Eravamo tanti, eravamo bellissimi, eravamo semplici e forti, noi ragazzi della via Angelone.
Nata da una lottizzazione iniziata poco dopo l’ultima guerra, la strada, la mia strada è un filo teso per circa trecento metri, una schiera di case a destra e una a sinistra le fanno da sponde, un sole caldo d’inverno e torrido d’estate, le fa da corona,
Ho abitato in questo luogo dalla nascita, e veramente posso dire di conoscerlo pietra per pietra, cancello per cancello.
Dei ragazzi, dicevo, di quella banda di carissimi scalmanati, nati fra la fine dei ’50 e l’inizio dei ’60, in pantaloncini corti anche d’inverno e con la neve, le ginocchia sempre sbucciate, i calzini ridiscesi sulle caviglie, le scarpe abrase da un’iperattività frenetica. Oggi sono uomini “fatti”, padri di famiglia, professionisti, imprenditori, ma io preferisco ricordarli sempre in quella veste da “cinema neorealista”.
Nella bella stagione i giochi iniziavano appena dopo quel poco di studio che si riassumeva nell’espressione “far’s e lezion’” : partite a pallone interminabili, giocate per ore ed ore, sino alla consumazione delle energie, su un’aia che non assolveva più alla sua funzione o sulle stoppie di un campo proprio dietro casa e, chi cadeva subiva la sorte dei fachiri perché quelle stoppie, specie se appena mietute erano dure come i chiodi, oppure giochi di guerra nell’alveo secco di un ruscello che lambiva quell’improvvisato stadio; tutto questo fino ad ora di cena, quando le mamme, dai balconi e dalle finestre, cominciavano quell’attività di richiamo prima gentile “a mammà vieni a cenà” e poi…via via sempre più minacciosa, fino ad arrivare a: “mò facciu scegn’ a pat’tu… e po’ viri” (adesso viene a prenderti tuo padre, e vedrai, ndr); se la minaccia era stata abbastanza persuasiva, mentre si percorrevano le poche decine di metri per rincasare si veniva raggiunti dagli odori sprigionati dalle cucine che davano sulla strada: frittate, peperoni fritti e leccornie rurali varie.
Nelle sere d’estate, poi, dopo aver cenato, si usciva di nuovo fuori, nel vicinato; i grandi “frischiavano” discorrendo insieme di cose antiche, e noi ragazzi si giocava a nascondino, a palla prigioniera, al “padrone del marciapiede”, fino a quando una delle mamme, stanca di una giornata iniziata prima dell’alba, proferiva, con il piglio e l’autorità di un sergente prussiano. la formula di rito: “jammu mé, masculi cu masculi e femm’ne cu femm’ne” (suvvia, maschi con maschi e femmine con femmine, ndr), che segnava la fine dei giochi e stabiliva, senza repliche, che era ormai ora di andare a letto.
L’aria aperta era il luogo naturale ed unico dei giochi e…chi di noi, anche se dotato di grande fantasia, avrebbe potuto immaginare i giochi attuali di bambini e ragazzi, concentrati su play stations e diavolerie elettroniche varie.
Eravamo in tanti, noi di via Angelone, se ci penso adesso quei pochi che sono rimasti si possono contare sulle dita di una sola mano ma…quante emozioni racchiude il ricordare quegli anni, quella strada allora brulicante di bambini, oggi ricolma di auto parcheggiate ma deserta e quel tempo, tanto remoto nello spirito delle persone e delle cose ma, tutto sommato, distante solo qualche decennio!
Scribacchiando per me
sabato 26 gennaio 2013
mercoledì 23 gennaio 2013
DELLA GOLIARDIA RURALE
A voler dare ascolto a Wikipedia “la goliardia è il tradizionale spirito che anima le comunità studentesche, soprattutto universitarie, in cui alla necessità dello studio si accompagnano il gusto della trasgressione, la ricerca dell'ironia, il piacere della compagnia e dell'avventura”. Era ed è soprattutto un modo di essere, sfidando convenzioni e regole; una cosa per gente colta ed altolocata, allora? …Non direi!
