responsabilità di cui tener conto. Però… devo dire la verità, era da poco passata la mezzanotte e già qualcuno si era ricordato di augurarmi buon onomastico, e da allora è un susseguirsi di squilli e avvisatori di messaggi, quasi di fuoco mentre scrivo il mio telefonino, spero di non doverlo cambiare entro stasera! Naturalmente esagero, però sono felice, molto felice di queste attestazioni di affetto e stima.
La torta preparata dal “resto della famiglia”, l’imminente pranzo domenicale, i sorrisi e le strette di mano per strada sono il corollario di un giorno che vorresti non tramontasse mai; eppure domani si ritornerà alla solita vita, quella in cui non sei tu il “ festeggiato”… anzi!
Ma va bene così, questo giorno costituisce una ulteriore tessera nel mosaico che sto componendo ormai da più di mezzo secolo.
D’altronde so bene che portare il nome di un grande Santo costituisce una responsabilità di cui tener conto. Però… devo dire la verità, era da poco passata la mezzanotte e già qualcuno si era ricordato di augurarmi buon onomastico, e da allora è un susseguirsi di squilli e avvisatori di messaggi, quasi di fuoco mentre scrivo il mio telefonino, spero di non doverlo cambiare entro stasera! Naturalmente esagero, però sono felice, molto felice di queste attestazioni di affetto e stima.
La torta preparata dal “resto della famiglia”, l’imminente pranzo domenicale, i sorrisi e le strette di mano per strada sono il corollario di un giorno che vorresti non tramontasse mai; eppure domani si ritornerà alla solita vita, quella in cui non sei tu il “ festeggiato”… anzi!
Ma va bene così, questo giorno costituisce una ulteriore tessera nel mosaico che sto componendo ormai da più di mezzo secolo.
domenica 27 settembre 2015
IL SENTIERO E LA MEMORIA
Succede, immagino, anche a voi: alle volte ripercorriamo luoghi che in gioventù ci sono stati familiari, per lavoro, per studio, diletto o altro e … immediatamente cominciano a scorrere davanti agli occhi le immagini dei ricordi legati a quei luoghi. E’ successo anche stamattina, mentre accompagnavo un gruppo di escursionisti, provenienti da Napoli e Caserta, tra i sentieri del Monte Maggiore, precisamente sul sentiero che dalle “fosse della neve” conduce all’eremo di Santa Maria a Fradejanne, un dislivello di circa 300 metri di quota da colmare in meno di un’ora; pertanto ero impegnato a fare da guida a questi escursionisti nell’ambito delle attività poste in essere da Work in Progress Pietramelara, guidata da Giovanni Zarone; l’evento in particolare era denominato “Passeggiata Naturalistica del Monte Maggiore”, programmato dapprima per la scorsa domenica e rimandato a oggi 27 settembre, causa maltempo.
Dei ricordi che ispirava il posto, dicevo, ed allora mi è tornata alla mente la figura di un giovane agronomo con molti anni e molti chili in meno, in grado di muoversi con rapidità su quegli erti pendii montani con una laurea appena conseguita in tasca, esperienza professionale poco più che nulla, ma con grande voglia di fare, di progredire e di conoscere.
A questo giovane era stato affidato l’incarico di dirigere alcuni cantieri di riforestazione per conto della Comunità Montana del Monte Maggiore, e da allora i boschi, i sentieri le radure erano diventati il suo elemento e anche l’occasione per conoscere il Monte Maggiore metro per metro, albero per albero. Ed è successo che a quel giovane, ormai oggi in età matura, mentre si inerpicava insieme a quei ragazzi che ascoltavano attenti le sue descrizioni sulle tipologie di bosco, sulle specie, sugli habitat, sulla fauna e sulla flora, la macchina del tempo ha cominciato a funzionare. E così sono ricomparse nella memoria vecchie immagini di uomini intenti al lavoro in quei luoghi, del loro caposquadra, il compianto Giovannino, compagno infaticabile di esplorazioni per tracciare stradelli e gradoni, che approfittava dell’isolamento del bosco per parlare con il giovane, che con rispetto chiamava dottore, per metterlo a corrente delle sue cose, per chiedergli consigli, per esporre il proprio parere su questo o quell’altro operaio, e sui rapporti interpersonali che si erano instaurati fra i vari componenti del gruppo di lavoro.
Altri pensieri, altri ricordi, altre immagini, man mano che il cammino procedeva: proprio sul sentiero che stamattina si percorreva fu pensato circa trent’anni fa il nuovo tracciato più breve e agevole che permetteva di raggiungere l’Eremo di Fradejanne senza passare per la località detta “Noccia”, il tutto grazie all’impegno di quel giovane, di quegli operai e del loro caposquadra. La cosa costituì una grossa novità ed innovazione e un gruppo di fedeli pietramelaresi, che faceva capo al buon Peppino Casillo e consorte pensò allora di dotare il sentiero delle quattordici stazioni della Via Crucis e di sistemare la cappellina che si raggiungeva alla fine del sentiero. Alla fine del lavoro il tutto fu inaugurato e riprese vita anche la tradizione di salire a Fradejanne la mattina del primo maggio; il carissimo Don Pasqualino, anche se ormai ampiamente ottuagenario e malfermo nella salute salì a piedi lungo l’intero sentiero, conferendo a quell’atmosfera festosa, grazie alle sue parole, anche una certa spiritualità.
Cose vecchie di un tempo e di una gioventù ormai trascorsa, ma in grado di riemergere alla memoria al minimo stimolo esterno .
Dei ricordi che ispirava il posto, dicevo, ed allora mi è tornata alla mente la figura di un giovane agronomo con molti anni e molti chili in meno, in grado di muoversi con rapidità su quegli erti pendii montani con una laurea appena conseguita in tasca, esperienza professionale poco più che nulla, ma con grande voglia di fare, di progredire e di conoscere.
A questo giovane era stato affidato l’incarico di dirigere alcuni cantieri di riforestazione per conto della Comunità Montana del Monte Maggiore, e da allora i boschi, i sentieri le radure erano diventati il suo elemento e anche l’occasione per conoscere il Monte Maggiore metro per metro, albero per albero. Ed è successo che a quel giovane, ormai oggi in età matura, mentre si inerpicava insieme a quei ragazzi che ascoltavano attenti le sue descrizioni sulle tipologie di bosco, sulle specie, sugli habitat, sulla fauna e sulla flora, la macchina del tempo ha cominciato a funzionare. E così sono ricomparse nella memoria vecchie immagini di uomini intenti al lavoro in quei luoghi, del loro caposquadra, il compianto Giovannino, compagno infaticabile di esplorazioni per tracciare stradelli e gradoni, che approfittava dell’isolamento del bosco per parlare con il giovane, che con rispetto chiamava dottore, per metterlo a corrente delle sue cose, per chiedergli consigli, per esporre il proprio parere su questo o quell’altro operaio, e sui rapporti interpersonali che si erano instaurati fra i vari componenti del gruppo di lavoro.
Altri pensieri, altri ricordi, altre immagini, man mano che il cammino procedeva: proprio sul sentiero che stamattina si percorreva fu pensato circa trent’anni fa il nuovo tracciato più breve e agevole che permetteva di raggiungere l’Eremo di Fradejanne senza passare per la località detta “Noccia”, il tutto grazie all’impegno di quel giovane, di quegli operai e del loro caposquadra. La cosa costituì una grossa novità ed innovazione e un gruppo di fedeli pietramelaresi, che faceva capo al buon Peppino Casillo e consorte pensò allora di dotare il sentiero delle quattordici stazioni della Via Crucis e di sistemare la cappellina che si raggiungeva alla fine del sentiero. Alla fine del lavoro il tutto fu inaugurato e riprese vita anche la tradizione di salire a Fradejanne la mattina del primo maggio; il carissimo Don Pasqualino, anche se ormai ampiamente ottuagenario e malfermo nella salute salì a piedi lungo l’intero sentiero, conferendo a quell’atmosfera festosa, grazie alle sue parole, anche una certa spiritualità.
Cose vecchie di un tempo e di una gioventù ormai trascorsa, ma in grado di riemergere alla memoria al minimo stimolo esterno .
sabato 12 settembre 2015
IL CASTELLO, LA MUSICA E LE EMOZIONI
A due passi da casa un turrito castello, grondante di storia e di secoli, le scuderie di questo, magistralmente riattate a sala convegni e la musica, quella con la emme maiuscola, foriera di piacere nell’ascolto ed emozioni. Parlo di un evento culturale di spessore, quello di ieri sera 11 settembre a Riardo.
Riardo, che da qualche tempo sotto il fronte della cultura sta facendo veramente sul serio, ha ospitato un originale concerto del quartetto “MAC Saxophone Quartet” di cui fa parte un giovane e promettente artista locale, Valentino Funaro; “guest star” della serata il Maestro Federico Mondelci, sassofonista di chiara fama internazionale, il tutto nell’ambito del 4° MAC Saxophone Meeting, una tradizione ormai consolidatasi nel piccolo comune.
Variegato ed eclettico il programma, si è andati dalla rielaborazione per sax di un pezzo di Alessandro Scarlatti, alla musica latino americana, fino a giungere alle melodie composte per il cinema da Ennio Moricone .
L’ospite della serata Federico Mondelci, docente, camerista, solista, è da oltre venti anni uno dei maggiori e più apprezzati interpreti del panorama musicale internazionale. Le sue apparizioni come solista comprendono l’Orchestra del Teatro Alla Scala, la New Zealand Symphony Orchestra, la BBC Philharmonic, la Filarmonica di san Pietroburgo,l’Orchestra da Camera di Mosca, l’Orchestra Sinfonica di Bangkok: un autentico onore ospitarlo, per Riardo e l’intero Alto Casertano.
Il piacere nell’ascolto è stato continuo, costante ed ininterrotto, ma l’emozione degli ascoltatori ha raggiunto il livello massimo quando il Maestro Montelci, concedendo un bis acclamato a gran voce, ha suonato Gabriel's Oboe (dal film The Mission), brano composto da Ennio Moricone, appunto per l’oboe, e riadattato per sax; per coinvolgere maggiormente la platea, il maestro ha suonato, emozionando e emozionandosi, aggirandosi tra il pubblico che lo seguiva passo per passo e nota per nota.
Applausi a iosa e una standig ovation finale hanno concluso una serata a cui ha fatto da cornice un cielo stellato e l’aria cristallina di inizio settembre.
Riardo, che da qualche tempo sotto il fronte della cultura sta facendo veramente sul serio, ha ospitato un originale concerto del quartetto “MAC Saxophone Quartet” di cui fa parte un giovane e promettente artista locale, Valentino Funaro; “guest star” della serata il Maestro Federico Mondelci, sassofonista di chiara fama internazionale, il tutto nell’ambito del 4° MAC Saxophone Meeting, una tradizione ormai consolidatasi nel piccolo comune.
Variegato ed eclettico il programma, si è andati dalla rielaborazione per sax di un pezzo di Alessandro Scarlatti, alla musica latino americana, fino a giungere alle melodie composte per il cinema da Ennio Moricone .
L’ospite della serata Federico Mondelci, docente, camerista, solista, è da oltre venti anni uno dei maggiori e più apprezzati interpreti del panorama musicale internazionale. Le sue apparizioni come solista comprendono l’Orchestra del Teatro Alla Scala, la New Zealand Symphony Orchestra, la BBC Philharmonic, la Filarmonica di san Pietroburgo,l’Orchestra da Camera di Mosca, l’Orchestra Sinfonica di Bangkok: un autentico onore ospitarlo, per Riardo e l’intero Alto Casertano.
Il piacere nell’ascolto è stato continuo, costante ed ininterrotto, ma l’emozione degli ascoltatori ha raggiunto il livello massimo quando il Maestro Montelci, concedendo un bis acclamato a gran voce, ha suonato Gabriel's Oboe (dal film The Mission), brano composto da Ennio Moricone, appunto per l’oboe, e riadattato per sax; per coinvolgere maggiormente la platea, il maestro ha suonato, emozionando e emozionandosi, aggirandosi tra il pubblico che lo seguiva passo per passo e nota per nota.
Applausi a iosa e una standig ovation finale hanno concluso una serata a cui ha fatto da cornice un cielo stellato e l’aria cristallina di inizio settembre.
venerdì 4 settembre 2015
LE VIE FRANCIGENE NEL SUD, UN PONTE TRA ORIENTE ED OCCIDENTE
Le Vie Francigene nel Sud, si perché sono un insieme di strade, uniscono l’Occidente all’Oriente, il cristianesimo al paganesimo, l’Età Antica al Medio Evo. Un itinerario trasversale, tra basolati romani ed antichi tratturi, templi pagani, imponenti cattedrali e santuari cristiani, dolci panorami collinari e aspri passaggi montani.
