E’ fra gli edifici storici di Pietramelara quello che maggiormente la caratterizza in senso geografico e di immagine: parlo della torre, ultimo residuo del castello distrutto nel nefasto 12 marzo 1496 dalle truppe aragonesi, giorno della presa e del sacco di Pietramelara (sullo stesso argomento in questo blog cfr. http://scribacchiandoperme.blogspot.com/2018/01/un-castello-da-risvegliare.html). Chiunque infatti fissa nella mente l’immagine del borgo, adagiato sullo sperone calcareo a forma di tronco di cono, non può non aver notato la torre alla sua sommità che emerge con la sua altezza fra case e palazzi, e soprattutto la sua posizione eccentrica rispetto al vertice.
Le origini si collocano nel periodo normanno/svevo (X-XI secolo) secondo alcuni, mentre altri le collocano in epoca longobarda. La torre si articola attualmente in due piani, residui degli originari quattro, di cui il terraneo adibito originariamente a serbatoio di acqua, strategico per la resistenza ai lunghi assedi. L’ingresso originario, di cui vi è ancora evidente traccia, è al primo piano: vi si poteva accedere mediante un ponte levatoio, di cui si conservano ancora tracce degli attacchi; è evidente che per poter arrivare a tale ponte levatoio sito a circa 7 metri di altezza, dovevano esserci scale o altre parti del castello distrutto al momento del sacco. Le volte che separano i piani sono a botte, orientate ortogonalmente fra loro, per distribuire meglio le spinte sulle pareti verticali. L’area di base, quadrata, misura 9 metri per 9, e a tal livello lo spessore delle murature calcaree è di 2 metri e 20, spessore che si riduce gradualmente salendo fino a un metro e 70, in sommità. La struttura portante è in calcare a blocchi regolarmente squadrati dalla base al primo piano, in tufo per i livelli superiori, sicuramente ricostruiti e più volte (cfr. immagine di copertina).
Da disegni e vecchi documenti pervenuti si è potuto intuire che ancora nell'800 la torre era a tre (o quattro) piani ed era presente una copertura a doppio spiovente; già allora era stata eliminato il coronamento a merli, sicuramente presente in origine. Tramontata l’importanza militare vari ne furono gli impieghi: quello di cui si ha tuttora traccia è l’allevamento dei colombi, essendo presenti al primo piano ancora numerosissime cellette ricavate nel muro, per accogliere i nidi. Partecipai negli anni 70 al campo di lavoro allestito dalla Pro Loco per liberare la torre da detriti derivanti dalla capitozzatura degli anni 60, e potei allora rendermi conto di alcuni graffiti presenti al piano superiore (oggi cancellati dall’intonaco), attestanti probabilmente l’impiego a cella carceraria.
Liberato il piano inferiore, sistemata e recintata la piccola area prospiciente, l’allora Amministrazione Sorbo finanziò una scala lignea, eliminata poi per far posto alle attuali scale a chiocciola metalliche. L’aspetto attuale è ancora quello di un imponente ed austero edificio, che si erge per oltre 15 metri in elevazione. Nei due piani coperti è stato allestito un piccolo museo; sulla terrazza a belvedere della sommità si può ammirare un suggestivo panorama sulla vasta piana circostante, detta dei 5 castelli (Pietramelara, Roccaromana, San Felice, Pietravairano, Riardo); in genere le visite guidate al borgo, organizzate dalla Pro Loco o altre associazioni sul territorio, si concludono con l’accesso a tale belvedere, e da molta soddisfazione in chi le organizza notare lo stupore, il piacere e la meraviglia di chi per la prima volta giunge in quel luogo grondante di storia: si può ammirare un paesaggio vario e ancora risparmiato dagli eccessi dell’urbanizzazione, la corona di borghi e castelli circostanti, le verdi campagne e i lussureggianti boschi del Monte Maggiore. Una tappa da non perdere visitando l’Alto casertano!