L’aneddotica locale, tramandata dalla tradizione orale, ci racconta anche di una goliardia “rurale” riportando episodi, a volte molto gustosi, a volte venati di sottile cattiveria, racconti di scherzi e tiri mancini, che hanno per protagonisti gente semplice, popolani e contadini; costoro avevano escogitato tale sistema per trascorrere in modo allegro e scanzonato quel po’ di tempo libero nelle giornate di allora, ben grigie, anche in considerazione delle condizioni economiche generalmente misere.
A tal proposito, si narra ad esempio di un tale, detto ‘mbecigliu (imbecille, ndr), abituale burlone, che aveva individuato nel sacrestano di San Rocco, notorio fifone, la vittima predestinata per scherzi feroci; il nostro, nelle prime ore del mattino, approfittando del buio seguiva in chiesa il povero sacrestano impegnato nel suonare le campane per la prima Messa, si nascondeva in una bara vuota usata per le funzioni funebri, e spaventava la vittima facendo fuoriuscire dalla bara solo un braccio e trattenendo con forza il povero malcapitato per la giacchetta che, terrorizzato, cercava invano di dileguarsi.
Altri raccontano di finte prove di coraggio, provocate con l’inganno, consistenti nel dover scavalcare di notte il muro del cimitero, per raccogliervi le rose particolarmente belle e profumate che vi si trovavano; gli stessi che avevano proposto la prova, di nascosto, scavalcavano, prima della vittima dello scherzo, il muro, nascondendosi dietro le tombe e, appena costui faceva per recidere la rosa, lo terrorizzavano con voci da oltretomba e urla sataniche.
Di sapore meno “noir”, rispetto ai precedenti, lo scherzo abitualmente teso ad un tale, mezzo matto, di nome Carluccio che, senza alcuna ragione, non voleva assolutamente udire espressioni del tipo “’a lampadina fulminata” e i “cacciuttiegli (cagnolini, ndr) bianchi e russi”: nel bar frequentato da Carluccio qualcuno si nascondeva sotto una di quelle monumentali radio a valvole degli anni 30/40, e fingendo di trasmettere un giornale radio, tra una notizia ed un’altra comunicava, ad esempio: “nel porto di Napoli è giunta una nave carica di lampadine fulminate e cacciuttiegli bianchi e russi”; il poveretto allora, montando su tutte le furie, resosi conto dell’ennesima burla, cominciava a scalciare il tavolo che sosteneva la radio, ed allora all’improvvisato e finto radiocronista non restava che dileguarsi alla svelta, per evitare conseguenze ben spiacevoli.
Una goliardia “rurale”, quindi, ma non per questo meno ricca di fatti e personaggi singolari, ed anch’essa segno di quel tempo e di quella società contadina, complessa e sfaccettata, a cui ancor’oggi dobbiamo tanto.
L’aneddotica locale, tramandata dalla tradizione orale, ci racconta anche di una goliardia “rurale” riportando episodi, a volte molto gustosi, a volte venati di sottile cattiveria, racconti di scherzi e tiri mancini, che hanno per protagonisti gente semplice, popolani e contadini; costoro avevano escogitato tale sistema per trascorrere in modo allegro e scanzonato quel po’ di tempo libero nelle giornate di allora, ben grigie, anche in considerazione delle condizioni economiche generalmente misere.
A tal proposito, si narra ad esempio di un tale, detto ‘mbecigliu (imbecille, ndr), abituale burlone, che aveva individuato nel sacrestano di San Rocco, notorio fifone, la vittima predestinata per scherzi feroci; il nostro, nelle prime ore del mattino, approfittando del buio seguiva in chiesa il povero sacrestano impegnato nel suonare le campane per la prima Messa, si nascondeva in una bara vuota usata per le funzioni funebri, e spaventava la vittima facendo fuoriuscire dalla bara solo un braccio e trattenendo con forza il povero malcapitato per la giacchetta che, terrorizzato, cercava invano di dileguarsi.
