La terra si è aperta in Piazza San Rocco ieri sera intorno alle 18, la cavità è profonda almeno tre metri, come si può vedere dalla foto di copertina.
Tanto tuonò che piovve!... mi domando: ci voleva tanto a capire che in quel punto c’era qualcosa che non andava? Chiunque si trovava a passare, per andare in banca, per un prelievo al bancomat,per sostarvi o altro, si rendeva conto che la pavimentazione si era abbassata di vari centimetri, segno che qualcosa lì sotto stava succedendo. Ieri sera è successo quel che è successo e, meno male che nessuno si è ferito e che le conseguenze si sono limitate a qualche ora di sospensione dell’erogazione dell’acqua.
Adesso non si tratta di dire “io l’avevo detto”, oppure “è colpa di questo o di quell’altro”. La situazione che è degenerata ieri sera è frutto di decenni di “pensiamo alle cose più importanti” e “tiramm’ a campà”. Ma non finisce qui: in altri punti della piazza, anche percorsi da pedoni e mezzi più o meno pesanti si notano avvallamenti più o meno evidenti; in via Matese, nei pressi del Teatrino degli Archi, si ode un rumore continuo di acqua che scorre, e io stesso sere fa ho notato, passando a piedi, che nei pressi della statua di San Rocco, su al Quartiere Svizzero, si è aperto un altro buco da cui si sente scorrere acqua sotto pressione, e della cosa ho informato immediatamente il vice sindaco e assessore ai ll.pp.
Ed allora io penso che, come si suol dire, non tutti i mali vengono per nuocere: a volte questo genere di cose si traduce in “provvide sventure” (di manzoniana memoria). Per fortuna i danni sono stati limitati, non ci sono stati inconvenienti a cose e persone; si cominci dunque a dare più attenzione al territorio e all’abitato. Certo, la situazione nel centro storico di Pietramelara va monitorata con grande cura, perché la probabilità di cavità preesistenti e dimenticate è più elevata, ma anche altrove si possono generare inconvenienti che potrebbero causare incidenti con serie conseguenze. Nella pianificazione urbanistica che dovrebbe dare al nostro comune un nuovo piano regolatore, sarebbe opportuno dotarsi di una dettagliata “carta delle cavità sotterranee”, frutto di uno studio operato almeno sul centro storico che, allo stato delle cose appare la zona più a rischio: i vuoti sono tutti di origine antropica, scavati a vario titolo, per vari scopi (edilizio, idraulico, religioso etc.), ma per lo più per l'approvvigionamento di materiali da costruzione. Purtroppo, tale rete di gallerie sotterranee è conosciuta solamente in forma frammentaria, e sicuramente molte abitazioni civili sono state realizzate su tali vuoti, sconosciuti e non bonificati. Cito al proposito uno studio del CNR, datato 2017, perché quasi profetico per la situazione determinatasi ieri sera: “In particolari condizioni, la presenza delle cavità sotterranee, congiuntamente alle possibili perdite della rete idraulica dei sottoservizi, può provocare il crollo degli strati più superficiali del terreno con la formazione di voragini in superficie (sinkhole antropogenici) determinando un grave rischio per il prezioso tessuto urbano”.
Scribacchiando per me
giovedì 28 febbraio 2019
sabato 16 febbraio 2019
LATTE: UN MONITO DALLA SARDEGNA
Cosa insegnano al nostro territorio le proteste dei pastori dell'ultima settimana in Sardegna? Bisogna premettere che esse non sono una novità, durano infatti da circa una ventina d'anni. Era luglio 2001 quando una delegazione di un centinaio di allevatori sardi raggiunse Genova per trovare visibilità internazionale a sostegno della loro causa in occasione del G8. E, da allora, le azioni eclatanti si sono ripetute con cadenza regolare negli anni.