La nostra Regione mostra grande interesse ad esse in quanto la Via Francigena del Sud – che da Roma porterà i turisti religiosi fino a Brindisi e quindi a Gerusalemme - rappresenta una grande opportunità per lo sviluppo turistico e culturale, con forti ricadute positive sull'artigianato e sul commercio locale, soprattutto delle aree interne della Campania. Il percorso delineato dovrà prevedere un tracciato principale attraverso i territori delle Province di Caserta, Benevento ed Avellino, nonché varianti con tracciati paralleli o subtracciati, che dovranno essere ispirati al criterio del percorso continuo e coerente, al fine di valorizzare i territori e favorirne la fruizione turistica.
Il GAL Consorzio Alto Casertano ha previsto per questo week end che va dal 4 al 6 settembre, l’evento che ha per titolo “Il Cammino dell’Anima”, organizzato dal, in collaborazione con i GAL beneventani Titerno e Taburno. La manifestazione si inserisce nelle Azioni Comuni riferite al Progetto di Cooperazione Interterritoriale “Cammini d’Europa: Rete Europea di Storia, Turismo e Cultura” (PSR 2007-2013 – Misura 421 – Cooperazione), che ha avuto come capofila il GAL Soprip, operante sui territori di Parma e Piacenza. Il Progetto ha avuto come obiettivo principale quello di promuovere ed animare la Via Francigena del Sud, prolungamento della Via Francigena di Sigerico, che da Canterbury arrivava a Roma.
L’iniziativa definita “Cammino dell’Anima”, organizzata dai tre GAL campani –Alto Casertano, Titerno e Taburno- ha come scopo quello di raggiungere, nell’arco di tre giornate, Pietrelcina (BN), città natale di San Pio, considerando come punto di partenza la cattedrale di Alife (CE). Il percorso che ha visto stamattiba un primo momento inaugurativo presso la Cattedrale di Alife, a cui hanno preso parte rappresentanti dei GAL coinvolti, nonchè figure rappresentative del clero e rappresentanti istituzionali legati ai territori coinvolti, e ha mosso alla volta di Faicchio, dopo aver attraversato il territorio di Gioia Sannitica. Durante la mattinata, dopo la distribuzione delle Credenziali alla partenza, a metà percorso si è fatto sosta presso Madonna del Bagno, chiesetta ricadente nel Comune di Gioia Sannitica, presso la quale è stata effettuata una breve pausa pranzo, a cura del GAL Alto Casertano che, in collaborazione con le Pro Loco locali, con l’Unpli Caserta e la Rete d’Imprese del GAL. Il percorso è proseguito poi alla volta di Faicchio, ultima tappa della prima giornata. Durante le giornate successive di sabato e domenica, il Cammino continuerà alla volta di Pietrelcina, attraversando i territori ricadenti nella Provincia di Benevento. Durante questi giorni, verranno organizzati eventi ricreativi e culturali, pomeridiani e serali, che allieteranno la permanenza di quanti saranno intenzionati a percorrere il pellegrinaggio lungo tutte le tappe e, ovviamente, non mancheranno momenti di riflessione e di preghiera che ricorderanno ai partecipanti lo spirito principale del pellegrinaggio lungo questa tappa della Via Francigena del Sud. L’intervento è stato inserito nella Misura 421 del PSL Alto Casertano: Giardino di Terra di Lavoro, realizzato dal GAL Alto Casertano.
Anche il vostro blogger scribacchiante ha partecipato stamattina a questo pellegrinaggio, coprendo la distanza di circa 7 chilometri fra Alife e la sosta pranzo: bella gente, giovani entusiasti, uomini e donne mature, desiderosi di vivere un’esperienza nuova fatta di socialità, attività fisica e, non ultima, di spiritualità. Buon viaggio per i prossimi giorni, cari viandanti/pellegrini, il sole sia tiepido e la pioggia incombente vi risparmi!
La nostra Regione mostra grande interesse ad esse in quanto la Via Francigena del Sud – che da Roma porterà i turisti religiosi fino a Brindisi e quindi a Gerusalemme - rappresenta una grande opportunità per lo sviluppo turistico e culturale, con forti ricadute positive sull'artigianato e sul commercio locale, soprattutto delle aree interne della Campania. Il percorso delineato dovrà prevedere un tracciato principale attraverso i territori delle Province di Caserta, Benevento ed Avellino, nonché varianti con tracciati paralleli o subtracciati, che dovranno essere ispirati al criterio del percorso continuo e coerente, al fine di valorizzare i territori e favorirne la fruizione turistica.
Il GAL Consorzio Alto Casertano ha previsto per questo week end che va dal 4 al 6 settembre, l’evento che ha per titolo “Il Cammino dell’Anima”, organizzato dal, in collaborazione con i GAL beneventani Titerno e Taburno. La manifestazione si inserisce nelle Azioni Comuni riferite al Progetto di Cooperazione Interterritoriale “Cammini d’Europa: Rete Europea di Storia, Turismo e Cultura” (PSR 2007-2013 – Misura 421 – Cooperazione), che ha avuto come capofila il GAL Soprip, operante sui territori di Parma e Piacenza. Il Progetto ha avuto come obiettivo principale quello di promuovere ed animare la Via Francigena del Sud, prolungamento della Via Francigena di Sigerico, che da Canterbury arrivava a Roma.
L’iniziativa definita “Cammino dell’Anima”, organizzata dai tre GAL campani –Alto Casertano, Titerno e Taburno- ha come scopo quello di raggiungere, nell’arco di tre giornate, Pietrelcina (BN), città natale di San Pio, considerando come punto di partenza la cattedrale di Alife (CE). Il percorso che ha visto stamattiba un primo momento inaugurativo presso la Cattedrale di Alife, a cui hanno preso parte rappresentanti dei GAL coinvolti, nonchè figure rappresentative del clero e rappresentanti istituzionali legati ai territori coinvolti, e ha mosso alla volta di Faicchio, dopo aver attraversato il territorio di Gioia Sannitica. Durante la mattinata, dopo la distribuzione delle Credenziali alla partenza, a metà percorso si è fatto sosta presso Madonna del Bagno, chiesetta ricadente nel Comune di Gioia Sannitica, presso la quale è stata effettuata una breve pausa pranzo, a cura del GAL Alto Casertano che, in collaborazione con le Pro Loco locali, con l’Unpli Caserta e la Rete d’Imprese del GAL. Il percorso è proseguito poi alla volta di Faicchio, ultima tappa della prima giornata. Durante le giornate successive di sabato e domenica, il Cammino continuerà alla volta di Pietrelcina, attraversando i territori ricadenti nella Provincia di Benevento. Durante questi giorni, verranno organizzati eventi ricreativi e culturali, pomeridiani e serali, che allieteranno la permanenza di quanti saranno intenzionati a percorrere il pellegrinaggio lungo tutte le tappe e, ovviamente, non mancheranno momenti di riflessione e di preghiera che ricorderanno ai partecipanti lo spirito principale del pellegrinaggio lungo questa tappa della Via Francigena del Sud. L’intervento è stato inserito nella Misura 421 del PSL Alto Casertano: Giardino di Terra di Lavoro, realizzato dal GAL Alto Casertano.
Anche il vostro blogger scribacchiante ha partecipato stamattina a questo pellegrinaggio, coprendo la distanza di circa 7 chilometri fra Alife e la sosta pranzo: bella gente, giovani entusiasti, uomini e donne mature, desiderosi di vivere un’esperienza nuova fatta di socialità, attività fisica e, non ultima, di spiritualità. Buon viaggio per i prossimi giorni, cari viandanti/pellegrini, il sole sia tiepido e la pioggia incombente vi risparmi!
sabato 29 agosto 2015
RIFLESSIONE DI FINE AGOSTO
Agosto ci lascia portando con se un bagaglio di vacanze appena accennate per alcuni, vissute pienamente per altri, feste ed eventi, polemiche relative, giorni caldi e assolati, qualche acquazzone scrosciante. Momenti di vivo interesse per i pezzi che ho postato su “scribacchiando”: alcuni scritti di recente, altri un po’ datati. La fine di agosto coincide con la fine di un ciclo, quello primaverile/estivo; e ritengo che si imponga un momento di analisi e riflessione.
L’onda lunga dei pezzi riproposti si fa sentire con apprezzamenti, specie per quelli che riguardano la “memoria collettiva”, il portato della civiltà di un popolo,quello pietramelarese che tiene molto ad esso; ciò che, invece, ho scritto in relazione all’attualità, ai fatti e ai personaggi della Pietramelara che viviamo, giorno per giorno, ha destato un interesse ancora più forte con picchi di accesso al blog, molto intensi, anche se limitati alla settimana, o addirittura al giorno ma… non potrebbe essere che così, quando si spegne un fatto, anche tutte le eco che ha destato si spengono: a stretto giro!
La potenza di un mezzo di comunicazione quale è la “rete” si fa sentire prepotente, e te ne accorgi quando gli accessi provengono da posti impensabili e in cui, forse, non andrai mai per il resto della tua vita: Svezia, Libano, Israele, Singapore non sono neppure mete frequenti per italiani in giro per turismo o per lavoro. Ed anche dai paesi in cui la presenza italiana è sempre stata forte giunge l’eco di un interesse costante e sempre vivo per Pietramelara, la sua gente,il suo modo di comunicare, i problemi, i luoghi, gli usi e le tradizioni.
Scribacchiando a poco più di quattro anni dalla sua nascita naviga spedito verso i sessantamila accessi e sono molto lusingato per questo; auspicherei che i miei “quattro lettori” segnalino, come credono e come possono, le proprie aree di interesse e ciò che vorrebbero leggere, tenendo sempre presente che questo è il “blog di un pietramelarese”, scritto per i pietramelaresi (ovunque si trovino), infarcito delle mie opinioni e delle mie convinzioni. Chi non le condivide può liberamente astenersi dal leggere queste pagine!
L’onda lunga dei pezzi riproposti si fa sentire con apprezzamenti, specie per quelli che riguardano la “memoria collettiva”, il portato della civiltà di un popolo,quello pietramelarese che tiene molto ad esso; ciò che, invece, ho scritto in relazione all’attualità, ai fatti e ai personaggi della Pietramelara che viviamo, giorno per giorno, ha destato un interesse ancora più forte con picchi di accesso al blog, molto intensi, anche se limitati alla settimana, o addirittura al giorno ma… non potrebbe essere che così, quando si spegne un fatto, anche tutte le eco che ha destato si spengono: a stretto giro!
La potenza di un mezzo di comunicazione quale è la “rete” si fa sentire prepotente, e te ne accorgi quando gli accessi provengono da posti impensabili e in cui, forse, non andrai mai per il resto della tua vita: Svezia, Libano, Israele, Singapore non sono neppure mete frequenti per italiani in giro per turismo o per lavoro. Ed anche dai paesi in cui la presenza italiana è sempre stata forte giunge l’eco di un interesse costante e sempre vivo per Pietramelara, la sua gente,il suo modo di comunicare, i problemi, i luoghi, gli usi e le tradizioni.
Scribacchiando a poco più di quattro anni dalla sua nascita naviga spedito verso i sessantamila accessi e sono molto lusingato per questo; auspicherei che i miei “quattro lettori” segnalino, come credono e come possono, le proprie aree di interesse e ciò che vorrebbero leggere, tenendo sempre presente che questo è il “blog di un pietramelarese”, scritto per i pietramelaresi (ovunque si trovino), infarcito delle mie opinioni e delle mie convinzioni. Chi non le condivide può liberamente astenersi dal leggere queste pagine!
domenica 16 agosto 2015
PIETRAMELARA E IL SUO SANTO
E’ indubbio: fa piacere rivedere la piazza ancora piena come un uovo la sera, e l’occasione della festa patronale dedicata a San Rocco non se la lascia sfuggire proprio nessuno! … e anche chi è impossibilitato per lontananza geografica, per infermità o altro nutre un forte desiderio di parteciparvi.
Tutte le antiche fonti scritte concordano sul fatto che Rocco sia nato da una famiglia agiata di Montpellier, in Francia, anche se per la verità mancano adeguati riscontri documentari; resta il fatto, comunque, che questo dato, ormai tradizionale, non è mai stato messo in discussione, né sono state avanzate proposte o 'rivendicazioni' alternative. Anche della sua famiglia si conosce ben poco, ed i tentativi di individuarla non hanno dato alcun frutto. Per alcuni studiosi, peraltro, Roch non sarebbe il nome, bensì il cognome; tuttavia, la tesi più fortunata - ancor oggi - è quella che chiama in causa la famiglia Delacroix, ma anche in questo caso non esiste alcuna prova certa.
