Non ho mai sopportato la bestemmia, ne chi l’ha per abitudine, tuttavia devo dire che, nel mondo rurale che ho vissuto, a volte, rivangando con la mente i ricordi mi imbatto in personaggi che nella bestemmia usavano modi ed espressioni che definire pittoreschi non è esagerato. D’altronde per il più colto e raffinato tra i cardinali, monsignor Ravasi, la bestemmia è la preghiera dell’ateo. Concordo e rilancio, l’ateo che bestemmia attende con desiderio che succeda qualcosa; se niente accade ci riproverà.
Ciò premesso, un tale Nicola , lo chiamo così ma è un nome di fantasia, ad esempio è divenuto quasi l’emblema di questo modo di esprimere rabbia per le contrarietà della vita, piccole o grandi che siano. L’aneddotica che lo riguarda è vastissima e fonte di ilarità; la fantasia che metteva nelle imprecazioni si tramanda ormai da più di un cinquantennio. Sbarcava il lunario con i mestieri e le attività più varie, aveva famiglia e abitava nel borgo o, come si suol dire “’ncoppa ju paese”, un tempo popolato e disseminato da tali personaggi. Ce l’aveva con i preti e con chi professava la “pietà” come valore, in particolare nutriva un rifiuto totale nei confronti delle donne che andavano a messa ogni mattina, a tal punto da ritirare in casa le galline che allevava fuori, per paura che venissero contagiate da tale “pericolosa malattia”.
Le difficoltà che viveva quotidianamente lo avevano reso insofferente, e aveva così trovato il modo di sfogarle. Aveva un rapporto di odio/amore con i santi che imprecava, e soprattutto con San Rocco, nostro protettore e pertanto sempre molto popolare, tra la gente umile… per lui no: San Rocco per lui era divenuto una sorta di compagno di viaggio malgradito, con cui dialogare con accenti più o meno polemici, a seconda del momento e della situazione; si racconta che un giorno il nostro Nicola, subita l’ennesima contrarietà, e passando nei pressi della bella immagine del Santo, che si incontra salendo sul borgo sulla destra, si rivolse a lui dicendo, con il solito volto buio: “San Rò, ‘u vì ca po’ si tu…” che tradotto dalla nostra lingua:”San Rocco, vedi che poi sei tu (a non evitarmi adeguatamente tutte le cose che mi capitano?)”.
Non vi sembri irriverente la cosa ma, fra San Rocco e i bestemmiatori a Pietramelara si è instaurato un legame sancito dalla storia, se è vero com’è vero che una norma dello statuto dato all’università di Pietramelara (allora l’istituzione comunale si chiamava così) nel cinquecento dalla feudataria Lucrezia Arcamone, imponeva che chi bestemmiasse doveva versare a riparazione un contributo per la Chiesa di San Rocco, allora in via di edificazione.
Scribacchiando per me
sabato 17 febbraio 2018
lunedì 12 febbraio 2018
BUONA LA PRIMA!
Una volta ribadito per l’ennesima volta che il giudizio del vostro blogger scribacchiante non fa testo, in quanto “parte in causa”, per analizzare questo stralcio domenicale del Carnevale 2018, prendiamo in esame qualche indicatore indubbiamente oggettivo.
Il numero di partecipanti, tra carri e gruppi scenici è pari a sette: risultato lusinghiero e ben oltre le aspettative più rosee! Va detto che la Pro Loco con l’evento di quest’anno ha preso la piena responsabilità dell’organizzazione, quello dell’anno scorso (peraltro riuscito egregiamente) infatti si dovette solo alla buona volontà di Eugenio Mone e Giovanni Leonardo, perché l’associazione era appena nata e sarebbe stato rischioso andare al di la di un semplice “appoggio esterno”.
Si è ancora in fase di rodaggio quindi, e gli organizzatori sono i primi a riconoscere che il cammino per ritornare ai fasti di qualche decennio fa è ancora lungo.