Scribacchiando per me
sabato 30 giugno 2018
venerdì 22 giugno 2018
RE LEONE
La “sindrome del Re Leone”, che prende il nome da un film a cartoni della Disney di qualche anno fa, si genera in una fase della vita familiare in cui il conflitto generazionale fra un padre e un figlio maschio diventa evidente. Comincia a manifestarsi appena dopo la pubertà dei figli, e si trascina più o meno con evidenza per decenni. Dalla parte del genitore vi sono le differenze di vedute, il modo un po’ morboso nel voler proteggere un figlio, l’essere legato a valori e stereotipi che le generazioni più giovani non condividono e non accettano, ed ancora l’inconfessata voglia di mantenere per sempre il proprio primato e lo status di potere. Dalla parte dei figli maschi, perché sono costoro a intravedere nella figura paterna un potenziale rivale, la smania di emergere, di fare da se con il proprio portato di informazioni in più, acquisite negli studi e/o con l’esperienza di vita. Qualche bisticcio, muso lungo portato per giorni, a volte mesi, ma poi finisce li: le conseguenze non sono in genere drammatiche e si stemperano nell'affetto reciproco.
La natura e la necessità hanno individuato nelle cure parentali e nei legami affettivi fra genitori e prole un strumento fondamentale per la sopravvivenza e il diffondersi di qualsiasi specie animale. Nella specie umana questo tipo di legame, un poco naturale perché insito nel corredo genetico, un poco culturale perché da sempre è così, tende a perpetuarsi anche ben oltre lo svezzamento ed il momento in cui i cuccioli lasciano padre e madre per affrontare la giungla. Ma questa è la regola!... a volte però si verificano le eccezioni, e quando queste eccezioni danno luogo a drammi che si consumano a pochi passi da noi rimaniamo attoniti e ci chiediamo il perché senza alcuna risposta convincente.
La natura e la necessità hanno individuato nelle cure parentali e nei legami affettivi fra genitori e prole un strumento fondamentale per la sopravvivenza e il diffondersi di qualsiasi specie animale. Nella specie umana questo tipo di legame, un poco naturale perché insito nel corredo genetico, un poco culturale perché da sempre è così, tende a perpetuarsi anche ben oltre lo svezzamento ed il momento in cui i cuccioli lasciano padre e madre per affrontare la giungla. Ma questa è la regola!... a volte però si verificano le eccezioni, e quando queste eccezioni danno luogo a drammi che si consumano a pochi passi da noi rimaniamo attoniti e ci chiediamo il perché senza alcuna risposta convincente.
sabato 16 giugno 2018
A' LIBRETTA
Viviamo i tempi della moneta elettronica, della moneta virtuale: il bitcoin che, confesso con candore ancora non ho capito cosa sia e a cosa serva. Gli acquisti li facciamo servendoci di carte di credito o bancomat, al supermercato e al centro commerciale, oppure on line su Amazon o altre piattaforme del genere. Si tratta di sicuro di grandi innovazioni, in grado di permettere servizi rapidi ed efficienti, risparmio per chi acquista, garanzie sulla qualità dei beni acquistati, economicità legata al non dover compiere spostamenti ecc. Eppure se mi soffermo un po’ a pensarci su, non posso non considerare come sia cambiato il mondo ed il sistema anche in questo campo, negli ultimi decenni.