Sempre gli stessi i problemi denunciati con proteste di piazza, anche molto violente: prezzo del latte troppo basso, fragilità del comparto di fronte alla globalizzazione e alle calamità naturali. Stavolta, però, la protesta è stata amplificata dai social, con i video virali del latte versato ovunque in Sardegna, le immagini dei camion aperti e i loro carichi rovesciati in strada, delle lunghe file di auto bloccate sulle principali arterie dell'isola.
Quali le motivazioni che hanno fatto esplodere il fenomeno?
''La situazione - sottolinea in una nota l’Assolatte - è davvero preoccupante: momenti difficilissimi, dovuti ad una serie di cause concomitanti. Durante la campagna 2017/2018, la produzione di latte di pecora ha avuto un notevole incremento (10-15%). Lo stesso ha fatto quella di Pecorino Romano, principale destinazione del latte sardo, aumentata del 24%. Mentre i consumi interni diminuiscono, anche le esportazioni, motore del settore, sono andate a picco (-33%)”.
Ma come si è arrivati a questo punto? La maggior parte della materia prima prodotta in Sardegna è destinata alla lavorazione di pecorino romano dop: il calo delle esportazioni registrato nel 2018 insieme all’aumento della produzione ha di fatto riempito i magazzini di formaggio, abbattendone il prezzo di vendita all’ingrosso. Come conseguenza, anche il corrispettivo pagato ai pastori, che di latte di pecora vivono, si è ridotto notevolmente, costringendoli alle barricate.
Una situazione analoga a quella di qualche anno fa vissuta dai nostri allevatori bufalini: prezzi che a malapena riuscivano a coprire il costo di produzione, con la conseguente chiusura di molte stalle di fatto marginali, nonostante la forte richiesta dei mercati per la mozzarella, specie per quella con il marchio DOP “Mozzarella di Bufala Campana”.
Dalle nostre parti oggi i rapporti di forza si sono ribaltati, rispetto a quanto succedeva appena uno/due anni fa! Due i fattori che hanno determinato la svolta: prima gli abbattimenti di capi affetti da brucellosi, poi l’entrata a regime di un sistema di tracciabilità del latte, più efficiente rispetto al passato. Ieri si doveva “pregare” il titolare di un caseificio a ritirare (e pagare) il proprio latte, oggi sono loro, i caseificatori, a girare per campagne e contrade per vedere di “acchiappare” qualche quintale di latte bufalino in più al giorno. Si sta riducendo anche l’adozione del doppio prezzo “estate/inverno” per il latte, e può anche prevedersi che in futuro possa annullarsi: i caseifici, infatti, pagano sensibilmente di più il latte durante l’estate, quando la domanda di mozzarella è forte, mentre ritirano a un prezzo più basso quando la domanda cala; si ha notizia di caseificatori che per fidelizzare i propri conferitori, offrono un unico prezzo per l’intero anno.
Tutti risolti i problemi del comparto bufalino, quindi?... oppure si deve temere qualcosa di analogo a quello che oggi succede in Sardegna? Chissà?...Premesso che, almeno per il momento non c’è sovrapproduzione di mozzarella, che l’export continua a tirare, il futuro dipende in gran parte da quanto sapranno fare gli allevatori per elevare la qualità media del latte, per produrre più latte nella stagione primaverile/estiva, per imporre la propria rappresentativa presenza nel Consorzio di Tutela.
Sempre gli stessi i problemi denunciati con proteste di piazza, anche molto violente: prezzo del latte troppo basso, fragilità del comparto di fronte alla globalizzazione e alle calamità naturali. Stavolta, però, la protesta è stata amplificata dai social, con i video virali del latte versato ovunque in Sardegna, le immagini dei camion aperti e i loro carichi rovesciati in strada, delle lunghe file di auto bloccate sulle principali arterie dell'isola.
Quali le motivazioni che hanno fatto esplodere il fenomeno?