La tradizione pietramelarese fa risalire il culto alla fine del XV secolo, in occasione della discesa di Carlo VIII di Francia in Italia per la conquista del Regno di Napoli, al seguito del sovrano francese vi era un Capitano dei Cavalli, un tale Vasè de la Roche, che accampato a Pietramelara propose o impose il culto di suo cugino Roche de la Croix come patrono, il quale era stato santificato nel 1400 dal Conclave di Venezia, per aver liberato la città dalla peste. Fu lo stesso Vasè de la Roche che, probabilmente, impose anche la dicitura del suddetto rione. Con la venuta degli Aragonesi, in seguito alla battaglia di Fornovo del 5 luglio 1495, il culto di San Rocco veniva proibito in quanto francese, e venne invece istituito quello di San Liberato Martire, la cui immagine è conservata nella Chiesa di San Pasquale. Il ripristino dell'adorazione di San Rocco avvenne nel 1570, con la concessione del riscatto feudale da parte di Don Andrea De Capua. Da quì la tradizione di portare, da parte delle autorità cittadine, i ceri alla figura del Santo il 16 agosto giorno della sua festa. Il miracolo per cui San Rocco venne ufficialmente proclamato Patrono di Pietramelara, avvenne durante la seconda occupazione del Regno di Napoli nel 1806 con Giuseppe Bonaparte. L'esercito napoleonico, alla volta di Napoli, scelse di accamparsi a Pietramelara ma fu fermato da un giovane dall'aspetto gracile e gentile, che dissuase il comandante Championnet dal raggiungere il paese e proseguire direttamente per Napoli. Quando costui dovette ritornare a Pietramelara per la riscossione della taglia di guerra, riconobbe nel volto della statua di San Rocco i lineamenti di quel giovane incontrato in precedenza.
Negli ultimi anni dell’ottocento in giugno il Santo, inoltre, avrebbe risparmiato il paese da una gravissima grandinata in grado di distruggere i raccolti e ridurre il popolo alla fame. Molti testimoni in tale occasione avrebbero visto il suo volto trasfigurarsi, sudare e battere le palpebre. Ogni anno, in occasione della ricorrenza il 14 giugno, il popolo ricorda l'episodio con una processione silenziosa e raccolta.
Molto forte il culto di san Rocco a Pietramelara lo è ancora: la popolazione ha fatto dell’attuale ricorrenza un appuntamento a cui non mancare; anche nel linguaggio comune del popolo si osserva ancora la forza della devozione: “foss’ San Roccu” (lo volesse San Rocco, ndr) è un’espressione ricorrente in chi si augura che qualche propria aspirazione si concretizzi, così come, al contrario, il povero San Rocco qui è forse ancora il più bestemmiato, abitudine riprovevole. Le funzioni liturgiche e le processioni sono fortemente frequentate e anche la messa solenne con il “panegirico” al Santo, preceduta dall’offerta dei ceri, costituisce uno dei momenti fondamentali che identificano la nostra comunità, a dire il vero, attualmente un po’ dispersa e priva di comune sentire.
Tutte le antiche fonti scritte concordano sul fatto che Rocco sia nato da una famiglia agiata di Montpellier, in Francia, anche se per la verità mancano adeguati riscontri documentari; resta il fatto, comunque, che questo dato, ormai tradizionale, non è mai stato messo in discussione, né sono state avanzate proposte o 'rivendicazioni' alternative. Anche della sua famiglia si conosce ben poco, ed i tentativi di individuarla non hanno dato alcun frutto. Per alcuni studiosi, peraltro, Roch non sarebbe il nome, bensì il cognome; tuttavia, la tesi più fortunata - ancor oggi - è quella che chiama in causa la famiglia Delacroix, ma anche in questo caso non esiste alcuna prova certa.
La tradizione pietramelarese fa risalire il culto alla fine del XV secolo, in occasione della discesa di Carlo VIII di Francia in Italia per la conquista del Regno di Napoli, al seguito del sovrano francese vi era un Capitano dei Cavalli, un tale Vasè de la Roche, che accampato a Pietramelara propose o impose il culto di suo cugino Roche de la Croix come patrono, il quale era stato santificato nel 1400 dal Conclave di Venezia, per aver liberato la città dalla peste. Fu lo stesso Vasè de la Roche che, probabilmente, impose anche la dicitura del suddetto rione. Con la venuta degli Aragonesi, in seguito alla battaglia di Fornovo del 5 luglio 1495, il culto di San Rocco veniva proibito in quanto francese, e venne invece istituito quello di San Liberato Martire, la cui immagine è conservata nella Chiesa di San Pasquale. Il ripristino dell'adorazione di San Rocco avvenne nel 1570, con la concessione del riscatto feudale da parte di Don Andrea De Capua. Da quì la tradizione di portare, da parte delle autorità cittadine, i ceri alla figura del Santo il 16 agosto giorno della sua festa. Il miracolo per cui San Rocco venne ufficialmente proclamato Patrono di Pietramelara, avvenne durante la seconda occupazione del Regno di Napoli nel 1806 con Giuseppe Bonaparte. L'esercito napoleonico, alla volta di Napoli, scelse di accamparsi a Pietramelara ma fu fermato da un giovane dall'aspetto gracile e gentile, che dissuase il comandante Championnet dal raggiungere il paese e proseguire direttamente per Napoli. Quando costui dovette ritornare a Pietramelara per la riscossione della taglia di guerra, riconobbe nel volto della statua di San Rocco i lineamenti di quel giovane incontrato in precedenza.
Negli ultimi anni dell’ottocento in giugno il Santo, inoltre, avrebbe risparmiato il paese da una gravissima grandinata in grado di distruggere i raccolti e ridurre il popolo alla fame. Molti testimoni in tale occasione avrebbero visto il suo volto trasfigurarsi, sudare e battere le palpebre. Ogni anno, in occasione della ricorrenza il 14 giugno, il popolo ricorda l'episodio con una processione silenziosa e raccolta.
Molto forte il culto di san Rocco a Pietramelara lo è ancora: la popolazione ha fatto dell’attuale ricorrenza un appuntamento a cui non mancare; anche nel linguaggio comune del popolo si osserva ancora la forza della devozione: “foss’ San Roccu” (lo volesse San Rocco, ndr) è un’espressione ricorrente in chi si augura che qualche propria aspirazione si concretizzi, così come, al contrario, il povero San Rocco qui è forse ancora il più bestemmiato, abitudine riprovevole. Le funzioni liturgiche e le processioni sono fortemente frequentate e anche la messa solenne con il “panegirico” al Santo, preceduta dall’offerta dei ceri, costituisce uno dei momenti fondamentali che identificano la nostra comunità, a dire il vero, attualmente un po’ dispersa e priva di comune sentire.
sabato 8 agosto 2015
LE BOTTIGLIE
Certo che è rimasto chi continua a farle! … e, come in tutte le tradizioni, in esse vanno ricercate motivazioni sociali ed economiche.
Fare la provvista di sugo di pomodoro, o per dirla alla pietramelarese, “fà ‘e buttiglie”, è una pratica sicuramente plurisecolare, dovuta alla necessità di poter contare su una consistente e continuativa disponibilità (per un anno intero in famiglia) della base per il condimento principale del nostro alimento base: la pasta.
Il pomodoro è un frutto che trae origine dalla zona dell'America centrale, compresa oggi tra i paesi del Messico e Perù. Gli Aztechi lo chiamarono "xitomatl". Alcuni affermarono che il pomodoro aveva proprietà afrodisiache, sarebbe questo il motivo per cui i francesi anticamente lo definivano "pomme d'amour", pomo d'amore. Questa radice è presente anche in Italia: in certi paesi dell'interno della Sicilia, è indicato anche con il nome di pùma-d'amùri (pomo dell'amore).
La data del suo arrivo in Europa è il 1540 quando lo spagnolo Hernán Cortés rientrò in patria e ne portò gli esemplari; ma la sua coltivazione e diffusione attese fino alla seconda metà del XVII secolo. Arrivò in Italia nel 1596 ma solo più tardi, trovando condizioni climatiche favorevoli nel sud del paese, si ha il viraggio del suo colore dall'originario e caratteristico colore oro, che diede appunto il nome alla pianta, all'attuale rosso, grazie a selezioni e innesti successivi.
Certo che oggi, rispetto a qualche decennio fa, il numero di famiglie in cui ancora la tradizione di “fà ‘e buttiglie” viene perpetuata è in drastico calo: la disponibilità di pomodoro fresco durante l’intero anno e l’accettabile rapporto prezzo/qualità dei sughi presenti sugli scaffali dei supermercati, hanno in qualche modo indotto il progressivo abbandono di tale tradizione.
Bisogna inoltre considerare che chi continua a “fà ‘e buttiglie” con l’obiettivo di consumare un alimento autoprodotto e pertanto sano, non deve ignorare che i pomodori del commercio provengono da aziende che non disdegnano pratiche agronomiche quali l’ormonizzazione per favorire la raccolta contemporanea di tutti i frutti presenti sulla pianta. Prima non era così: quando i pomodori venivano coltivati in famiglia essi venivano raccolti man mano che maturavano, in piccoli quantitativi, con il vantaggio di un frutto raccolto al punto in cui era ricchissimo in zuccheri e in altri preziosi apporti (vitamine, sali minerali e antiossidanti). Quelli di oggi sono solo rossi … ma non per questo maturi!
La “tecnologia” impiegata prevede varianti nel metodo di cottura: si va dal più diffuso “bagno maria”, alle bottiglie infornate, pratica ormai del tutto desueta, alla bottiglie “sott’ a cuperta”, metodo efficace ma alquanto pericoloso; le scuole di pensiero diverse rispetto a tale aspetto hanno dato luogo a interminabili dispute fra massaie.
La tradizione di fare le bottiglie, tuttavia racchiude un portato che sa di vicinato, di rapporti familiari e quando ci si riunisce per dare una mano essa viene ricambiata, a stretto giro, dopo qualche giorno; qualcuno che vive fuori cerca ancora di abbinare il rientro estivo per le ferie in paese, alla possibilità di recare con se le bottiglie appena fatte, perché quel sapore anche in luoghi lontani ricorda l’infanzia ed evoca affetti e rapporti troncati dalla necessità quotidiana.
Fare la provvista di sugo di pomodoro, o per dirla alla pietramelarese, “fà ‘e buttiglie”, è una pratica sicuramente plurisecolare, dovuta alla necessità di poter contare su una consistente e continuativa disponibilità (per un anno intero in famiglia) della base per il condimento principale del nostro alimento base: la pasta.
Il pomodoro è un frutto che trae origine dalla zona dell'America centrale, compresa oggi tra i paesi del Messico e Perù. Gli Aztechi lo chiamarono "xitomatl". Alcuni affermarono che il pomodoro aveva proprietà afrodisiache, sarebbe questo il motivo per cui i francesi anticamente lo definivano "pomme d'amour", pomo d'amore. Questa radice è presente anche in Italia: in certi paesi dell'interno della Sicilia, è indicato anche con il nome di pùma-d'amùri (pomo dell'amore).
La data del suo arrivo in Europa è il 1540 quando lo spagnolo Hernán Cortés rientrò in patria e ne portò gli esemplari; ma la sua coltivazione e diffusione attese fino alla seconda metà del XVII secolo. Arrivò in Italia nel 1596 ma solo più tardi, trovando condizioni climatiche favorevoli nel sud del paese, si ha il viraggio del suo colore dall'originario e caratteristico colore oro, che diede appunto il nome alla pianta, all'attuale rosso, grazie a selezioni e innesti successivi.
Certo che oggi, rispetto a qualche decennio fa, il numero di famiglie in cui ancora la tradizione di “fà ‘e buttiglie” viene perpetuata è in drastico calo: la disponibilità di pomodoro fresco durante l’intero anno e l’accettabile rapporto prezzo/qualità dei sughi presenti sugli scaffali dei supermercati, hanno in qualche modo indotto il progressivo abbandono di tale tradizione.
Bisogna inoltre considerare che chi continua a “fà ‘e buttiglie” con l’obiettivo di consumare un alimento autoprodotto e pertanto sano, non deve ignorare che i pomodori del commercio provengono da aziende che non disdegnano pratiche agronomiche quali l’ormonizzazione per favorire la raccolta contemporanea di tutti i frutti presenti sulla pianta. Prima non era così: quando i pomodori venivano coltivati in famiglia essi venivano raccolti man mano che maturavano, in piccoli quantitativi, con il vantaggio di un frutto raccolto al punto in cui era ricchissimo in zuccheri e in altri preziosi apporti (vitamine, sali minerali e antiossidanti). Quelli di oggi sono solo rossi … ma non per questo maturi!