Se rivado indietro solo di qualche tempo, rivedo me adolescente, oppure ancor giovane quando, in famiglia, per le spese quotidiane si utilizzava il sistema della cosiddetta “libretta”. A pensarci ora fa sorridere: si trattava in sostanza di un sistema di pagamento differito, basato sulla reciproca fiducia fra acquirente e negoziante: ci si recava in salumeria, si comprava ciò che di volta in volta serviva per le necessità quotidiane e al posto di pagare “cash”, come si direbbe oggi, chi aveva acquistato, il capofamiglia o un congiunto, trascriveva il conto della spesa su un minuscolo libretto (a' libretta per l'appunto) custodito dal negoziante, uno per ogni famiglia che aveva optato per tale modalità. Alla fine del mese, percepito lo stipendio, si portava a casa a’ libretta, e si faceva il conto di quanto si doveva corrispondere; la mia famiglia si è sempre servita dal nostro storico salumiere Michele, la cui attività sita di fronte all’innesto di via Angelone su via San Pasquale è cessata da tempo, e devo dire che in tanti anni di uso di tale sistema non ricordo mai una contestazione ne da una ne dall’altra parte, il conto lo aveva fatto ju pruf’ssore (mio padre, n.d.r), e non c’era motivo di dubitare sulla precisione dello stesso! Il nostro salumiere era talmente noto che ancor’oggi qualcuno usa definire quel punto di Pietramelara “annanzi addò Michele” (trad.:davanti da Michele), e innumerevoli erano anche le famiglie che avevano optato per tale comodo sistema che, è evidente, dati i tempi cambiati non è più assolutamente utilizzabile, anche perché l’obbligo di emissione dello scontrino determinerebbe una potenziale evasione per ogni acquisto. A’ libretta veniva utilizzata dai clienti di Michele, ma anche di tante altre salumerie in paese: da una parte vi era il vantaggio di differire il pagamento a momenti di maggiore disponibilità economica, dall’altra di utilizzare a’ libretta come efficace strumento di marketing in grado di attirare come clienti famiglie, un tempo più numerose di oggi, in grado di fare acquisti ingenti e continuati nel tempo. Oggi analogamente, alcuni esercizi accettano in pagamento buoni mensa, in luogo di moneta: il sistema non è più bilaterale, ma interviene un terzo soggetto che emette i buoni, il quale non di rado si è dimostrato molto meno affidabile e degno di fiducia dei clienti con libretta di un tempo.
Se rivado indietro solo di qualche tempo, rivedo me adolescente, oppure ancor giovane quando, in famiglia, per le spese quotidiane si utilizzava il sistema della cosiddetta “libretta”. A pensarci ora fa sorridere: si trattava in sostanza di un sistema di pagamento differito, basato sulla reciproca fiducia fra acquirente e negoziante: ci si recava in salumeria, si comprava ciò che di volta in volta serviva per le necessità quotidiane e al posto di pagare “cash”, come si direbbe oggi, chi aveva acquistato, il capofamiglia o un congiunto, trascriveva il conto della spesa su un minuscolo libretto (a' libretta per l'appunto) custodito dal negoziante, uno per ogni famiglia che aveva optato per tale modalità. Alla fine del mese, percepito lo stipendio, si portava a casa a’ libretta, e si faceva il conto di quanto si doveva corrispondere; la mia famiglia si è sempre servita dal nostro storico salumiere Michele, la cui attività sita di fronte all’innesto di via Angelone su via San Pasquale è cessata da tempo, e devo dire che in tanti anni di uso di tale sistema non ricordo mai una contestazione ne da una ne dall’altra parte, il conto lo aveva fatto ju pruf’ssore (mio padre, n.d.r), e non c’era motivo di dubitare sulla precisione dello stesso! Il nostro salumiere era talmente noto che ancor’oggi qualcuno usa definire quel punto di Pietramelara “annanzi addò Michele” (trad.:davanti da Michele), e innumerevoli erano anche le famiglie che avevano optato per tale comodo sistema che, è evidente, dati i tempi cambiati non è più assolutamente utilizzabile, anche perché l’obbligo di emissione dello scontrino determinerebbe una potenziale evasione per ogni acquisto. A’ libretta veniva utilizzata dai clienti di Michele, ma anche di tante altre salumerie in paese: da una parte vi era il vantaggio di differire il pagamento a momenti di maggiore disponibilità economica, dall’altra di utilizzare a’ libretta come efficace strumento di marketing in grado di attirare come clienti famiglie, un tempo più numerose di oggi, in grado di fare acquisti ingenti e continuati nel tempo. Oggi analogamente, alcuni esercizi accettano in pagamento buoni mensa, in luogo di moneta: il sistema non è più bilaterale, ma interviene un terzo soggetto che emette i buoni, il quale non di rado si è dimostrato molto meno affidabile e degno di fiducia dei clienti con libretta di un tempo.