La partecipazione del pubblico al campo sportivo, lungo il percorso, nei punti di sosta ed in piazza è stata ampia e diffusa; d’altronde molti sono stati contagiati da quel clima di euforica allegria soprattutto perché animazione di Gino Lauro, è stata particolarmente efficace e coinvolgente. La piazza all’arrivo, verso le cinque, era gremita e si osservavano molte famiglie non locali che avevano portato con se i bambini, dando anche una mano all’economia locale, e questo ritengo sia molto importante.
Bella, immediata e suggestiva la “Cantata dei Dodici Mesi” (per saperne di più http://scribacchiandoperme.blogspot.it/2018/02/i-ddurici-misi.html): la novità delle “apine” in luogo delle classiche cavalcature non ha tolto nulla alla tradizione pluricentenaria, anzi… ha aggiunto molto in simpatia! Qualche inceppamento è sicuramente perdonabile, data l’emozione davanti a tanta gente e il fatto che uomini abitualmente dediti ai lavori più duri, non sempre si trovano a proprio agio nella recitazione di parti lunghe, da mandare giù a memoria.
Un sentito grazie, infine, a chi ha profuso tempo, energie e risorse negli allestimenti, soprattutto perché così facendo ha reso un servizio alla nostra Comune Genitrice Pietramelara. Come si dice al cinema: "Buona la prima".
Il numero di partecipanti, tra carri e gruppi scenici è pari a sette: risultato lusinghiero e ben oltre le aspettative più rosee! Va detto che la Pro Loco con l’evento di quest’anno ha preso la piena responsabilità dell’organizzazione, quello dell’anno scorso (peraltro riuscito egregiamente) infatti si dovette solo alla buona volontà di Eugenio Mone e Giovanni Leonardo, perché l’associazione era appena nata e sarebbe stato rischioso andare al di la di un semplice “appoggio esterno”.
Si è ancora in fase di rodaggio quindi, e gli organizzatori sono i primi a riconoscere che il cammino per ritornare ai fasti di qualche decennio fa è ancora lungo.
La partecipazione del pubblico al campo sportivo, lungo il percorso, nei punti di sosta ed in piazza è stata ampia e diffusa; d’altronde molti sono stati contagiati da quel clima di euforica allegria soprattutto perché animazione di Gino Lauro, è stata particolarmente efficace e coinvolgente. La piazza all’arrivo, verso le cinque, era gremita e si osservavano molte famiglie non locali che avevano portato con se i bambini, dando anche una mano all’economia locale, e questo ritengo sia molto importante.
Bella, immediata e suggestiva la “Cantata dei Dodici Mesi” (per saperne di più http://scribacchiandoperme.blogspot.it/2018/02/i-ddurici-misi.html): la novità delle “apine” in luogo delle classiche cavalcature non ha tolto nulla alla tradizione pluricentenaria, anzi… ha aggiunto molto in simpatia! Qualche inceppamento è sicuramente perdonabile, data l’emozione davanti a tanta gente e il fatto che uomini abitualmente dediti ai lavori più duri, non sempre si trovano a proprio agio nella recitazione di parti lunghe, da mandare giù a memoria.
Un sentito grazie, infine, a chi ha profuso tempo, energie e risorse negli allestimenti, soprattutto perché così facendo ha reso un servizio alla nostra Comune Genitrice Pietramelara. Come si dice al cinema: "Buona la prima".
sabato 10 febbraio 2018
I 'DDURICI MISI
Un inatteso annuncio su Facebook, nella pagina della Pro Loco di Pietramelara “Una tradizione secolare che si rinnova anche quest'anno : "I dodici mesi" … ed è subito Carnevale !
Vanno in scena i dodici mesi: da gennaio a dicembre, ognuno canta uno stornello che a colpi di rima tratteggia il ritratto del periodo in questione. Stornelli simpatici, freschi che hanno la capacità di caratterizzare un determinato periodo dell’anno. Si balla, si canta, si ride e si battono le mani a ritmo.
L’evento, fortemente voluto e proposto dal sig. Antonio Bonafiglia, ha subito trovato l’accordo e l’entusiasmo della Pro Loco, e si presenta stavolta con tratti innovativi, in quanto le cavalcature sono state sostituite da più moderne “Apecar”, per Antonio anche più sicure fra la folla (che potrebbe innervosire i muli e renderli pericolosi).