La “tecnologia” impiegata prevede varianti nel metodo di cottura: si va dal più diffuso “bagno maria”, alle bottiglie infornate, pratica ormai del tutto desueta, alla bottiglie “sott’ a cuperta”, metodo efficace ma alquanto pericoloso; le scuole di pensiero diverse rispetto a tale aspetto hanno dato luogo a interminabili dispute fra massaie.
La tradizione di fare le bottiglie, tuttavia racchiude un portato che sa di vicinato, di rapporti familiari e quando ci si riunisce per dare una mano essa viene ricambiata, a stretto giro, dopo qualche giorno; qualcuno che vive fuori cerca ancora di abbinare il rientro estivo per le ferie in paese, alla possibilità di recare con se le bottiglie appena fatte, perché quel sapore anche in luoghi lontani ricorda l’infanzia ed evoca affetti e rapporti troncati dalla necessità quotidiana.
venerdì 31 luglio 2015
GRAZIE
Avevo rimandato ormai da troppo tempo, non volevo soprattutto perché immaginavo cosa avrei dovuto affrontare: un’emozione forte di fronte ad un uomo molto sofferente!... ma stasera l’istinto, l’affetto profondo, la stima e l’attaccamento mi hanno dato il “la” per superarla. Sono salito allora da Don Roberto, nelle secolari stanze del palazzo ducale: mi sono trovato di fronte un’altra persona nell’aspetto; ma forse non è questa la cosa più importante, abbiamo scambiato un veloce saluto, nulla di più perché la serata rovente aveva ulteriormente debilitato colui che rimane uno degli artefici principali della nostra comunità. Ho notato in lui una forte sofferenza morale, prima che fisica, derivante dalla perdita totale delle energie a cui ci aveva abituato anche nell’età più tarda; era evidente il suo disappunto per non poter trattenersi a parlare con me, per non poter, in definitiva, continuare a dare a Pietramelara il tanto che ha dato per circa un sessantennio.
Non era certo il Don Roberto che con la sua cultura, l’intelligenza, con le sue omelie mai banali e sempre coinvolgenti, con i suoi errori è stato amato, a volte odiato (è raro) dai pietramelaresi, anche se molti dei suoi detrattori oggi vanno in giro a tesserne le lodi (… succede frequentemente!)
Bisogna ammetterlo con serenità: l’aspetto di Pietramelara sarebbe ben diverso senza la sua instancabile attività. Da parte mia e di tutta la generazione di cui arbitrariamente mi faccio portavoce, non posso astenermi da un senso di profonda gratitudine per il coraggio dimostrato nel ministero sacerdotale, nell’animare chi è stato giovane qualche decennio fa: le riunioni di riflessione del sabato sera, le lezioni al liceo di Vairano, i campeggi e le altre occasioni di evasione sono stati un dono prezioso e, sono sicuro che ognuno di noi che ha vissuto tali esperienze ne porterà per sempre un ricordo indelebile.
Coraggio e grazie ancora Don Roberto, speriamo che tu possa guarire o stare almeno meglio perché questa contraddittoria, ciarliera, pettegola e amatissima Pietramelara ha ancora bisogno della tua presenza.
Non era certo il Don Roberto che con la sua cultura, l’intelligenza, con le sue omelie mai banali e sempre coinvolgenti, con i suoi errori è stato amato, a volte odiato (è raro) dai pietramelaresi, anche se molti dei suoi detrattori oggi vanno in giro a tesserne le lodi (… succede frequentemente!)
Bisogna ammetterlo con serenità: l’aspetto di Pietramelara sarebbe ben diverso senza la sua instancabile attività. Da parte mia e di tutta la generazione di cui arbitrariamente mi faccio portavoce, non posso astenermi da un senso di profonda gratitudine per il coraggio dimostrato nel ministero sacerdotale, nell’animare chi è stato giovane qualche decennio fa: le riunioni di riflessione del sabato sera, le lezioni al liceo di Vairano, i campeggi e le altre occasioni di evasione sono stati un dono prezioso e, sono sicuro che ognuno di noi che ha vissuto tali esperienze ne porterà per sempre un ricordo indelebile.
Coraggio e grazie ancora Don Roberto, speriamo che tu possa guarire o stare almeno meglio perché questa contraddittoria, ciarliera, pettegola e amatissima Pietramelara ha ancora bisogno della tua presenza.
sabato 25 luglio 2015
LA FIERA DELLA CIPOLLA
“Il pellegrino (…) poteva su questo itinerario appoggiarsi all’Ospedale dei Cavalieri di Malta sito fuori Pietramelara. La domus di Pietramelara nel 1378-1380 era governata da Giovanni da Venafro, nel 1680 aveva vaste terre ma la chiesa coperta a tetti era distrutta. Poi fu riedificata e tuttora esiste in via San Giovanni , o Fuori San Giovanni, una cappella dedicata alla Madonna di San Giovanni della quale tuttora si celebra festa e fiera.”: questo uno dei tanti pregevoli scritti dell’Avv. Domenico Caiazza, sulla presenza dei Cavalieri di Malta dalle nostre parti.
Il momento di temporanea rovina della chiesetta, tra il tardo medioevo e il rinascimento, trova conforto e conferma in tale altra testimonianza “L’ospedale e la chiesa di San Giovanni a Mare di Salerno sorgevano fuori la “porta della Catena”, nelle vicinanze del mare e del “monte nominato Scoriale” e in origine erano localizzate fuori città anche le chiese di Montesarchio (“sita dove si dice a S. Valentino”), Aversa (situata “a S. Giovanniello, fuori la porta nova”), Sant’Agata dei Goti (a “capo di Corte”), San Martino Valle Caudina (ricostruita dentro la città nel 1643, “proprio vecino il palazzo del signore duca de detta terra de San Martino”), Marigliano (in località “San Pietro”), Caiazzo (a “San Giovanni fuori porta”) e Pietra Molara (queste ultime due chiese scomparvero prima della fine del XVII secolo)”. Nella stessa opera “Le chiese [dei cavalieri di Malta] erano intitolate nella maggior parte dei casi a San Giovanni Battista, il protettore dell’Ordine. Le altre intitolazioni si riferivano in genere a santi guerrieri come San Sebastiano, San Michele e San Giorgio, oppure alla Vergine delle Grazie, venerata dai militari e dagli ordini cavallereschi in genere” (EMILIO RICCIARDI,Chiese e commende dell’Ordine di Malta in Campania).
L’immagine mariana che si venera nella Cappella di Fuori San Giovanni, detta appunto Madonna di San Giovanni, è riferita proprio alla Madonna delle Grazie, di cui al periodo precedente; essa fu tenuta e curata dall’Ordine sino all’unità nazionale. La presenza in Pietramelara, in detta località di uno xenodochio (albergo per stranieri e viandanti) adiacente alla cappella trova conferma nei registri parrocchiali di Sant’Agostino che ne attestano la piena attività fra il settecento e l’ottocento.
Dopo l’unità d’Italia fu disposta l’alienazione dei beni dell’Ordine e il vasto tenimento di San Giovanni, che andava dall’attuale sito della Cappella sino alle falde del Monte Maggiore, fu acquistato all’asta dal Barone Sanniti. Con il terremoto del novembre 1980 la cappella subì gravi danni strutturali che ne causarono l'abbattimento e la successiva ricostruzione. La famiglia Sanniti ha per circa un secolo mantenuto il possesso di tali beni, e nel contempo ha perpetuato il culto della Madonna di San Giovanni, insieme alle tradizioni della fiera.
Per alcuni si tratta della “fiera della cipolla”, ortaggio che viene raccolto proprio in tale periodo e le “nzerte” di cipolle sono tra gli articoli preferiti dagli avventori che numerosi accorrono da Pietramelara e dintorni. Era tradizionale inoltre lo scambio e il commercio di animali di grossa taglia, soprattutto equini e bovini, ma anche di maiali, pecore e capre. Non si vedono più ma fino a qualche anno fa non mancavano i sellari, nelle cui bancarelle si potevano acquistare i “uarnimienti”, finimenti quali briglie, selle, redini e capezze. In corrispondenza di tale evento negli anni 60 e 70, i pietramelaresi emigrati (per lo più in Svizzera) tornavano a casa per riunirsi alle famiglie, per poi far ritorno nei luoghi di lavoro, verso il venti di agosto, dopo la festa di San Rocco.
La fiera e la festa della Madonna di San Giovanni, tradizionalmente cadenti nell’ultima domenica di luglio, la cui memoria risale alla notte dei tempi, fanno parte delle tradizioni pietramelaresi ancora sopravvissute. Va pur detto che la fiera, nella veste che si osserva oggi, ha perso un po’ del suo smalto ed il suo aspetto tradizionale si è molto allentato: tant’è che non si commerciano e non si scambiano animali da almeno un ventennio, e molte delle merci tradizionalmente trattate oggi non lo sono più; l’Italia d’altro canto, da paese di emigrazione si è evoluta in paese di immigrazione. La fiera di San Giovanni o “della cipolla” ha radici storiche che, come avrete potuto leggere, partono da molto lontano; essa rimane tuttavia di un passaggio obbligato, una tappa di mezza estate a cui pochi, tra coloro che condividono la nostra identità, vogliono rinunciare, nonostante il caldo e la calca.
Nella foto: la Cappella di San Giovanni nell'aspetto pre terremoto
Il momento di temporanea rovina della chiesetta, tra il tardo medioevo e il rinascimento, trova conforto e conferma in tale altra testimonianza “L’ospedale e la chiesa di San Giovanni a Mare di Salerno sorgevano fuori la “porta della Catena”, nelle vicinanze del mare e del “monte nominato Scoriale” e in origine erano localizzate fuori città anche le chiese di Montesarchio (“sita dove si dice a S. Valentino”), Aversa (situata “a S. Giovanniello, fuori la porta nova”), Sant’Agata dei Goti (a “capo di Corte”), San Martino Valle Caudina (ricostruita dentro la città nel 1643, “proprio vecino il palazzo del signore duca de detta terra de San Martino”), Marigliano (in località “San Pietro”), Caiazzo (a “San Giovanni fuori porta”) e Pietra Molara (queste ultime due chiese scomparvero prima della fine del XVII secolo)”. Nella stessa opera “Le chiese [dei cavalieri di Malta] erano intitolate nella maggior parte dei casi a San Giovanni Battista, il protettore dell’Ordine. Le altre intitolazioni si riferivano in genere a santi guerrieri come San Sebastiano, San Michele e San Giorgio, oppure alla Vergine delle Grazie, venerata dai militari e dagli ordini cavallereschi in genere” (EMILIO RICCIARDI,Chiese e commende dell’Ordine di Malta in Campania).
L’immagine mariana che si venera nella Cappella di Fuori San Giovanni, detta appunto Madonna di San Giovanni, è riferita proprio alla Madonna delle Grazie, di cui al periodo precedente; essa fu tenuta e curata dall’Ordine sino all’unità nazionale. La presenza in Pietramelara, in detta località di uno xenodochio (albergo per stranieri e viandanti) adiacente alla cappella trova conferma nei registri parrocchiali di Sant’Agostino che ne attestano la piena attività fra il settecento e l’ottocento.
Dopo l’unità d’Italia fu disposta l’alienazione dei beni dell’Ordine e il vasto tenimento di San Giovanni, che andava dall’attuale sito della Cappella sino alle falde del Monte Maggiore, fu acquistato all’asta dal Barone Sanniti. Con il terremoto del novembre 1980 la cappella subì gravi danni strutturali che ne causarono l'abbattimento e la successiva ricostruzione. La famiglia Sanniti ha per circa un secolo mantenuto il possesso di tali beni, e nel contempo ha perpetuato il culto della Madonna di San Giovanni, insieme alle tradizioni della fiera.
Per alcuni si tratta della “fiera della cipolla”, ortaggio che viene raccolto proprio in tale periodo e le “nzerte” di cipolle sono tra gli articoli preferiti dagli avventori che numerosi accorrono da Pietramelara e dintorni. Era tradizionale inoltre lo scambio e il commercio di animali di grossa taglia, soprattutto equini e bovini, ma anche di maiali, pecore e capre. Non si vedono più ma fino a qualche anno fa non mancavano i sellari, nelle cui bancarelle si potevano acquistare i “uarnimienti”, finimenti quali briglie, selle, redini e capezze. In corrispondenza di tale evento negli anni 60 e 70, i pietramelaresi emigrati (per lo più in Svizzera) tornavano a casa per riunirsi alle famiglie, per poi far ritorno nei luoghi di lavoro, verso il venti di agosto, dopo la festa di San Rocco.