mercoledì 13 giugno 2018
IL CIAO
Entrò nella mia giovane vita circa un cinquantennio fa, avevo poco più di nove anni in quel luglio 1969, lo comprò mio padre per se stesso, ma solo dopo qualche tempo per vari motivi fu mio, solo mio (o quasi), e da allora non ne è più uscito, perché tuttora lo posseggo, custodendolo gelosamente, anche se non lo uso ormai più. Parlo del Ciao, ciclomotore della Piaggio progettato dall'ingegner Gaddi, che sin dalla sua presentazione ebbe un rapido successo, soprattutto grazie ad uno strumento di marketing di particolare efficacia: la semplicità meccanica. Era provvisto infatti di un minuscolo motore a due tempi funzionante a miscela, raffreddato ad aria; l'avviamento era a pedali, molto simili a quelli di una bicicletta.
Dotato di un telaio molto semplice in lamiera d'acciaio, le cui forme richiamavano le biciclette da donna, e al cui interno era ricavato anche il serbatoio del carburante, e di impianto frenante a tamburo, divenne in breve tempo un veicolo di successo, al pari dell'altra famosa creazione della casa, la Vespa.
Nella fabbricazione si era cercato di ridurre al minimo i costi e di contenere il peso (inferiore a 40 kg, a secco); tutto era improntato alla massima semplicità, a partire dall'impianto delle sospensioni anteriori “a biscottino”. Per quanto riguarda il posteriore, la sospensione era addirittura inesistente e il comfort per il guidatore era affidato a delle molle sottostanti al sellino. Queste scelte tecniche resero possibile, di presentarlo al pubblico il 11 ottobre 1967, a un prezzo di listino che andava da 54.000 lire alle 61.000 lire (attuali 27/30 euro).
Uno dei suoi punti di forza era certamente il peso irrisorio, oltre al ridotto consumo di carburante, pari a circa 50 km/l, e alla manutenzione particolarmente semplificata. Il suo successo non fu limitato al mercato italiano, ed ottenne un buon riscontro anche sul mercato tedesco. Durante i quasi 40 anni di produzione, con 3 milioni e mezzo di esemplari, il Ciao è stato il ciclomotore italiano più venduto nel mondo.
La data di immatricolazione del mio Ciao, versione special con variatore, come da libretto in foto di copertina, è il 22 luglio 1969: per un riferimento temporale, il giorno prima un americano di nome Neil Armstrong aveva posato per primo il piede sul suolo lunare. Non esagero se dico che guidandolo ho imparato tanto, anche dalla vita: l’ho usato per spostamenti in paese, per andare a scuola, per le scorribande con amici dotati di mezzi dello stesso tipo e … anche per far colpo su qualche ragazza, anche se (non sempre) con pieno successo, forse anche perché la modestia del mezzo era un indicatore attendibile delle condizioni economiche del conducente . Tuttavia sono molto legato a questo m’zzicciull (piccolo mezzo), come lo chiamava mio padre nel suo idioma napoletaneggiante, per i ricordi che mi legano a lui, per le ore serene che ho trascorso guidandolo, perché per me soprattutto è diventato un’icona, un oggetto simbolo di quegli anni sereni e spensierati.
Dotato di un telaio molto semplice in lamiera d'acciaio, le cui forme richiamavano le biciclette da donna, e al cui interno era ricavato anche il serbatoio del carburante, e di impianto frenante a tamburo, divenne in breve tempo un veicolo di successo, al pari dell'altra famosa creazione della casa, la Vespa.
Nella fabbricazione si era cercato di ridurre al minimo i costi e di contenere il peso (inferiore a 40 kg, a secco); tutto era improntato alla massima semplicità, a partire dall'impianto delle sospensioni anteriori “a biscottino”. Per quanto riguarda il posteriore, la sospensione era addirittura inesistente e il comfort per il guidatore era affidato a delle molle sottostanti al sellino. Queste scelte tecniche resero possibile, di presentarlo al pubblico il 11 ottobre 1967, a un prezzo di listino che andava da 54.000 lire alle 61.000 lire (attuali 27/30 euro).