Gli interpreti regaleranno, ovunque arrivino, un momento di festa, di condivisione e di gioia, felici di trasmettere un bagaglio culturale lontano che altrimenti rischierebbe di perdersi. Innovazione, originalità ed ironia, saranno questi quindi i tratti distintivi della riproposizione di una tradizione locale mai dimenticata.
La “Cantata dei mesi”, o come si dice da noi “I ‘ddurici misi”, è un’allegoria dei mesi dell’anno e la sua diffusione raggiunge tutti i centri a vocazione agricola dello stivale. Ogni comunità conserva i suoi testi e le sue performances, ma tutte (o quasi) prevedono la figura di Capodanno oltre a quella di Pulcinella a sud o Arlecchino a nord, nelle vesti di presentatore e cerimoniere.
Le sue origini si fanno risalire ai primi del settecento ma si ha la sensazione che queste rappresentazioni siano ancora più antiche.
Il fatto che la “Cantata dei mesi” si svolga nel periodo di Carnevale si spiega perché verso la fine di febbraio, quando vigeva ancora il Calendario Giuliano, iniziava l’anno.
Dall’analisi dei testi possiamo notare che le strofe sono spesso allusive, proprio come avviene solitamente per il genere della letteratura popolare e l’allusione si impone in quanto da sempre il ciclo di riproduzione dell’anno è stato associato a quello della riproduzione umana, tipico ne è l’esempio del “nostro settembre”, che si presenta ed esordisce così:“ … e i sò sett’mbre, cu la ficu moscia”
Fino al secolo scorso la tradizione delle cantate dei mesi aveva la funzione di scacciare la sfortuna ed era, quindi, bene augurante in quanto serviva ad iniziare il nuovo anno evocando buoni auspici ma, il più delle volte, era legata ai riti di questua che avevano la funzione di ristabilire la condizione economica in una comunità
Il presidente della Pro Loco Francesco Tabacchino, al proposito ha voluto sottolineare: “Nonostante i miei tanti impegni non voglio perdermi un solo attimo del carnevale che stiamo allestendo, che quest’anno, con il ritorno de “I ‘ddurici misi”, porta con se cultura e riscoperta delle tradizioni”
Vanno in scena i dodici mesi: da gennaio a dicembre, ognuno canta uno stornello che a colpi di rima tratteggia il ritratto del periodo in questione. Stornelli simpatici, freschi che hanno la capacità di caratterizzare un determinato periodo dell’anno. Si balla, si canta, si ride e si battono le mani a ritmo.
L’evento, fortemente voluto e proposto dal sig. Antonio Bonafiglia, ha subito trovato l’accordo e l’entusiasmo della Pro Loco, e si presenta stavolta con tratti innovativi, in quanto le cavalcature sono state sostituite da più moderne “Apecar”, per Antonio anche più sicure fra la folla (che potrebbe innervosire i muli e renderli pericolosi).
Gli interpreti regaleranno, ovunque arrivino, un momento di festa, di condivisione e di gioia, felici di trasmettere un bagaglio culturale lontano che altrimenti rischierebbe di perdersi. Innovazione, originalità ed ironia, saranno questi quindi i tratti distintivi della riproposizione di una tradizione locale mai dimenticata.
La “Cantata dei mesi”, o come si dice da noi “I ‘ddurici misi”, è un’allegoria dei mesi dell’anno e la sua diffusione raggiunge tutti i centri a vocazione agricola dello stivale. Ogni comunità conserva i suoi testi e le sue performances, ma tutte (o quasi) prevedono la figura di Capodanno oltre a quella di Pulcinella a sud o Arlecchino a nord, nelle vesti di presentatore e cerimoniere.
Le sue origini si fanno risalire ai primi del settecento ma si ha la sensazione che queste rappresentazioni siano ancora più antiche.
Il fatto che la “Cantata dei mesi” si svolga nel periodo di Carnevale si spiega perché verso la fine di febbraio, quando vigeva ancora il Calendario Giuliano, iniziava l’anno.