La fiera e la festa della Madonna di San Giovanni, tradizionalmente cadenti nell’ultima domenica di luglio, la cui memoria risale alla notte dei tempi, fanno parte delle tradizioni pietramelaresi ancora sopravvissute. Va pur detto che la fiera, nella veste che si osserva oggi, ha perso un po’ del suo smalto ed il suo aspetto tradizionale si è molto allentato: tant’è che non si commerciano e non si scambiano animali da almeno un ventennio, e molte delle merci tradizionalmente trattate oggi non lo sono più; l’Italia d’altro canto, da paese di emigrazione si è evoluta in paese di immigrazione. La fiera di San Giovanni o “della cipolla” ha radici storiche che, come avrete potuto leggere, partono da molto lontano; essa rimane tuttavia di un passaggio obbligato, una tappa di mezza estate a cui pochi, tra coloro che condividono la nostra identità, vogliono rinunciare, nonostante il caldo e la calca.
Nella foto: la Cappella di San Giovanni nell'aspetto pre terremoto
domenica 19 luglio 2015
BORGHI A CONFRONTO
Borgo di Pietramelara, borgo di Riardo: due emergenze monumentali di assoluto interesse, le cui tipologie architettoniche ed urbanistiche sono fortemente diversificate, a dispetto di una distanza che non supera i tre chilometri. Fattori storici, sociali ed ambientali hanno fatto leva su tali differenze per consegnare a noi due autentici gioielli da custodire con gelosia.
Ieri sera, come tanti, ho avuto il piacere di partecipare da fruitore alla Sagra al Borgo, organizzata dalla Pro Loco riardese. Piccoli inconvenienti tecnici, insieme a qualche stonatura ed anacronismo non impedisce a chi scrive di dare un voto ottimo all’organizzazione dell’evento. Tutto era stato congegnato in modo di assicurare una larga partecipazione, anche da comuni mediamente distanti. La concomitanza temporale della sagra con il servizio Tg3, che ha funzionato come potentissima “cassa di risonanza”, l’efficiente servizio navetta, in grado di evitare congestioni di traffico, la larghissima collaborazione della gioventù locale, orgogliosa ed efficiente, i film e documentari recentemente girati in quei luoghi hanno prodotto un successo al riparo da ogni critica, confortato da numeri più che lusinghieri. E’ facile immaginare, da osservatore esterno, smaliziato da tanti anni di impegno in tale tipo di problematica, che dietro a tutto ci sia stata una saggia regia unitaria, tesa a far conoscere un tesoro prezioso nel cuore del confinante comune di Riardo: il castello normanno/angioino e il borgo che vi si è sviluppato intorno.
Qualcuno in vena di sminuire gli altrui meriti osserverà che il recupero di borgo e castello di Riardo partono da lontano, e che da almeno un ventennio è iniziato il processo di cui oggi si cominciano a vedere i frutti, che ogni amministrazione riardese ha contribuito con un suo “pezzo” a che l’obiettivo venisse conseguito; giustissimo, tuttavia ciò non sottrae alcun merito a chi attualmente regge le sorti di Riardo con passione e spirito fortemente identitario. Guai a chi, con la voglia di sminuire i meriti dei predecessori tende ad abbandonarne i progetti e le realizzazioni! E’ un fatto incontrovertibile: il castello e il borgo oggi sono fruibili, in condizioni di sicurezza, senza zone transennate per imminenti pericoli di crolli, e sempre più persone vogliono conoscerli.
In parallelo cosa possiamo dire noi pietramelaresi delle nostre analoghe risorse? Il borgo di pietramelara, ugualmente unico e suggestivo, da parte sua, sta soffrendo un momento di infinita tristezza derivante da l’interesse istituzionale nullo nei suoi confronti. E tale disinteresse è generalizzato: sindaco, ammnistrazione, pro loco, nessuno si salva! Ed il problema principale è che il degrado non è qualcosa di statico e fermo nel tempo: no!... chi immagina che superata tale fase politico amministrativa, qualcuno possa mettere mano al recupero, si sbaglia di grosso: il degrado chiama degrado e se non si interviene nell’immediato tra qualche anno tutto potrebbe essere irrimediabilmente perduto.
Ieri sera, come tanti, ho avuto il piacere di partecipare da fruitore alla Sagra al Borgo, organizzata dalla Pro Loco riardese. Piccoli inconvenienti tecnici, insieme a qualche stonatura ed anacronismo non impedisce a chi scrive di dare un voto ottimo all’organizzazione dell’evento. Tutto era stato congegnato in modo di assicurare una larga partecipazione, anche da comuni mediamente distanti. La concomitanza temporale della sagra con il servizio Tg3, che ha funzionato come potentissima “cassa di risonanza”, l’efficiente servizio navetta, in grado di evitare congestioni di traffico, la larghissima collaborazione della gioventù locale, orgogliosa ed efficiente, i film e documentari recentemente girati in quei luoghi hanno prodotto un successo al riparo da ogni critica, confortato da numeri più che lusinghieri. E’ facile immaginare, da osservatore esterno, smaliziato da tanti anni di impegno in tale tipo di problematica, che dietro a tutto ci sia stata una saggia regia unitaria, tesa a far conoscere un tesoro prezioso nel cuore del confinante comune di Riardo: il castello normanno/angioino e il borgo che vi si è sviluppato intorno.
Qualcuno in vena di sminuire gli altrui meriti osserverà che il recupero di borgo e castello di Riardo partono da lontano, e che da almeno un ventennio è iniziato il processo di cui oggi si cominciano a vedere i frutti, che ogni amministrazione riardese ha contribuito con un suo “pezzo” a che l’obiettivo venisse conseguito; giustissimo, tuttavia ciò non sottrae alcun merito a chi attualmente regge le sorti di Riardo con passione e spirito fortemente identitario. Guai a chi, con la voglia di sminuire i meriti dei predecessori tende ad abbandonarne i progetti e le realizzazioni! E’ un fatto incontrovertibile: il castello e il borgo oggi sono fruibili, in condizioni di sicurezza, senza zone transennate per imminenti pericoli di crolli, e sempre più persone vogliono conoscerli.
In parallelo cosa possiamo dire noi pietramelaresi delle nostre analoghe risorse? Il borgo di pietramelara, ugualmente unico e suggestivo, da parte sua, sta soffrendo un momento di infinita tristezza derivante da l’interesse istituzionale nullo nei suoi confronti. E tale disinteresse è generalizzato: sindaco, ammnistrazione, pro loco, nessuno si salva! Ed il problema principale è che il degrado non è qualcosa di statico e fermo nel tempo: no!... chi immagina che superata tale fase politico amministrativa, qualcuno possa mettere mano al recupero, si sbaglia di grosso: il degrado chiama degrado e se non si interviene nell’immediato tra qualche anno tutto potrebbe essere irrimediabilmente perduto.
martedì 30 giugno 2015
LA COPERTA ED IL BALCONE
Nei racconti della mia vecchia zia, ormai ultranovantenne, ma dalla mente e dalla memoria più che lucida, ricorre spesso uno legato ai suoi ricordi di guerra. Si tratta di un fatto che è molto esemplificativo di come siano e come pensino i pietramelaresi. Il fatto è questo: la fine dell’estate 1943 aveva indotto l’Italia all’armistizio, e conseguentemente le truppe tedesche divennero all’improvviso, da alleati, nemici ed invasori; lo sbarco in Sicilia e poi quello a Salerno degli Angloamericani provocò la ritirata dei tedeschi dall’Italia meridionale, durante la quale essi si abbandonarono a saccheggi, rappresaglie e rastrellamenti di uomini validi da deportare in Germania. L’autunno stava per iniziare e, data la situazione, la popolazione civile inerme abbandonò il paese e, come poteva, si ritirò sulle alture circostanti, avendo cura di nascondere gli uomini più validi nei rigogliosi boschi del Monte Maggiore; qualcuno di essi doveva pur riunirsi alla famiglia, trovare qualcosa da mangiare e da bere, cambiare qualche povero indumento, pertanto periodicamente usciva dal perimetro del bosco e ritrovava gli affetti in qualche “cesa” (piccolo appezzamento coltivato in montagna, ndr), in un pagliaio, o in una vecchia masseria; ma ciò era possibile solo se i tedeschi erano altrove, se essi pattugliavano la zona era prudente restare nascosti tra macchie, alberi e cespugli. Si determinò così l’esigenza di conoscere a distanza se costoro erano in zona oppure no; la necessaria comunicazione di tale notizia fu stabilita ricorrendo ad uno stratagemma semplice ma estremamente efficace: vi era proprio ai piedi della montagna, una antica masseria (ancora esistente) abitata da un uomo chiamato zì Beniamino, dotato come ogni altro contadino di saggezza e furbizia, costui stabilì e fece sapere che quando i tedeschi erano in zona avrebbe steso una coperta colorata al balcone principale della masseria, ben visibile da vari punti del bosco, quando invece dal balcone non pendeva nulla, voleva dire che i tedeschi si trovavano altrove. Con la coperta stesa al balcone allora si rimaneva nel bosco, con la coperta ritirata via libera, si poteva ritrovare la famiglia. La cosa si diffuse a tal punto che anche terminati gli eventi bellici, quella masseria in contrada Grasciano assunse il nome di “massarìa ‘ra cuperta”.
Quante vite siano state risparmiate, quante deportazioni evitate non ci è dato di sapere: rimane comunque ancora vivo nella memoria collettiva del popolo pietramelarese una storia che sa di furbizia, solidarietà umana e saggezza contadina.
Quante vite siano state risparmiate, quante deportazioni evitate non ci è dato di sapere: rimane comunque ancora vivo nella memoria collettiva del popolo pietramelarese una storia che sa di furbizia, solidarietà umana e saggezza contadina.
domenica 14 giugno 2015
OBIETTIVO CENTRATO: MISSIONE COMPIUTA
Ottima l’esperienza vissuta oggi, 14 giugno 2015, in occasione della Giornata del Turista, evento organizzato dall’Associazione Work in Progress, che nella sua diramazione pietramelarese ha come presidente Giovanni Zarone. La macchina dei preparativi era in funzione da almeno un mese, e il risultato non ha tardato a rivelarsi. Donne, uomini e bambini sono pervenuti nella nostra piccola città da numerose località della regione e, a giudicare dai feedback raccolti, l’esperienza è stata ampiamente positiva per ognuno che voluto vivere questa piccola avventura.
Dopo un iniziale momento di rodaggio l’organizzazione ha cominciato a funzionare alla grande e questo ha permesso di gestire i gruppi ed accompagnarli in un itinerario storico/turistico che si è dipanato fra le chiese parrocchiali, il palazzo ducale, il borgo. Di ottimo gradimento anche i piatti tipici, degustati con modicissima spesa presso le due locande allestite da ristoratori locali, impegnati al massimo nel promuovere saperi e sapori del territorio. La pizzeria “Route sixty six” e il Bar De Nuccio hanno soddisfatto in pieno le aspettative dei numerosi turisti che hanno ritenuto vantaggiosa l’offerta abbinata “visita guidata/pasto”.
Sarà l’analisi dei questionari di gradimento a dire l’ultima parola sulla riuscita dell’evento, ed essa permetterà anche di correggere il tiro rispetto ad alcuni fattori, ma sicuramente, dalle impressioni ricevute a caldo, ognuno dei partecipanti ritornerà in paese quanto prima e diffonderà la nomea di un paese ancora “a misura d’uomo”, di straordinari tesori ignorati dai più, di una gioventù ancora in grado di impegnarsi senza secondi fini.
All’anno prossimo, ragazzi e complimenti da chi vi ha visto operare “da vicino”.
Dopo un iniziale momento di rodaggio l’organizzazione ha cominciato a funzionare alla grande e questo ha permesso di gestire i gruppi ed accompagnarli in un itinerario storico/turistico che si è dipanato fra le chiese parrocchiali, il palazzo ducale, il borgo. Di ottimo gradimento anche i piatti tipici, degustati con modicissima spesa presso le due locande allestite da ristoratori locali, impegnati al massimo nel promuovere saperi e sapori del territorio. La pizzeria “Route sixty six” e il Bar De Nuccio hanno soddisfatto in pieno le aspettative dei numerosi turisti che hanno ritenuto vantaggiosa l’offerta abbinata “visita guidata/pasto”.
Sarà l’analisi dei questionari di gradimento a dire l’ultima parola sulla riuscita dell’evento, ed essa permetterà anche di correggere il tiro rispetto ad alcuni fattori, ma sicuramente, dalle impressioni ricevute a caldo, ognuno dei partecipanti ritornerà in paese quanto prima e diffonderà la nomea di un paese ancora “a misura d’uomo”, di straordinari tesori ignorati dai più, di una gioventù ancora in grado di impegnarsi senza secondi fini.