Uno dei suoi punti di forza era certamente il peso irrisorio, oltre al ridotto consumo di carburante, pari a circa 50 km/l, e alla manutenzione particolarmente semplificata. Il suo successo non fu limitato al mercato italiano, ed ottenne un buon riscontro anche sul mercato tedesco. Durante i quasi 40 anni di produzione, con 3 milioni e mezzo di esemplari, il Ciao è stato il ciclomotore italiano più venduto nel mondo.
La data di immatricolazione del mio Ciao, versione special con variatore, come da libretto in foto di copertina, è il 22 luglio 1969: per un riferimento temporale, il giorno prima un americano di nome Neil Armstrong aveva posato per primo il piede sul suolo lunare. Non esagero se dico che guidandolo ho imparato tanto, anche dalla vita: l’ho usato per spostamenti in paese, per andare a scuola, per le scorribande con amici dotati di mezzi dello stesso tipo e … anche per far colpo su qualche ragazza, anche se (non sempre) con pieno successo, forse anche perché la modestia del mezzo era un indicatore attendibile delle condizioni economiche del conducente . Tuttavia sono molto legato a questo m’zzicciull (piccolo mezzo), come lo chiamava mio padre nel suo idioma napoletaneggiante, per i ricordi che mi legano a lui, per le ore serene che ho trascorso guidandolo, perché per me soprattutto è diventato un’icona, un oggetto simbolo di quegli anni sereni e spensierati.
sabato 9 giugno 2018
CICLI
Anche nei rapporti sociali vi sono delle ciclicità che non si possono ignorare: se ripenso ai miei ultimi tre decenni mi rendo conto che di cicli ne ho vissuti almeno tre, uno per decennio. Tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta, ho partecipato ai matrimoni dei miei amici più stretti e, naturalmente, ho vissuto il mio. Erano quelli, anni veramente spensierati: gli studi finiti da poco, molte speranze, qualche soldino in tasca. Una filosofia condivisa poi, quella di vivere un po’ alla giornata, accontentandosi di quello che la vita ed il contesto ti presentava; serenità, gioia di vivere, senza le ansie derivanti dalle responsabilità che sarebbero inevitabilmente giunte dopo. Partecipare ad una festa, allora, era veramente un piacere! Stare insieme per scherzare, cazzeggiare (come si usa dire oggi) e, non ultimo, per gustare ciò che gli sposi avevano preparato per noi nel ricco menù. Tutt’altro discorso per il mio matrimonio: in particolare, è rimasta impressa la preoccupazione della mia mamma, non solo perché tutto andasse bene e per l’agio degli invitati, ma soprattutto perché stava per generarsi una nuova famiglia, con tutti i vantaggi e le criticità connesse.
Dopo qualche anno (e siamo alla fine dei novanta/inizio nuovo millennio), le prime comunioni della prole che quei matrimoni avevano generato. Tutto o quasi era cambiato: una famiglia da portare avanti, le responsabilità di un lavoro che man mano crescevano, erano contemperate dalla forza derivante da un’età che, sebbene non del tutto verde, ti metteva in grado di gestire tutto al meglio. Il cambio di millennio generava ansie ed aspettative positive: tanto per citarne una, chi non ricorda l’apprensione per il “millenium bug”, conosciuto anche come Y2K bug o Year 2000 problem, in italiano baco del millennio?.. è il nome attribuito ad un potenziale difetto informatico (bug) che si manifestò al cambio di data della mezzanotte tra il venerdì 31 dicembre 1999 e il sabato 1º gennaio 2000, problema che si rivelò poi di minor portata del previsto e piuttosto circoscritto, grazie alle misure di precauzione adottate. Le prime comunioni di quei preadolescenti erano feste gioiose anch’esse, velate di un po’ di malinconia per il tempo che passava inesorabile. Erano occasioni quelle per rivedere amici e coppie di amici che la vita, il lavoro ed altro avevano separato geograficamente da noi, ricordare la goliardia e l’allegria dei bei momenti trascorsi insieme.
