Cosa comunica una vecchia foto scattata davanti scuola sul finire degli anni cinquanta? Considerazioni, emozioni, perplessità … Ho scritto questo pezzo “a gentile richiesta” di uno dei bambini ritratti nella foto, forse per soddisfare un desiderio di perpetuare, affidandolo al web, il ricordo di uno stare insieme.
Il dopoguerra non era ancora terminato e i “tempi migliori” dei successivi anni del boom economico, forse, ancora non si intravedevano: il modo di vestire la dice lunga! … Così come la dice lunga l’atteggiamento, l’applomb del maestro Giannetti, compassato nel suo ruolo: giacca e cravatta, l’immancabile penna al taschino e l’espressione seria, la posizione quasi in militaresco “attenti”, rendono l’idea di una scuola in cui si avvertiva ancora fortemente il senso della gerarchia, del rispetto assoluto dei ruoli e dei simboli che li rappresentavano. Un retaggio delle epoche precedenti: la scuola post unitaria ed umbertina della profonda divisione sociale, ancor più avvertibile nelle aree rurali, e quella del fascismo voluta da Gentile. Guardando gli anni di nascita dalla pagina di registro che mi è stata procurata, ho potuto notare che se, nella maggior parte, si tratta di bambini nati nel 1950 o 1951, non manca chi è del ‘48 o ’49, evidentemente pluriripetente: si usava ancora allora, sapete?
Gli scolari provenivano da ‘ncoppa ju paese (dal borgo), oppure da sperdute masserie, collegate all’abitato da vie impercorribili in inverno per il fango e in estate per la polvere, che si sollevava fastidiosa ad ogni passo di chi le percorreva. Ricordo distintamente che costoro a metà percorso, nelle prime case dell’abitato conservavano un paio di scarpe pulite per la scuola, le mettevano all’andata e le riconsegnavano all’affidatario al ritorno, per recarsi a casa con degli stivaletti o vecchie scarpacce più adatte a quelle strade. Qualcuno dei raffigurati purtroppo ci ha già lasciato da tempo, portando con se un bagaglio di speranze per il futuro ed ambizioni da soddisfare e… lasciate a metà. Qualcuno ha studiato, è diventato prete e parroco. Altri sono andati a “ju mastru” (a fare da apprendisti) dopo la scuola ed in estate, e con il tempo sono divenuti abili e richiesti artigiani. Le bambine, ormai nonne, per lo più sono state delle ottime madri e mogli, hanno sostenuto gli sforzi lavorativi dei mariti, e a loro va riconosciuto buona parte del merito per progressi economici e nella scala sociale. Altri ed altre ancora hanno conosciuto l’emigrazione, con l’immancabile smarrimento di chi si separa dalla sua terra, ma può vantare, a conti fatti, di aver ampliato la conoscenza del mondo, di culture e modi di vivere diversi, insieme all’immancabile beneficio derivante da occupazioni meglio retribuite. Chissà se qualcuno di loro, partendo con l’immancabile valigia di cartone e il groppo in gola, avrà potuto pensare che 50 anni dopo l’Italia del sud, da paese di emigrati, si sarebbe trasformata in terra di accoglienza e di immigrazione?
I nomi sono quelli soliti usati in paese: Gaetano, Pasquale, Salvatore, Gennaro, Antonietta, Maria; è evidente che i papà e le mamme non si erano ancora fatti contagiare da mode esterofile anche nel dare nomi ai propri figli.
Questa foto, per la quale sono grato a chi me l’ha inviata, è un documento di altissima valenza simbolica e descrittiva di una Pietramelara e di un’Italia meridionale povera ma allo stesso tempo orgogliosa dei propri valori; il sorriso stampato sui visi delle bambine in prima fila ci racconta di una serenità diffusa tra la popolazione e purtroppo ormai dispersa, sotto i colpi della corsa all’arricchimento e della globalizzazione.
nostalgico ma bellissimo articolo
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