All’anno prossimo, ragazzi e complimenti da chi vi ha visto operare “da vicino”.
mercoledì 10 giugno 2015
WORK IN PROGRESS
Avrei preferito che qualcuno si fosse occupato del mio paese, di quel paesaggio straordinariamente armonioso, di quel borgo che parla di storia vissuta, di uomini fieri ma… purtroppo nulla. Amministrazioni comunali che si sono succedute, pro loco, ambientalisti: nulla di nulla, ed il risultato è sotto gli occhi di chiunque!
Tuttavia non bisogna fare di tutt’erba un fascio! Sembra che fra tante nuvole un timido raggio di sole stia spuntando; fatemela passare, miei cari quattro lettori, questa metafora che sa poco di meteorologia e tanto di retorica, perché chi è assetato di luce nel buio riesce ad intravedere anche una fiammella lontana centinaia di metri.
Di cosa parlo? Ah, si, certo, non li ho ancora nominati: si tratta dei ragazzi di Work in Progress, espressione anglosassone che ben si attanaglia alla realtà di quella associazione. Motivati, volenterosi e volontari, hanno programmato per domenica 14 giugno prossimo un evento ambizioso e profondamente innovativo per Pietramelara: la “Giornata del Turista”, un mix di visite guidate ai monumenti, enogastronomia e socialità.
E’ estremamente probabile che mentre scrivo questi giovani si stiano dando da fare per pulire gli angoli del borgo più degradati, per restituire dignità a quelle pietre testimoni di tanta gloria; altri invece si staranno dedicando all’organizzazione logistica per offrire ai nostri graditi ospiti di domenica, servizi in grado di suscitare un alto livello di gradimento.
E’ veramente una bella realtà “Work in Progress”: da subito ha cercato di affrontare con piglio innovativo un problema, quello del valorizzazione del territorio e del marketing territoriale, in cui tanti hanno fallito; l’evento programmato è certamente ambizioso, ma le energie in campo non mancano, e Giovanni, il presidente, anche se di poche parole, ha il carattere ed il carisma del leader. Noialtri che qualche anno in più l’abbiamo vissuto e che ricordiamo bene cos’era Pietramelara in tale campo una trentina di anni or sono, una mano la diamo volentieri, con il condividere l’organizzazione dell’evento che si prepara, con il dispensare qualche consiglio a mezza bocca (solo se richiesto), mettendo a disposizione le attitudini a cui siamo maggiormente inclini. Le premesse per il successo ci sono tutte: impegno, dedizione, amore per la nostra terra e soprattutto assoluta mancanza di interessi materiali, almeno quelli immediati. Si, perché tra i tanti obiettivi che l’associazione si è dati, vi è anche quello di offrire qualche sbocco occupazionale al gruppo di giovani che vi collaborano; obiettivo sicuramente non a portata di mano, date le condizioni di contesto in cui ci si muove, ma che sicuramente potrà essere conseguito se il percorso intrapreso sarà continuato con l’impegno e la costanza mostrati sinora.
Tuttavia non bisogna fare di tutt’erba un fascio! Sembra che fra tante nuvole un timido raggio di sole stia spuntando; fatemela passare, miei cari quattro lettori, questa metafora che sa poco di meteorologia e tanto di retorica, perché chi è assetato di luce nel buio riesce ad intravedere anche una fiammella lontana centinaia di metri.
Di cosa parlo? Ah, si, certo, non li ho ancora nominati: si tratta dei ragazzi di Work in Progress, espressione anglosassone che ben si attanaglia alla realtà di quella associazione. Motivati, volenterosi e volontari, hanno programmato per domenica 14 giugno prossimo un evento ambizioso e profondamente innovativo per Pietramelara: la “Giornata del Turista”, un mix di visite guidate ai monumenti, enogastronomia e socialità.
E’ estremamente probabile che mentre scrivo questi giovani si stiano dando da fare per pulire gli angoli del borgo più degradati, per restituire dignità a quelle pietre testimoni di tanta gloria; altri invece si staranno dedicando all’organizzazione logistica per offrire ai nostri graditi ospiti di domenica, servizi in grado di suscitare un alto livello di gradimento.
E’ veramente una bella realtà “Work in Progress”: da subito ha cercato di affrontare con piglio innovativo un problema, quello del valorizzazione del territorio e del marketing territoriale, in cui tanti hanno fallito; l’evento programmato è certamente ambizioso, ma le energie in campo non mancano, e Giovanni, il presidente, anche se di poche parole, ha il carattere ed il carisma del leader. Noialtri che qualche anno in più l’abbiamo vissuto e che ricordiamo bene cos’era Pietramelara in tale campo una trentina di anni or sono, una mano la diamo volentieri, con il condividere l’organizzazione dell’evento che si prepara, con il dispensare qualche consiglio a mezza bocca (solo se richiesto), mettendo a disposizione le attitudini a cui siamo maggiormente inclini. Le premesse per il successo ci sono tutte: impegno, dedizione, amore per la nostra terra e soprattutto assoluta mancanza di interessi materiali, almeno quelli immediati. Si, perché tra i tanti obiettivi che l’associazione si è dati, vi è anche quello di offrire qualche sbocco occupazionale al gruppo di giovani che vi collaborano; obiettivo sicuramente non a portata di mano, date le condizioni di contesto in cui ci si muove, ma che sicuramente potrà essere conseguito se il percorso intrapreso sarà continuato con l’impegno e la costanza mostrati sinora.
domenica 24 maggio 2015
AL TEATRO TEMPIO
La prima cosa che viene da chiederti mentre percorri l’erto sentiero che ti conduce in quel luogo è la seguente: “… ma è mai possibile che uomini e donne di ventidue/ventitre secoli fa erano così diversi da noi da affrontare una prova così dura per assistere ad uno spettacolo teatrale?”; si, ma poi, appena giunti, la suggestione di quelle pietre e lo sguardo che spazia su un panorama mozzafiato fanno passare in second’ordine la domanda che ti eri posto.
La scoperta o, se vogliamo, la riscoperta avvenne nell’anno 2000 ed è dovuta al prof. Nicolino Lombardi di S.Potito Sannitico, dirigente scolastico dinamico, appassionato di volo ultraleggero e di foto aeree. In una mattina particolarmente tersa, dal minuscolo abitacolo ebbe l’intuizione e cominciò a scattare, e dopo, in studio l’esame più attento delle immagini confermò che qualcosa di importante stava per ritornare alla luce.
Il Teatro Tempio San Nicola, in agro del comune di Pietravairano venne costruito presumibilmente in età Romana-Repubblicana ( quarto/quinto secolo a.C.) ed è unico nel suo genere sopratutto per il suo posizionamento in altura. Si tratta di un complesso di fortificazioni di varia tipologia e grandezza con mura in opera poligonali che si caratterizzano lungo le dorsali ad una quota che va dai 300-600 metri. Arroccate su posizioni elevate esse dovevano rappresentare l'elemento più caratterizzante del paesaggio antico, perlomeno in epoca preromana. Le dimensioni del complesso archeologico non sono molto grandi, ma comunque in grado di porre allo studioso o al semplice visitatore, come il vostro blogger scribacchiante, innumerevoli domande, fra le quali quella di cui vi parlavo all’inizio dell’articolo.
La tipologia della parte inferiore è chiaramente quella di un teatro le cui gradinate si trovano in uno stato di conservazione variabile dal buono, al discreto, al completamente cancellato; gli ordini di gradini sono una quindicina circa, il settore meglio riconoscibile è rappresentato dall'edificio scenico, la tecnica edilizia impiegata sembra essere “ad opera incerta”, realizzata con scapoli di calcare locale, di grosse e medie dimensioni, appena sbozzati, uniti da tenace malta, rappezzati con rari blocchi di tufo.
A ragion veduta, bisogna comunque dire che lo sforzo fisico necessario a raggiungere il sito è ampiamente ripagato dalle emozioni che vi si vivono. Personalmente, da profano di queste cose, mi sono fatto l’idea che l’orografia del luogo, nei tempi in cui il teatro funzionava doveva essere ben diversa: forse il complesso edificio doveva sorgere al centro o ai margini di un ampio pianoro che ospitava anche un villaggio fortificato, e che tale morfologia è stata stravolta nel lungo lasso di tempo che è intercorso, per l’effetto di cataclismi di varia natura (frane e terremoti). Quanto possa essere verosimile tale ipotesi non lo so, compito di chi mi legge confermarla o confutarla ma, a poche ore dalla visita, rimane in me un senso di meraviglia e di stupore positivo nel pensare a quanto questo ritrovamento contribuisca alla convinzione di un’antica civiltà nell’alto casertano, la nostra, non solo dedita alla pastorizia, all’agricoltura ed alle armi, ma dotata di un culto del bello assolutamente singolare per il tempo che viveva.
La scoperta o, se vogliamo, la riscoperta avvenne nell’anno 2000 ed è dovuta al prof. Nicolino Lombardi di S.Potito Sannitico, dirigente scolastico dinamico, appassionato di volo ultraleggero e di foto aeree. In una mattina particolarmente tersa, dal minuscolo abitacolo ebbe l’intuizione e cominciò a scattare, e dopo, in studio l’esame più attento delle immagini confermò che qualcosa di importante stava per ritornare alla luce.
Il Teatro Tempio San Nicola, in agro del comune di Pietravairano venne costruito presumibilmente in età Romana-Repubblicana ( quarto/quinto secolo a.C.) ed è unico nel suo genere sopratutto per il suo posizionamento in altura. Si tratta di un complesso di fortificazioni di varia tipologia e grandezza con mura in opera poligonali che si caratterizzano lungo le dorsali ad una quota che va dai 300-600 metri. Arroccate su posizioni elevate esse dovevano rappresentare l'elemento più caratterizzante del paesaggio antico, perlomeno in epoca preromana. Le dimensioni del complesso archeologico non sono molto grandi, ma comunque in grado di porre allo studioso o al semplice visitatore, come il vostro blogger scribacchiante, innumerevoli domande, fra le quali quella di cui vi parlavo all’inizio dell’articolo.
La tipologia della parte inferiore è chiaramente quella di un teatro le cui gradinate si trovano in uno stato di conservazione variabile dal buono, al discreto, al completamente cancellato; gli ordini di gradini sono una quindicina circa, il settore meglio riconoscibile è rappresentato dall'edificio scenico, la tecnica edilizia impiegata sembra essere “ad opera incerta”, realizzata con scapoli di calcare locale, di grosse e medie dimensioni, appena sbozzati, uniti da tenace malta, rappezzati con rari blocchi di tufo.
A ragion veduta, bisogna comunque dire che lo sforzo fisico necessario a raggiungere il sito è ampiamente ripagato dalle emozioni che vi si vivono. Personalmente, da profano di queste cose, mi sono fatto l’idea che l’orografia del luogo, nei tempi in cui il teatro funzionava doveva essere ben diversa: forse il complesso edificio doveva sorgere al centro o ai margini di un ampio pianoro che ospitava anche un villaggio fortificato, e che tale morfologia è stata stravolta nel lungo lasso di tempo che è intercorso, per l’effetto di cataclismi di varia natura (frane e terremoti). Quanto possa essere verosimile tale ipotesi non lo so, compito di chi mi legge confermarla o confutarla ma, a poche ore dalla visita, rimane in me un senso di meraviglia e di stupore positivo nel pensare a quanto questo ritrovamento contribuisca alla convinzione di un’antica civiltà nell’alto casertano, la nostra, non solo dedita alla pastorizia, all’agricoltura ed alle armi, ma dotata di un culto del bello assolutamente singolare per il tempo che viveva.
giovedì 30 aprile 2015
PRIMO MAGGIO A FRADEJANNE
E’ una tradizione antica quella di salire alla piccola chiesetta di Santa Maria a Fradejanne, per il nostro dialetto “’ncoppa ‘a Maronna a Fradjanne”. Fino a qualche decennio fa la ricorrenza cadeva l’otto di maggio, giorno sacro alla Vergine, in cui tra l’altro si recita anche la “supplica”; dagli anni ottanta in poi il giorno è stato anticipato ad oggi, primo dello stesso mese, concomitante con la “festa del lavoro”,forse per favorire una più larga partecipazione. E’ un evento che coinvolge molti fedeli e pellegrini, provenienti da Pietramelara, Riardo, Roccaromana, Rocchetta e Croce, Formicola e Giano Vetusto. Uno o più sacerdoti celebrano la messa, nella chiesetta omonima oppure nell’eremo del San Salvatore situato sull’altro versante a monte del paesino di Croce. Ci si incontra tra amici e tra famiglie e si sale insieme per i sentieri del Monte Maggiore, ricchi di natura e panorami e quasi del tutto privi di pericolo. Per noialtri il programma è abbastanza codificato: si parte dal pianoro delle “fosse della neve”, ci si inerpica per il sentiero, che fa anche da “Via Crucis” fino alla chiesetta di Fradejanne, si ascolta la Santa Messa; chi sale per la prima volta rimane a bocca aperta di fronte al panorama mozzafiato che si gode dal ciglio del profondo strapiombo (vedi foto di copertina); chi vuole poi si inoltra sino al San Salvatore, sito a circa mezz’ora di cammino; al ritorno ci si ferma per il rituale picnic, o per dirla alla pietramelarese per il cosidetto “cummitiegliu” (etimologia: piccolo convito); è tutto un trionfo di frittate agli asparagi, salsicce e salumi vari, formaggi freschi e stagionati, la “pizza ‘e pummarole”, la pizza “cas’ e ove” e tant’altro della nostra gastronomia rurale.