Dall’analisi dei testi possiamo notare che le strofe sono spesso allusive, proprio come avviene solitamente per il genere della letteratura popolare e l’allusione si impone in quanto da sempre il ciclo di riproduzione dell’anno è stato associato a quello della riproduzione umana, tipico ne è l’esempio del “nostro settembre”, che si presenta ed esordisce così:“ … e i sò sett’mbre, cu la ficu moscia”
Fino al secolo scorso la tradizione delle cantate dei mesi aveva la funzione di scacciare la sfortuna ed era, quindi, bene augurante in quanto serviva ad iniziare il nuovo anno evocando buoni auspici ma, il più delle volte, era legata ai riti di questua che avevano la funzione di ristabilire la condizione economica in una comunità
Il presidente della Pro Loco Francesco Tabacchino, al proposito ha voluto sottolineare: “Nonostante i miei tanti impegni non voglio perdermi un solo attimo del carnevale che stiamo allestendo, che quest’anno, con il ritorno de “I ‘ddurici misi”, porta con se cultura e riscoperta delle tradizioni”
sabato 3 febbraio 2018
LA CHIESA DI SAN ROCCO
Si tratta del maggiore edificio di culto esistente sul nostro territorio, anche se le dimensioni attuali sono sensibilmente aumentate nel tempo, grazie a successivi ampliamenti e rifacimenti. Parlo della chiesa di San Rocco, da tempo immemore dedicata al culto del “Pellegrino di Montpellier”; qualcuno vuole che tale culto sia addirittura precedente alla prima edificazione, perché introdotto intorno al 1264 a Pietramelara dall’allora governatore Adamo Vasè, imparentato con il Santo.
Sede della parrocchia dei Santi Martino e Donato, alla prima edificazione cinquecentesca era più piccola dell’attuale, mancando l’abside e le due cappelle laterali, dette di Santa Maria Magna e del “tesoro”. Da sottolineare che la realizzazione dell’abside avvenne “a spese” della sede stradale, interrompendo l’ampio vicolo (oggi cieco) che collegava, tramite la cosiddetta “Porta dell’Olivella”, le attuali via Roma e via Matese, all’altezza dello sbocco di via San Leonardo; in seguito a questa costruzione la porta, un tempo molto importante per l’accesso da nord, perse progressivamente di importanza fino ad essere soppressa e murata.
Il campanile annesso recava in sommità una cuspide in stile moresco, come da alcuni dipinti pervenuti, attualmente è monco.
L’attuale aspetto della chiesa risale all’ultimo restauro, avvenuto fra la fine del ‘800 e gli inizi del ‘900: fu inaugurata il 14 dicembre del 1901, come ricorda una lapide marmorea a lato del portale, la facciata fu realizzata su progetto e a spese dell’ingegner Andrea Montanari. Di grande interesse il contenuto di opere d’arte: gli affreschi a lati dell’altare di grandi dimensioni, sono del Maestro Vincenzo Galloppi e raffigurano episodi evangelici. Il portone con formelle lignee raffiguranti volti di santi, secondo alcuni viene attribuito a Paolo Centore, secondo altri ad Antonio Smaldone, ambedue fini ebanisti del luogo; di sicura attribuzione al Centore (perché firmato) il pulpito, ex voto del popolo per lo scampato pericolo del colera. Si deve a Mastro Onofrio Di Lauro, anch’esso compianto concittadino, il ciclo di medaglioni raffiguranti i fondatori degli Ordini Monastici, che corre sopra la navata. Da segnalare ancora l’organo meccanico monumentale della Ditta Inzoli di Crema, strumento famoso fra gli organisti e, tra l’altro, capace grazie ad un particolare registro di riprodurre la voce umana, infine i grandi lampadari in ottone degli anni trenta (cfr. foto di copertina).
In seguito al terremoto del novembre 1980, la chiesa fu resa inagibile e rimase chiusa per un quinquennio. Un organico intervento di consolidamento statico dell’intera struttura precedette la riapertura e re inaugurazione. Attualmente l’antico titolo parrocchiale dei “Santi Martino e Donato” è stato mutato in quello di “San Rocco”, volendo identificare l’istituzione ecclesiastica con l’edificio che la ospita.
