Considerato che un blog come quello che state leggendo non può descrivere solo cose belle e piacevoli, ma si debba addentrare anche in spazi più intimi e che riguardano l’essenza umana più profonda, eccomi a parlare della morte, anche se con i soliti argomenti utilizzati.
Sin dagli albori della nostra letteratura i poeti le si sono dedicati, ricordo San Francesco D’Assisi che nel suo Cantico delle Creature, forse il primo componimento in lingua italiana scrive
” Laudato si’, mi’ Signore,
per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare”,
sottolineando il carattere universale e democratico di questa ineluttabile verità, cosa che lo accosta al nostro Antonio De Curtis (Totò) che in sostanziale linea con i versi precedenti, e forse ispirato da essi, nella Livella, esprime un concetto analogo:
“A morte ‘o ssaje ched”e?…è una livella.
‘Nu rre,’nu maggistrato,’nu grand’ommo,
trasenno stu canciello ha fatt’o punto
c’ha perzo tutto,’a vita e pure ‘o nomme”,
passando per Ugo Foscolo che nei suoi tormenti interiori descrive la sera dedicandogli un sonetto:
“Forse perché della fatal quïete
Tu sei l'imago a me sì cara vieni
O sera!”
ove la “fatal quiete” altro non è che la morte, desiderata a causa di tali tormenti … e via di seguito citando Dante, o il più recente Edgar Lee Master che nei loro componimenti discutono con i morti e le cose che dicono costoro diventano poesia.
Come viene vissuta la morte(sembra un ossimoro) tra i popoli del Sud Italia, mediterranei, pertanto legati a doppio filo alle culture straniere che li hanno influenzati? Quali le tradizioni legate a un trapasso? Mi vengono subito alla mente le “prefiche”, donne che al seguito dei cortei funebri avevano il compito di piangere il defunto, dietro compenso . Il curioso uso di persone che piangono i morti era praticato ancora in tempi recenti nell'Italia meridionale e si è conservato almeno fino agli anni '50 ad esempio nei paesi della Grecìa salentina dove esistevano le "chiangimuerti" o "rèpute" e dove si sono tramandate alcune nenie di origine greca.
'A sgrignata...era così che la chiamavano i nostri vecchi, alludendo alla sua raffigurazione più classica e frequente, il teschio, che ricorda un uomo che digrigna i denti, appunto. Qui da noi, almeno in tempi diversi dall’attuale, in cui anche i funerali sono stati ridotti all’osso, per via del timore di contagi, la morte ha una dimensione sociale, nel senso che (io non so con quanta efficacia) si cerca di lenire il dolore di chi resta con una visita a casa, nell’immediatezza del trapasso o anche dopo qualche giorno; inoltre ancora si usa, anche se oggi molto meno, di portare il cosiddetto “consuolo”, che consiste in un pranzo con ricco menù in casa del defunto, in genere appena dopo che si sono conclusi i riti esequiali; caratteristico e codificato anche il contenitore del consuolo, “a canestra”, un cesto di elevate dimensioni, atto a contenere per il trasporto pane, vino, il primo e il secondo, in alcuni casi chi ha offerto il consuolo non ha fatto mancare neppure il dolce. Ritengo che il termine consuolo, sia in relazione con la natura del gesto, perché la ricchezza delle portate, specie nei tempi trascorsi di ristrettezze economiche, doveva consolare i familiari del defunto, facendo loro sentire la vicinanza di amici e/o parenti stretti.
Non penso che questa nota sia di cattivo auspicio, tutt’altro, il vostro blogger scribacchiante le attribuisce al contrario una funzione scaramantica, ricordando una plastica espressione in uso in molti dialetti del meridione “salute a nnui”.
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