Altri raccontano di finte prove di coraggio, provocate con l’inganno, consistenti nel dover scavalcare di notte il muro del cimitero, per raccogliervi le rose particolarmente belle e profumate che vi si trovavano; gli stessi che avevano proposto la prova, di nascosto, scavalcavano, prima della vittima dello scherzo, il muro, nascondendosi dietro le tombe e, appena costui faceva per recidere la rosa, lo terrorizzavano con voci da oltretomba e urla sataniche.
Di sapore meno “noir”, rispetto ai precedenti, lo scherzo abitualmente teso ad un tale, mezzo matto, di nome Carluccio che, senza alcuna ragione, non voleva assolutamente udire espressioni del tipo “’a lampadina fulminata” e i “cacciuttiegli (cagnolini, ndr) bianchi e russi”: nel bar frequentato da Carluccio qualcuno si nascondeva sotto una di quelle monumentali radio a valvole degli anni 30/40, e fingendo di trasmettere un giornale radio, tra una notizia ed un’altra comunicava, ad esempio: “nel porto di Napoli è giunta una nave carica di lampadine fulminate e cacciuttiegli bianchi e russi”; il poveretto allora, montando su tutte le furie, resosi conto dell’ennesima burla, cominciava a scalciare il tavolo che sosteneva la radio, ed allora all’improvvisato e finto radiocronista non restava che dileguarsi alla svelta, per evitare conseguenze ben spiacevoli.
Una goliardia “rurale”, quindi, ma non per questo meno ricca di fatti e personaggi singolari, ed anch’essa segno di quel tempo e di quella società contadina, complessa e sfaccettata, a cui ancor’oggi dobbiamo tanto.
giovedì 10 gennaio 2013
DELLA FANTASIA
Che cos’è la fantasia se non un paio d’ali capaci di farci volare molto, ma molto in alto? Certo, riatterrare a volte è doloroso, specie quando la discesa e la “perdita di quota” si fanno troppo rapide, ed allora quel senso di libertà insito nel volare, si trasforma man mano in timore, e poi in terrore, di toccare il suolo con un violento impatto.
Non è tanto da filosofi “del pensiero debole” librarsi sulle ali della fantasia; costoro, infatti, realisti e disincantati come sono, preferiscono “tenere i piedi per terra”; tuttavia ritengo che la fantasia sia una delle nostre alleate più preziose: ci permette di superare momenti difficili, ci estranea da contesti permeati dall’ostilità e dal dolore, è in grado, mediante supposizioni ardite, di pervenire a risultati che, presto o tardi, vengono suffragati dalla realtà più tangibile.
La fantasia è tipica degli artisti, dei poeti, dei narratori e gran parte della nostra cultura è parto di essa. Pensate, ad esempio, cosa sarebbe stato di un uomo di nome Dante Alighieri privo di fantasia: l’oblio l’avrebbe inghiottito e divorato poco tempo dopo la sua scomparsa fisica…la fantasia lo ha consegnato alla vera immortalità.
E’ vero… da sola non serve a molto! Va contemperata con l’equilibrio, l’esperienza, la sapienza e l’intelligenza, altrimenti l’uomo dotato di essa altro non sarebbe che un venditore di frottole, più o meno piacevoli da ascoltarsi. Resta essa comunque un dono, un carisma capace di farci superare la dimensione immanente nella quale ci dimeniamo, a volte scompostamente.
Non è tanto da filosofi “del pensiero debole” librarsi sulle ali della fantasia; costoro, infatti, realisti e disincantati come sono, preferiscono “tenere i piedi per terra”; tuttavia ritengo che la fantasia sia una delle nostre alleate più preziose: ci permette di superare momenti difficili, ci estranea da contesti permeati dall’ostilità e dal dolore, è in grado, mediante supposizioni ardite, di pervenire a risultati che, presto o tardi, vengono suffragati dalla realtà più tangibile.
La fantasia è tipica degli artisti, dei poeti, dei narratori e gran parte della nostra cultura è parto di essa. Pensate, ad esempio, cosa sarebbe stato di un uomo di nome Dante Alighieri privo di fantasia: l’oblio l’avrebbe inghiottito e divorato poco tempo dopo la sua scomparsa fisica…la fantasia lo ha consegnato alla vera immortalità.