Al di la della straordinaria ricchezza sommariamente descritta, grande emozione suscita in me anche il semplice entrare in tale luogo dalla luce soffusa, ricchissimo di suggestione, e tali emozioni si amplificano quando, entrato, sento suonare l’organo sopra citato; chi passa davanti alla nicchia che ospita la settecentesca statua lignea di San Rocco, per accedere alla sagrestia o all’altare maggiore, viene pervaso da sensazioni e ricordi: le processioni solenni che partono dallo scalone d’ingresso, il corteo per l’offerta dei ceri da parte del Comune il 16 agosto, giorno del Santo, le voci solenni dei parroci che ci hanno lasciato, Don Nicolino Regna e l’indimenticato Don Roberto, le immagini sbiadite del proprio matrimonio qui celebrato, e quelle delle tante altre feste di famiglia.
Sede della parrocchia dei Santi Martino e Donato, alla prima edificazione cinquecentesca era più piccola dell’attuale, mancando l’abside e le due cappelle laterali, dette di Santa Maria Magna e del “tesoro”. Da sottolineare che la realizzazione dell’abside avvenne “a spese” della sede stradale, interrompendo l’ampio vicolo (oggi cieco) che collegava, tramite la cosiddetta “Porta dell’Olivella”, le attuali via Roma e via Matese, all’altezza dello sbocco di via San Leonardo; in seguito a questa costruzione la porta, un tempo molto importante per l’accesso da nord, perse progressivamente di importanza fino ad essere soppressa e murata.
Il campanile annesso recava in sommità una cuspide in stile moresco, come da alcuni dipinti pervenuti, attualmente è monco.
L’attuale aspetto della chiesa risale all’ultimo restauro, avvenuto fra la fine del ‘800 e gli inizi del ‘900: fu inaugurata il 14 dicembre del 1901, come ricorda una lapide marmorea a lato del portale, la facciata fu realizzata su progetto e a spese dell’ingegner Andrea Montanari. Di grande interesse il contenuto di opere d’arte: gli affreschi a lati dell’altare di grandi dimensioni, sono del Maestro Vincenzo Galloppi e raffigurano episodi evangelici. Il portone con formelle lignee raffiguranti volti di santi, secondo alcuni viene attribuito a Paolo Centore, secondo altri ad Antonio Smaldone, ambedue fini ebanisti del luogo; di sicura attribuzione al Centore (perché firmato) il pulpito, ex voto del popolo per lo scampato pericolo del colera. Si deve a Mastro Onofrio Di Lauro, anch’esso compianto concittadino, il ciclo di medaglioni raffiguranti i fondatori degli Ordini Monastici, che corre sopra la navata. Da segnalare ancora l’organo meccanico monumentale della Ditta Inzoli di Crema, strumento famoso fra gli organisti e, tra l’altro, capace grazie ad un particolare registro di riprodurre la voce umana, infine i grandi lampadari in ottone degli anni trenta (cfr. foto di copertina).
In seguito al terremoto del novembre 1980, la chiesa fu resa inagibile e rimase chiusa per un quinquennio. Un organico intervento di consolidamento statico dell’intera struttura precedette la riapertura e re inaugurazione. Attualmente l’antico titolo parrocchiale dei “Santi Martino e Donato” è stato mutato in quello di “San Rocco”, volendo identificare l’istituzione ecclesiastica con l’edificio che la ospita.
Al di la della straordinaria ricchezza sommariamente descritta, grande emozione suscita in me anche il semplice entrare in tale luogo dalla luce soffusa, ricchissimo di suggestione, e tali emozioni si amplificano quando, entrato, sento suonare l’organo sopra citato; chi passa davanti alla nicchia che ospita la settecentesca statua lignea di San Rocco, per accedere alla sagrestia o all’altare maggiore, viene pervaso da sensazioni e ricordi: le processioni solenni che partono dallo scalone d’ingresso, il corteo per l’offerta dei ceri da parte del Comune il 16 agosto, giorno del Santo, le voci solenni dei parroci che ci hanno lasciato, Don Nicolino Regna e l’indimenticato Don Roberto, le immagini sbiadite del proprio matrimonio qui celebrato, e quelle delle tante altre feste di famiglia.
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