Da parte di chi scrive molti ricordi ( … e ti pareva) di quando, in gioventù, seguivo gli operai forestali della Comunità Montana: insieme a loro abbiamo tracciato e realizzato il sentiero che da “fosse della neve” reca a Fradejanne, evitando di passare per “noccia”, con un notevole risparmio nella percorrenza che si è in tal modo abbreviata di una ventina di minuti
E’ una festa popolare, anche se da qualche anno ha perso un po’ di smalto, le cui origini, si è detto, risalgono a secoli e secoli fa, quando la montagna era popolata da boscaioli, carbonai e, chissà, da qualche banda di briganti: qualcuno che si prendesse cura delle loro povere anime doveva pur esserci; deve risalire a quei tempi, difficilmente databili con precisione, la costruzione delle due chiesette di Fradejanne in agro di Pietramelara, e del San Salvatore che appartiene a Rocchetta e Croce. Probabilmente qualche monaco eremita, Frate Giovanni, divenuto poi nella nostra lingua “Fradjanni” si ritirò in quei luoghi, incominciò a costruire il piccolo tempio e si occupò anche di dipingere l’immagine della Vergine, a dire il vero molto grossolana nel tratto e di scarso pregio artistico, ma ugualmente tanto presente nella memoria collettiva e nelle fede popolare di ognuno di noi.
Da parte di chi scrive molti ricordi ( … e ti pareva) di quando, in gioventù, seguivo gli operai forestali della Comunità Montana: insieme a loro abbiamo tracciato e realizzato il sentiero che da “fosse della neve” reca a Fradejanne, evitando di passare per “noccia”, con un notevole risparmio nella percorrenza che si è in tal modo abbreviata di una ventina di minuti
E’ una festa popolare, anche se da qualche anno ha perso un po’ di smalto, le cui origini, si è detto, risalgono a secoli e secoli fa, quando la montagna era popolata da boscaioli, carbonai e, chissà, da qualche banda di briganti: qualcuno che si prendesse cura delle loro povere anime doveva pur esserci; deve risalire a quei tempi, difficilmente databili con precisione, la costruzione delle due chiesette di Fradejanne in agro di Pietramelara, e del San Salvatore che appartiene a Rocchetta e Croce. Probabilmente qualche monaco eremita, Frate Giovanni, divenuto poi nella nostra lingua “Fradjanni” si ritirò in quei luoghi, incominciò a costruire il piccolo tempio e si occupò anche di dipingere l’immagine della Vergine, a dire il vero molto grossolana nel tratto e di scarso pregio artistico, ma ugualmente tanto presente nella memoria collettiva e nelle fede popolare di ognuno di noi.
venerdì 3 aprile 2015
TIPI STRANI
L’universo della mia infanzia, quello che io sono solito definire “prima galassia” (cfr.DUE GALASSIE,30/10/2011 http//scribacchiandoperme.blogspot.it/2011/10/due-galassie.html) , è costellato di personaggi particolari, figure che la memoria conserva, attori di uno spettacolo vivido e colorito, di cui Pietramelara è stata contemporaneamente palcoscenico e platea. Eccovene un piccolo campionario.
Ero un bambino di pochi anni, eppure la sua figura mi è rimasta impressa: si chiamava Ottavio,”Ottaviucciu” per tanti, pare che da giovane avesse fatto il sarto, e che nel suo mestiere avesse portato la fama di sapere il fatto suo, preciso nel tagliare, pronto ad individuare gusti e preferenze dei clienti che si rivolgevano a lui; proveniva da una famiglia benestante, anche se popolare e non borghese; si racconta che la passione non corrisposta per una donna lo avesse fatto precipitare in una profonda depressione, prima, ed in un’alienazione assoluta in seguito; non era pericoloso, e non dava fastidio a nessuno, nel suo continuo vagare, giorno e notte, per le strade del paese parlava in continuazione da solo, in un dialetto stretto e a bassa voce; aveva dei vezzi, tipo quello di non accettare sigarette se non quelle già parzialmente fumate da coloro che gliele offrivano; per qualche intemperanza un giorno fu ricoverato in un ospedale psichiatrico, un “manicomio” come si diceva allora, e non fece più ritorno in paese.
Che dire poi di Alò, donna anziana, sulla settantina, che abitava in via San Pasquale in un basso? … aveva vissuto in America da giovane, e il suo nomignolo era dovuto al tipico saluto americaneggiante che rivolgeva a tutti: “Hello”, in paese poi corrotto in Alò. Portava sempre dei grandi occhiali da sole molto scuri e si dipingeva le labbra con un rossetto di colore rosso vivo, i capelli erano sempre tinti; fumava e molto. Dovevo starle simpatico, perché ricordo bene che incontrandomi, da bambino con i miei, era solita rivolgermi un saluto particolare “Hello Francis”, con la voce roca e profonda, tipica di chi una sigaretta accende e l’altra spegne. La solitudine l’aveva fatta precipitare nell’alcolismo e man mano la spirale in cui era caduta la condusse sino alla morte.
Rivangando ancora nella memoria mi torna alla mente Frantonio (Frate Antonio), monaco questuante del Convento di San Pasquale, che girava chiedendo l’elemosina con una cassettina per le offerte in una mano e un campanello nell’altra;portava una bisaccia a tracolla dalla quale estraeva caramelline alla liquirizia che offriva ai bambini che mettevano una monetina nella cassetta; la cosa era più che notoria a tutti e quelle caramelline, che forse sono ancora in commercio, per tale motivo venivano universalmente chiamate “caramelle ‘e Frantonio”; la sua voce era di tono indefinito e variabile, andava dal basso profondo all’acuto, qualcuno per tale motivo si divertiva a chiamarlo “Frantonio settevucelle”; era originario dell’hinterland napoletano e nessuno sa il motivo per cui prese i voti, rimase presso il nostro convento per due o tre decenni ma poi, verso la metà degli anni 70 lo lasciò.
Storie tristi di amori delusi, di solitudine, di alienazione; anime perse che nella loro umiltà qualcosa l’avranno sicuramente lasciato se, a distanza di un cinquantennio qualcuno ancora parla e scribacchia di loro, come di tanti altri personaggi ancora, nel mio “Mondo Piccolo”, per tanti versi rassomigliante a quello di Giovannino Guareschi: “piccolo” proprio perché fatto non di grandi imprese e di uomini illustri, ma delle vicende di persone comuni e umili di un paese di campagna, tra le quali anche coloro che occupano posizioni più importanti nella gerarchia del mondo del paese, restano comunque piccoli, cioè umili e semplici come tutti gli altri abitanti, senza differenza alcuna con i tipi strani di cui vi ho parlato.
Ero un bambino di pochi anni, eppure la sua figura mi è rimasta impressa: si chiamava Ottavio,”Ottaviucciu” per tanti, pare che da giovane avesse fatto il sarto, e che nel suo mestiere avesse portato la fama di sapere il fatto suo, preciso nel tagliare, pronto ad individuare gusti e preferenze dei clienti che si rivolgevano a lui; proveniva da una famiglia benestante, anche se popolare e non borghese; si racconta che la passione non corrisposta per una donna lo avesse fatto precipitare in una profonda depressione, prima, ed in un’alienazione assoluta in seguito; non era pericoloso, e non dava fastidio a nessuno, nel suo continuo vagare, giorno e notte, per le strade del paese parlava in continuazione da solo, in un dialetto stretto e a bassa voce; aveva dei vezzi, tipo quello di non accettare sigarette se non quelle già parzialmente fumate da coloro che gliele offrivano; per qualche intemperanza un giorno fu ricoverato in un ospedale psichiatrico, un “manicomio” come si diceva allora, e non fece più ritorno in paese.
Che dire poi di Alò, donna anziana, sulla settantina, che abitava in via San Pasquale in un basso? … aveva vissuto in America da giovane, e il suo nomignolo era dovuto al tipico saluto americaneggiante che rivolgeva a tutti: “Hello”, in paese poi corrotto in Alò. Portava sempre dei grandi occhiali da sole molto scuri e si dipingeva le labbra con un rossetto di colore rosso vivo, i capelli erano sempre tinti; fumava e molto. Dovevo starle simpatico, perché ricordo bene che incontrandomi, da bambino con i miei, era solita rivolgermi un saluto particolare “Hello Francis”, con la voce roca e profonda, tipica di chi una sigaretta accende e l’altra spegne. La solitudine l’aveva fatta precipitare nell’alcolismo e man mano la spirale in cui era caduta la condusse sino alla morte.
Rivangando ancora nella memoria mi torna alla mente Frantonio (Frate Antonio), monaco questuante del Convento di San Pasquale, che girava chiedendo l’elemosina con una cassettina per le offerte in una mano e un campanello nell’altra;portava una bisaccia a tracolla dalla quale estraeva caramelline alla liquirizia che offriva ai bambini che mettevano una monetina nella cassetta; la cosa era più che notoria a tutti e quelle caramelline, che forse sono ancora in commercio, per tale motivo venivano universalmente chiamate “caramelle ‘e Frantonio”; la sua voce era di tono indefinito e variabile, andava dal basso profondo all’acuto, qualcuno per tale motivo si divertiva a chiamarlo “Frantonio settevucelle”; era originario dell’hinterland napoletano e nessuno sa il motivo per cui prese i voti, rimase presso il nostro convento per due o tre decenni ma poi, verso la metà degli anni 70 lo lasciò.
Storie tristi di amori delusi, di solitudine, di alienazione; anime perse che nella loro umiltà qualcosa l’avranno sicuramente lasciato se, a distanza di un cinquantennio qualcuno ancora parla e scribacchia di loro, come di tanti altri personaggi ancora, nel mio “Mondo Piccolo”, per tanti versi rassomigliante a quello di Giovannino Guareschi: “piccolo” proprio perché fatto non di grandi imprese e di uomini illustri, ma delle vicende di persone comuni e umili di un paese di campagna, tra le quali anche coloro che occupano posizioni più importanti nella gerarchia del mondo del paese, restano comunque piccoli, cioè umili e semplici come tutti gli altri abitanti, senza differenza alcuna con i tipi strani di cui vi ho parlato.
mercoledì 25 febbraio 2015
IL VENTRE DI NAPOLI... E LA PIOGGIA
Che effetto fa Napoli con la pioggia? Quali sono le sensazioni di un osservatore che, dal diciassettesimo piano di una torre del Centro Direzionale, ha sotto gli occhi una città dall’aspetto così lontano dalla consueta oleografia? … un’oleografia che artisti e media continuano a propinarci, ma che tanti danni ha fatto a questa città e a questo popolo, ieri come oggi.
Ci pensavo stamattina alla finestra: avevo sotto gli occhi questa città comunque bella, che sotto una pioggerellina incessante mi appariva come una sorta di ventaglio aperto tra mare e collina; e come in ogni altro ventaglio che si rispetti anche Napoli ha le sue piume, ed ogni piuma è un palazzo, una cupola, la guglia di un campanile, un silo del porto. E per ogni piuma una, cento, mille storie di vita, di lavoro, di amori, di passioni, di miseria, a volte di efferati crimini.
Assorto fra tali pensieri mi ero un po’ estraniato dal contesto e, ritornato in me, ho diretto lo sguardo oltre la ferrovia, nei quartieri del “risanamento”, tra il borgo orefici, il rettifilo, forcella, i tribunali, e non ho potuto fare a meno di pensare quanto ancora attuale fosse la denuncia forte e disincantata di Matilde Serao, riportata dal meraviglioso saggio dal nome “Il ventre di Napoli”, la cui lettura si è rivelata per me un’inesauribile fonte di conoscenza verso la città che tanto amiamo ma che poco o nulla ci è nota. La tesi della scrittrice era sostanzialmente questa: il popolo napoletano da sempre è condannato alla miseria ed al degrado, fisico e morale, a causa di una classe politica con scarsa conoscenza dei reali problemi e con interessi assolutamente divergenti dal vero “risanamento” della città. Il degrado osservato dalla grande Matilde era presente ai tempi del colera nel 1865, episodio che diede vita all’operazione “risanamento”, era presente qualche decennio dopo, ai tempi in cui il saggio fu scritto e purtroppo è presente ancora oggi, dopo più di un secolo e mezzo.