Ed eccoci giunti ai giorni nostri, alla soglia del terzo decennio del duemila: i matrimoni dei nostri figli. Ho finito per rendermi conto dell’inizio di questo terzo ciclo, da qualche giorno. Aver partecipato giovedì alla bella festa per Alessandra ed Andrea (foto di copertina) insieme all’invito ricevuto poche ore fa per il matrimonio di Luigi, tra l’altro mio “patino” (tenuto a battesimo, n.d.r.), ha immediatamente in me generato tale convinzione.
L’emozione a volte ti coinvolge anche quando non ci pensi e, mentre ti incammini nel corteo nuziale, si genera il pensiero che di li a poco potrebbe essere la tua volta, ad accompagnare una sposa all’altare. La storia si ripete, secondo la grande intuizione di G.B. Vico, ed ecco che quei pensieri e quelle preoccupazioni di tua madre, tanti anni fa, potranno (dovranno) esser tuoi.
Dopo qualche anno (e siamo alla fine dei novanta/inizio nuovo millennio), le prime comunioni della prole che quei matrimoni avevano generato. Tutto o quasi era cambiato: una famiglia da portare avanti, le responsabilità di un lavoro che man mano crescevano, erano contemperate dalla forza derivante da un’età che, sebbene non del tutto verde, ti metteva in grado di gestire tutto al meglio. Il cambio di millennio generava ansie ed aspettative positive: tanto per citarne una, chi non ricorda l’apprensione per il “millenium bug”, conosciuto anche come Y2K bug o Year 2000 problem, in italiano baco del millennio?.. è il nome attribuito ad un potenziale difetto informatico (bug) che si manifestò al cambio di data della mezzanotte tra il venerdì 31 dicembre 1999 e il sabato 1º gennaio 2000, problema che si rivelò poi di minor portata del previsto e piuttosto circoscritto, grazie alle misure di precauzione adottate. Le prime comunioni di quei preadolescenti erano feste gioiose anch’esse, velate di un po’ di malinconia per il tempo che passava inesorabile. Erano occasioni quelle per rivedere amici e coppie di amici che la vita, il lavoro ed altro avevano separato geograficamente da noi, ricordare la goliardia e l’allegria dei bei momenti trascorsi insieme.
Ed eccoci giunti ai giorni nostri, alla soglia del terzo decennio del duemila: i matrimoni dei nostri figli. Ho finito per rendermi conto dell’inizio di questo terzo ciclo, da qualche giorno. Aver partecipato giovedì alla bella festa per Alessandra ed Andrea (foto di copertina) insieme all’invito ricevuto poche ore fa per il matrimonio di Luigi, tra l’altro mio “patino” (tenuto a battesimo, n.d.r.), ha immediatamente in me generato tale convinzione.
L’emozione a volte ti coinvolge anche quando non ci pensi e, mentre ti incammini nel corteo nuziale, si genera il pensiero che di li a poco potrebbe essere la tua volta, ad accompagnare una sposa all’altare. La storia si ripete, secondo la grande intuizione di G.B. Vico, ed ecco che quei pensieri e quelle preoccupazioni di tua madre, tanti anni fa, potranno (dovranno) esser tuoi.
domenica 3 giugno 2018
UNA FESTA LAICA CON AMPIO GRADO DI LIBERTA'
A evento concluso, penso che qualche considerazione si possa fare: parlo, è evidente, del Montemaggiore Festival, fissato per il primo maggio, rimandato per i noti motivi e quindi tenutosi ieri, 2 giugno.
Partiamo dall'inizio: la passeggiata naturalistica; non ha riscosso grande partecipazione, dieci quindici persone, è vero, ma forse si tratta della fase più autentica ed “in chiave” di tutta la manifestazione. Essa ha avvicinato alla nostra montagna giovani che non la conoscono, ed ha riavvicinato persone che in passato la frequentavano e oggi per motivi di vario ordine non lo fanno più; riporto il caso di Daniele, mio compagno di scuola, da oltre un quarantennio a Milano per lavoro, che non ha voluto farsi sfuggire l’occasione di ripercorre passi dell’infanzia e dell’adolescenza, quando nel bosco si andava per funghi, asparagi o semplicemente perché il territorio era vissuto nella sua interezza. Le tante foto pubblicate sui social, insieme ai commenti sono la dimostrazione più evidente del successo della passeggiata, al di la del numero di partecipanti.