E’ vero… da sola non serve a molto! Va contemperata con l’equilibrio, l’esperienza, la sapienza e l’intelligenza, altrimenti l’uomo dotato di essa altro non sarebbe che un venditore di frottole, più o meno piacevoli da ascoltarsi. Resta essa comunque un dono, un carisma capace di farci superare la dimensione immanente nella quale ci dimeniamo, a volte scompostamente.
lunedì 7 gennaio 2013
Un presepe tutto...da camminare
Un’esperienza vissuta tra l’arte, la tradizione e la fede: sicuramente ciò che ha spinto la signora Luisa De Robbio, con la convinta collaborazione del marito, Franco Natale, a realizzare, a ridosso delle recenti festività natalizie, un bellissimo presepe in uno stile tutto proprio.
I collegamenti con la tradizione presepiale napoletana ci sono tutti ma, da soli, non sufficienti a spiegare la complessità ed il messaggio dell’opera.
Un presepe fatto di angoli: un paesaggio lacustre con una fresca cascatella, scene di vita popolare animate e non, il deserto (altro richiamo perentorio alla Fede) e, immancabile, sulla destra della Natività, una rappresentazione stilizzata del nostro borgo con la torre, quadrata e bicolore, quasi a voler rimarcare, anche in tale occasione, qualora ve ne fosse il bisogno, l’amore e l’attaccamento di ogni pietramelarese per la terra natia.
Una descrizione a parte merita la Grotta di Betlemme: la scena della Natività è stata ottenuta grazie ad un sapiente intreccio di vecchi legni di olivo e muschi (vedi foto); è un po’ il fulcro, il baricentro di tutta l’opera, essendo situata nel punto centrale dell’intera realizzazione; l’effetto ottico che si presenta all’osservatore è quello di una spelonca umile e poco accogliente ma, proprio per questo, scelta dalla Sacra Famiglia per far nascere il Redentore, in piena coerenza, quindi, con il messaggio evangelico.
Ritengo molto appropriata, poi, e finalizzata alla migliore fruizione possibile, l’idea di aver realizzato un percorso pedonale, pavimentato in ghiaia, all’interno del presepe stesso; tale percorso si integra perfettamente con il resto del presepe e non sembra affatto un particolare aggiunto. E’ un po’ il fil rouge che lega fra loro le varie scenette ed angoli del presepe. Il visitatore, camminando liberamente “dentro l’opera”, potrà rendersi conto di ogni minimo particolare predisposto dall’autrice, da vicino, quasi toccando con mano: una donna che inforna il pane, i panni stesi, una povera stanza da letto con un’immagine sacra e… tant’altro; particolari curatissimi ma di minime dimensioni che, se non fosse stato escogitato tale sistema, sarebbero sfuggiti a più. Tutto da camminare, quindi,il nostro presepe.
Di notte poi la suggestione è sicura, con mille lucette e barbaglii che traspaiono da balconcini e finestrelle, dalla volta stellata…e la musica natalizia fa il resto!
Un lumimoso esempio di arte popolare offerto da una coppia di coniugi pietramelaresi, senza alcuna pretesa, se non quella di ricevere tante visite. Chi fosse interessato ad ammirare l’opera può farlo prendendo appuntamento e recandosi presso la loro abitazione, sita nei pressi del vecchio macello, oggi Smile Club.
I collegamenti con la tradizione presepiale napoletana ci sono tutti ma, da soli, non sufficienti a spiegare la complessità ed il messaggio dell’opera.
Un presepe fatto di angoli: un paesaggio lacustre con una fresca cascatella, scene di vita popolare animate e non, il deserto (altro richiamo perentorio alla Fede) e, immancabile, sulla destra della Natività, una rappresentazione stilizzata del nostro borgo con la torre, quadrata e bicolore, quasi a voler rimarcare, anche in tale occasione, qualora ve ne fosse il bisogno, l’amore e l’attaccamento di ogni pietramelarese per la terra natia.
