Sveglia alle quattro, ieri mattina, dopo mezz’ora circa partenza, direzione Capodichino: Aeroporto Internazionale di Napoli. L’alba era ancora nascosta dietro l’orizzonte, mentre si caricavano valigie e zaini, l’aria fresca e frizzante, da primavera inoltrata. Non ero io che partivo ma mia figlia, diretta in Spagna per una vacanza studio. Raccomandazioni varie e ridondanti, la conoscenza degli accompagnatori, le emozioni per la separazione, l’attesa interminabile di quelle due o tre parole al telefono, che non arrivavano mai: “sono arrivata, sto bene, il viaggio è stato bello”, il senso piacevole di liberazione dall’ansia che viene appena dopo.
A margine, la constatazione di un cordone ombelicale ormai del tutto reciso! Si è vero, i distacchi per gite e brevi vacanze c’erano già stati, ma mai era andata così lontano e mai per tanto tempo.
Sono dell’avviso che i figli non ci appartengono, appartengono molto di più a se stessi; e ritengo che quando un figlio/a prende il volo con le proprie ali è come un amore che finisce: non va assolutamente trattenuto, sarebbe un errore gravissimo solo pensarci! Bisognerebbe invece gioire, pensare che parte della tua missione di genitore va avanti, che qualcosa di buono è stato fatto, che il percorso fatto insieme per giungere ad una giovane donna che si prepara alla vita è ad un buon punto. Tuttavia rimane quel senso strano di solitudine, di smarrimento per una fase ormai conclusa e che non si ripeterà mai più, insieme al rincrescimento, perché queste cose sono conseguenza del tempo che scorre inesorabile e, mentre loro crescono si invecchia.
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