Dividere un patrimonio ereditato dopo che termina la vita di un genitore, infatti, aggiunge al dolore per la dipartita di una persona cara, anche il fastidio di discussioni interminabili, puntigli che impegnano in trattative lunghissime ed estenuanti, prima di giungere ad un risultato soddisfacente. Si ha notizia che le controversie si sono trascinate in alcuni casi per anni interi, a volte decenni, con il risultato che, tra spese legali e giudiziarie, perizie e scartoffie varie, gran parte dell’eredità si volatilizza. Va detto che in talune situazioni le ingiustizie possono provenire proprio dal testatore, il quale, nel dividere il patrimonio, si fa guidare più dalle preferenze e simpatie che da un criterio equo, nel vero senso della parola.
Anche in questo ambito
la saggezza popolare ha detto la sua: l’eredità, secondo coscienza, va divisa
in parti uguali! C’è una curiosa espressione nel nostro dialetto, utilizzata
sino a qualche decennio fa ed oggi forse dimenticata, che si riferisce proprio
a tale criterio di equità nella divisione ereditaria… l’avete sentita, la
conoscete? “Tric trac, tant’ a parte”. I botti di Natale non c’entrano affatto:
essa vuol dire, in altre parole che ogni quota dell’eredità deve assumere per ciascun
coerede un valore congruo ed equivalente. Non conosco la derivazione e/o
l’etimologia della cosa: azzardando una spiegazione il tric dovrebbe essere un
parametro indefinito, una sorta della "X" in algebra, la cui entità economica deve
essere pari (o quasi) al trac, altro parametro indefinito, da cui la volontà
del testatore di non commettere ingiustizie, nei confronti di chi gli
sopravvive. Se il tric equivale a un mezzo, un terzo (e via dicendo)
dell’eredità, altrettanto varrà il trac.
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