A pensarci bene c’è bisogno di una grigia giornata di pioggia, anche a Napoli, perché con il sole, la luce e i colori rendono tutto molto più bello ed accettabile; con il sole il mare è di un blu profondo, le facciate dei palazzi del centro storico assumono un fascino ed una tonalità tutta particolare che solo in pochi posti si può ammirare. Con la pioggia no!.. con la pioggia emerge la verità nel modo più crudo.
Ci pensavo stamattina alla finestra: avevo sotto gli occhi questa città comunque bella, che sotto una pioggerellina incessante mi appariva come una sorta di ventaglio aperto tra mare e collina; e come in ogni altro ventaglio che si rispetti anche Napoli ha le sue piume, ed ogni piuma è un palazzo, una cupola, la guglia di un campanile, un silo del porto. E per ogni piuma una, cento, mille storie di vita, di lavoro, di amori, di passioni, di miseria, a volte di efferati crimini.
Assorto fra tali pensieri mi ero un po’ estraniato dal contesto e, ritornato in me, ho diretto lo sguardo oltre la ferrovia, nei quartieri del “risanamento”, tra il borgo orefici, il rettifilo, forcella, i tribunali, e non ho potuto fare a meno di pensare quanto ancora attuale fosse la denuncia forte e disincantata di Matilde Serao, riportata dal meraviglioso saggio dal nome “Il ventre di Napoli”, la cui lettura si è rivelata per me un’inesauribile fonte di conoscenza verso la città che tanto amiamo ma che poco o nulla ci è nota. La tesi della scrittrice era sostanzialmente questa: il popolo napoletano da sempre è condannato alla miseria ed al degrado, fisico e morale, a causa di una classe politica con scarsa conoscenza dei reali problemi e con interessi assolutamente divergenti dal vero “risanamento” della città. Il degrado osservato dalla grande Matilde era presente ai tempi del colera nel 1865, episodio che diede vita all’operazione “risanamento”, era presente qualche decennio dopo, ai tempi in cui il saggio fu scritto e purtroppo è presente ancora oggi, dopo più di un secolo e mezzo.
A pensarci bene c’è bisogno di una grigia giornata di pioggia, anche a Napoli, perché con il sole, la luce e i colori rendono tutto molto più bello ed accettabile; con il sole il mare è di un blu profondo, le facciate dei palazzi del centro storico assumono un fascino ed una tonalità tutta particolare che solo in pochi posti si può ammirare. Con la pioggia no!.. con la pioggia emerge la verità nel modo più crudo.
martedì 17 febbraio 2015
LA PAPERA, IL FICO E LA FONTANA
Chi segue questo blog, è nato dalle nostre parti e vi ha vissuto l’infanzia un cinquantennio or sono o su di lì, potrà ricordarsi di una vecchia filastrocca che si usava ripetere ai bambini per intrattenerli. Come al solito in queste cose apparentemente semplici, c’è molto del nostro vissuto, della memoria collettiva della nostra gente e dei sentimenti che essa in larga parte condivideva. La filastrocca era accompagnata da una gestualità codificata e consisteva nell’identificare le piccole dita della mano del bambino con cinque omini, che venivano “chiamati in causa” piegando leggermente una ad una le dita stesse. Si cominciava con il prendere la piccola mano e, con il palmo rivolto verso l’alto si ripeteva la filastrocca che, se ben ricordo, faceva così:
...ccà ce sttà na funtanella
addò ce bbeve 'na paparella
(a questo punto si cominciava a piegare una ad una
delicatamente le piccole dita)
chistu l’acchiappa
chistu l’accire
chistu la spenna
n’atu s’a mangia
e chist’atu rice:
“ziu ziu ncoppa alla ficu
t’e mangiatu le ficu meie
c’è rimastu gli ciaccuni …
vieni rimani ca so mature”
che tradotto vuole dire
qui c’è una fontanella
dove beve una paperella
questo l’acchiappa
questo l’uccide
questo la spenna
un altro se la mangia
e quest’altro dice:
“uomo uomo sopra al fico
ti sei mangiato i miei fichi
ci hai lasciato solo quelle acerbe
ma se torni domani le troverai mature”
Si tratta come avrete potuto leggere di un quadretto idilliaco: una fresca fontanella, una graziosa ochetta che vi si reca per bere, che però culmina con un episodio cruento... c’è l’omino che acchiappa la papera, quello che l'uccide, quello che si occupa di spennarla ed il solito opportunista che se la pappa.
E’ vero, vi ho riportato solo una filastrocca infantile ed evidentemente partorita da menti poco avvezze alle lettere, ma comunque sempre in grado di farmi chiedere il perché delle tante incongruenze in essa contenute: prima di tutto il fatto che sia composta di due parti completamente slegate fra loro, poi per lo strano comportamento del quinto omino che, al posto di lamentarsi per essere stato escluso dal lauto pasto costituito dal pennuto in tal modo sacrificato, se la prende con un ladro di fichi, sinora non apparso nel contesto, rimproverandolo di aver lasciato sulla pianta solo i fichi acerbi (i ciaccuni), ma comunque invitandolo a ritornare domani perché li avrebbe trovati maturi.
E qui vi volevo, miei cari “quattro lettori”: non vi sembra questo il paradigma di una solidarietà sempre presente in diversi aspetti di quella civiltà, non è un comportamento solidale quello del quinto omino? … la gente di un tempo ormai trascorso di sicuro non versava nell’abbondanza, ma era comunque conscia dei doveri verso gli altri, anche, ad esempio,condividendo i frutti di un fico con un uomo anziano (ziu), e quindi nel bisogno, che senza alcun permesso se ne era cibato.
...ccà ce sttà na funtanella
addò ce bbeve 'na paparella
(a questo punto si cominciava a piegare una ad una
delicatamente le piccole dita)
chistu l’acchiappa
chistu l’accire
chistu la spenna
n’atu s’a mangia
e chist’atu rice:
“ziu ziu ncoppa alla ficu
t’e mangiatu le ficu meie
c’è rimastu gli ciaccuni …
vieni rimani ca so mature”
che tradotto vuole dire
qui c’è una fontanella
dove beve una paperella
questo l’acchiappa
questo l’uccide
questo la spenna
un altro se la mangia
e quest’altro dice:
“uomo uomo sopra al fico
ti sei mangiato i miei fichi
ci hai lasciato solo quelle acerbe
ma se torni domani le troverai mature”
Si tratta come avrete potuto leggere di un quadretto idilliaco: una fresca fontanella, una graziosa ochetta che vi si reca per bere, che però culmina con un episodio cruento... c’è l’omino che acchiappa la papera, quello che l'uccide, quello che si occupa di spennarla ed il solito opportunista che se la pappa.
E’ vero, vi ho riportato solo una filastrocca infantile ed evidentemente partorita da menti poco avvezze alle lettere, ma comunque sempre in grado di farmi chiedere il perché delle tante incongruenze in essa contenute: prima di tutto il fatto che sia composta di due parti completamente slegate fra loro, poi per lo strano comportamento del quinto omino che, al posto di lamentarsi per essere stato escluso dal lauto pasto costituito dal pennuto in tal modo sacrificato, se la prende con un ladro di fichi, sinora non apparso nel contesto, rimproverandolo di aver lasciato sulla pianta solo i fichi acerbi (i ciaccuni), ma comunque invitandolo a ritornare domani perché li avrebbe trovati maturi.
E qui vi volevo, miei cari “quattro lettori”: non vi sembra questo il paradigma di una solidarietà sempre presente in diversi aspetti di quella civiltà, non è un comportamento solidale quello del quinto omino? … la gente di un tempo ormai trascorso di sicuro non versava nell’abbondanza, ma era comunque conscia dei doveri verso gli altri, anche, ad esempio,condividendo i frutti di un fico con un uomo anziano (ziu), e quindi nel bisogno, che senza alcun permesso se ne era cibato.
sabato 7 febbraio 2015
RIECCOMI
Ritornare a scrivere (o scribacchiare come vuole il titolo del blog), miei cari quattro lettori, dopo due mesi di “silenzio stampa” non è stato facile e tantomeno mi ha riempito di entusiasmo. Quali i motivi di un silenzio mai durato tanto a lungo?... nessuno e tutti. Chi scribacchia per se e per gli altri, e lo fa senza altro scopo oltre il piacere stesso di farlo, vuole scrivere sempre cose sensate, capaci di destare interesse e condivisione ma, in tutto questo lasso di tempo niente è stato in grado di stimolare il mio estro, le mie emozioni. In altre parole, lo confesso, non ho scritto nulla perché non avevo nulla da scrivere ne su me stesso, ne sulla terra che continuo ad abitare, ne sulla “pietramelaresità”. Certo… avrei potuto “cavalcare la tigre” del malcontento diffuso nei miei concittadini continuando a lanciare strali di fuoco nei confronti di chi ci (dis)amministra ma, nonostante la mia notoria contrarietà al sistema, ritengo che il buon senso vada adoperato anche in questo ambito e che per tutto ci sia una misura, una soglia da non varcare. Tornerò a farlo appena lo riterrò opportuno.
Non è una dichiarazione di resa la mia, ne tantomeno una sorta di testamento: già in passato ho vissuto crisi del genere che, quasi sempre, sono state seguite da periodi molto intensi e penso che anche stavolta, nonostante la durata sensibilmente maggiore, dovrebbe trattarsi della stessa cosa.
Vi aggiorno su di me, se la cosa vi fa piacere, dopo un Natale quasi tutto trascorso in compagnia di una “fedele e duratura” influenza, il ritorno in ufficio ha comportato una significativa novità: distacco a Napoli, presso la Direzione Generale Politiche Agricole, Alimentari e Forestali; era stato manifestato un bisogno e il sottoscritto ha risposto “Presente!”. Come tutte le cose nuove tale distacco ha generato apprensioni: luoghi conosciuti, ma gente nuova per colleghi e superiori, metodi di lavoro e tematiche diverse e, quel che per me è peggio assenza completa di contatto con l’utenza, le aziende, gli Enti, gli uomini; il lavoro che ho condotto finora in gran parte era fatto proprio di questo: consulenza a tecnici, imprenditori, amministratori pubblici, partecipazione a convegni ed eventi vari, contatto continuo con la realtà agricola e rurale”in loco”. Ma… tant’è: mi abituerò anche a questo nuovo lavoro. Napoli è una città caotica quanto si vuole e relativamente lontana dal mio borgo natio ma tanto bella da rimanere incantati: dribblare il traffico appena sceso dal treno o lasciando l’ufficio, respirare la sua aria salsa, guardare il Golfo da una stanza al 17simo piano in parte attenuerà questo senso di ignoto che mi pervade.
Non è una dichiarazione di resa la mia, ne tantomeno una sorta di testamento: già in passato ho vissuto crisi del genere che, quasi sempre, sono state seguite da periodi molto intensi e penso che anche stavolta, nonostante la durata sensibilmente maggiore, dovrebbe trattarsi della stessa cosa.
Vi aggiorno su di me, se la cosa vi fa piacere, dopo un Natale quasi tutto trascorso in compagnia di una “fedele e duratura” influenza, il ritorno in ufficio ha comportato una significativa novità: distacco a Napoli, presso la Direzione Generale Politiche Agricole, Alimentari e Forestali; era stato manifestato un bisogno e il sottoscritto ha risposto “Presente!”. Come tutte le cose nuove tale distacco ha generato apprensioni: luoghi conosciuti, ma gente nuova per colleghi e superiori, metodi di lavoro e tematiche diverse e, quel che per me è peggio assenza completa di contatto con l’utenza, le aziende, gli Enti, gli uomini; il lavoro che ho condotto finora in gran parte era fatto proprio di questo: consulenza a tecnici, imprenditori, amministratori pubblici, partecipazione a convegni ed eventi vari, contatto continuo con la realtà agricola e rurale”in loco”. Ma… tant’è: mi abituerò anche a questo nuovo lavoro. Napoli è una città caotica quanto si vuole e relativamente lontana dal mio borgo natio ma tanto bella da rimanere incantati: dribblare il traffico appena sceso dal treno o lasciando l’ufficio, respirare la sua aria salsa, guardare il Golfo da una stanza al 17simo piano in parte attenuerà questo senso di ignoto che mi pervade.
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