Una descrizione a parte merita la Grotta di Betlemme: la scena della Natività è stata ottenuta grazie ad un sapiente intreccio di vecchi legni di olivo e muschi (vedi foto); è un po’ il fulcro, il baricentro di tutta l’opera, essendo situata nel punto centrale dell’intera realizzazione; l’effetto ottico che si presenta all’osservatore è quello di una spelonca umile e poco accogliente ma, proprio per questo, scelta dalla Sacra Famiglia per far nascere il Redentore, in piena coerenza, quindi, con il messaggio evangelico.
Ritengo molto appropriata, poi, e finalizzata alla migliore fruizione possibile, l’idea di aver realizzato un percorso pedonale, pavimentato in ghiaia, all’interno del presepe stesso; tale percorso si integra perfettamente con il resto del presepe e non sembra affatto un particolare aggiunto. E’ un po’ il fil rouge che lega fra loro le varie scenette ed angoli del presepe. Il visitatore, camminando liberamente “dentro l’opera”, potrà rendersi conto di ogni minimo particolare predisposto dall’autrice, da vicino, quasi toccando con mano: una donna che inforna il pane, i panni stesi, una povera stanza da letto con un’immagine sacra e… tant’altro; particolari curatissimi ma di minime dimensioni che, se non fosse stato escogitato tale sistema, sarebbero sfuggiti a più. Tutto da camminare, quindi,il nostro presepe.
Di notte poi la suggestione è sicura, con mille lucette e barbaglii che traspaiono da balconcini e finestrelle, dalla volta stellata…e la musica natalizia fa il resto!
Un lumimoso esempio di arte popolare offerto da una coppia di coniugi pietramelaresi, senza alcuna pretesa, se non quella di ricevere tante visite. Chi fosse interessato ad ammirare l’opera può farlo prendendo appuntamento e recandosi presso la loro abitazione, sita nei pressi del vecchio macello, oggi Smile Club.
martedì 1 gennaio 2013
BUONU E BUON'ANNU
Era un po’ come il “Dolcetto o scherzetto?” del giorno di Halloween, di derivazione celtica (cosa c’entriamo poi noi con i celti me lo sono sempre chiesto). Nella sera dell’ultimo dell’anno, e nel giorno di capodanno, frotte di bambini ed adolescenti, si aggiravano per il paese e le campagne, con un sacchetto a foggia di bisaccia su una spalla, ripetendo e canticchiando la filastrocca tramandata da tempo immemore (qualcuno vuole che si tratti di un uso precristiano): “…buonu e buon annu e buonu capurannu, dacce gli ‘mbertu come a chigl’atu annu”; il primo pezzo augurale è facilmente traducibile, nel secondo veniva formulata la richiesta, come contropartita dell’augurio appena formulato del “’mbertu”. Di cosa si trattava?... l’etimologia deriverebbe da “‘nferta” (offerta), e consisteva in sostanza nel piccolo dono che la persona a cui l’augurio era rivolto offriva all’augurante: arance, mandarini, caramelle in tempi più recenti, qualche semplice dolcetto, na ‘vrancata (quantità contenibile nel palmo di una mano) di confetti, quando la cosa andava particolarmente bene: questo e non di più!
La mia generazione forse è stata l’ultima, dopo millenni, a perpetuare e poi vedere estinguersi questa suggestiva tradizione; il cantare, aggirandosi per le case, “buonu e buon annu…” era anch’esso connotato da quella solidarietà tipica di una civiltà rurale di cui sopravvivono solo sparute vestigia e qualche ricordo nella memoria dei nostalgici, dediti a scribacchiarne.
La mia generazione forse è stata l’ultima, dopo millenni, a perpetuare e poi vedere estinguersi questa suggestiva tradizione; il cantare, aggirandosi per le case, “buonu e buon annu…” era anch’esso connotato da quella solidarietà tipica di una civiltà rurale di cui sopravvivono solo sparute vestigia e qualche ricordo nella memoria dei nostalgici, dediti a scribacchiarne.
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