Veniamo alla parte serale: il concerto, che ha visto la partecipazione soprattutto dei giovani, accorsi in gran numero alla nostra “area mercato” (per quanto ancora la chiameremo così?), è stato un momento di aggregazione come non si vedeva da tempo. Ha generato un’alternativa credibile alla solita uscita verso Vairano e i suoi soliti ritrovi; questo per un genitore ha la sua importanza, specie per uno ansioso come chi scrive. Gli standisti, soddisfatti dall’affluenza, hanno potuto dare il meglio di se stessi, offrendo una vetrina di produzioni alimentari tipiche. Se un’obiezione va fatta, essa è da legarsi alla mancata esibizione dei gruppi musicali locali, come avvenne lo scorso anno, privandoli di una chance di farsi conoscere di ampio respiro e coinvolgimento.
Quale la valenza di questo evento, giunto al secondo appuntamento: si è trattato di una “festa laica”, con ampio grado di libertà riguardo al programma, cosa significa? Anche la Sagra al Borgo lo è, da tanto tempo, ma essa è molto più restrittiva dovendosi, per forza di cose, incentrarsi sulla riscoperta e rivalutazione del borgo e della enogastronomia locale; in questo caso veramente l’organizzazione della Pro Loco ha potuto spaziare con la mente, dando vita ad un programma articolato e diversificato ove l’unico trait d’union era il luogo geografico dove si doveva tenere l’evento.
Partiamo dall'inizio: la passeggiata naturalistica; non ha riscosso grande partecipazione, dieci quindici persone, è vero, ma forse si tratta della fase più autentica ed “in chiave” di tutta la manifestazione. Essa ha avvicinato alla nostra montagna giovani che non la conoscono, ed ha riavvicinato persone che in passato la frequentavano e oggi per motivi di vario ordine non lo fanno più; riporto il caso di Daniele, mio compagno di scuola, da oltre un quarantennio a Milano per lavoro, che non ha voluto farsi sfuggire l’occasione di ripercorre passi dell’infanzia e dell’adolescenza, quando nel bosco si andava per funghi, asparagi o semplicemente perché il territorio era vissuto nella sua interezza. Le tante foto pubblicate sui social, insieme ai commenti sono la dimostrazione più evidente del successo della passeggiata, al di la del numero di partecipanti.
Veniamo alla parte serale: il concerto, che ha visto la partecipazione soprattutto dei giovani, accorsi in gran numero alla nostra “area mercato” (per quanto ancora la chiameremo così?), è stato un momento di aggregazione come non si vedeva da tempo. Ha generato un’alternativa credibile alla solita uscita verso Vairano e i suoi soliti ritrovi; questo per un genitore ha la sua importanza, specie per uno ansioso come chi scrive. Gli standisti, soddisfatti dall’affluenza, hanno potuto dare il meglio di se stessi, offrendo una vetrina di produzioni alimentari tipiche. Se un’obiezione va fatta, essa è da legarsi alla mancata esibizione dei gruppi musicali locali, come avvenne lo scorso anno, privandoli di una chance di farsi conoscere di ampio respiro e coinvolgimento.
Quale la valenza di questo evento, giunto al secondo appuntamento: si è trattato di una “festa laica”, con ampio grado di libertà riguardo al programma, cosa significa? Anche la Sagra al Borgo lo è, da tanto tempo, ma essa è molto più restrittiva dovendosi, per forza di cose, incentrarsi sulla riscoperta e rivalutazione del borgo e della enogastronomia locale; in questo caso veramente l’organizzazione della Pro Loco ha potuto spaziare con la mente, dando vita ad un programma articolato e diversificato ove l’unico trait d’union era il luogo geografico dove si doveva tenere l’evento.
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