''La situazione - sottolinea in una nota l’Assolatte - è davvero preoccupante: momenti difficilissimi, dovuti ad una serie di cause concomitanti. Durante la campagna 2017/2018, la produzione di latte di pecora ha avuto un notevole incremento (10-15%). Lo stesso ha fatto quella di Pecorino Romano, principale destinazione del latte sardo, aumentata del 24%. Mentre i consumi interni diminuiscono, anche le esportazioni, motore del settore, sono andate a picco (-33%)”.
Ma come si è arrivati a questo punto? La maggior parte della materia prima prodotta in Sardegna è destinata alla lavorazione di pecorino romano dop: il calo delle esportazioni registrato nel 2018 insieme all’aumento della produzione ha di fatto riempito i magazzini di formaggio, abbattendone il prezzo di vendita all’ingrosso. Come conseguenza, anche il corrispettivo pagato ai pastori, che di latte di pecora vivono, si è ridotto notevolmente, costringendoli alle barricate.
Una situazione analoga a quella di qualche anno fa vissuta dai nostri allevatori bufalini: prezzi che a malapena riuscivano a coprire il costo di produzione, con la conseguente chiusura di molte stalle di fatto marginali, nonostante la forte richiesta dei mercati per la mozzarella, specie per quella con il marchio DOP “Mozzarella di Bufala Campana”.
Dalle nostre parti oggi i rapporti di forza si sono ribaltati, rispetto a quanto succedeva appena uno/due anni fa! Due i fattori che hanno determinato la svolta: prima gli abbattimenti di capi affetti da brucellosi, poi l’entrata a regime di un sistema di tracciabilità del latte, più efficiente rispetto al passato. Ieri si doveva “pregare” il titolare di un caseificio a ritirare (e pagare) il proprio latte, oggi sono loro, i caseificatori, a girare per campagne e contrade per vedere di “acchiappare” qualche quintale di latte bufalino in più al giorno. Si sta riducendo anche l’adozione del doppio prezzo “estate/inverno” per il latte, e può anche prevedersi che in futuro possa annullarsi: i caseifici, infatti, pagano sensibilmente di più il latte durante l’estate, quando la domanda di mozzarella è forte, mentre ritirano a un prezzo più basso quando la domanda cala; si ha notizia di caseificatori che per fidelizzare i propri conferitori, offrono un unico prezzo per l’intero anno.
Tutti risolti i problemi del comparto bufalino, quindi?... oppure si deve temere qualcosa di analogo a quello che oggi succede in Sardegna? Chissà?...Premesso che, almeno per il momento non c’è sovrapproduzione di mozzarella, che l’export continua a tirare, il futuro dipende in gran parte da quanto sapranno fare gli allevatori per elevare la qualità media del latte, per produrre più latte nella stagione primaverile/estiva, per imporre la propria rappresentativa presenza nel Consorzio di Tutela.
domenica 10 febbraio 2019
DEGRADO DEI BORGHI, PEZZI DI VERITA'
E’ suggestiva la tesi esposta da Domenico Caiazza, nel corso di un articolato intervento tenuto nell'ambito del convegno di ieri sera, sabato 9 febbraio, presso la Sala Consiliare del Comune di Riardo, dal titolo "I Borghi: storia e cultura per la promozione del territorio". In buona sostanza il Caiazza, forte di una cultura storica consolidata nel corso di quattro/cinque decenni, sosteneva che i flussi demografici, dalla comparsa dell’uomo a oggi hanno mostrato una sorta di “pendolarismo geografico” tra pianura e collina, tra città e borghi. La direttrice sempre la stessa, mentre il verso era stabilito dal particolare momento storico: ad esempio l’affermarsi dell’Impero Romano aveva favorito il flusso verso le città e il suo successivo dissolvimento, con il Medioevo, il contrario. Tale tesi, che riprende la famosa teoria dei “corsi e ricorsi storici” di G.B. Vico, è stata suffragata in modo convincente dal relatore, pertanto penso che possa essere accettata.
L’epoca attuale, iniziata negli anni cinquanta/sessanta del ventesimo secolo, è una di quelle in cui le città si sono rafforzate perché le grandi fabbriche, ubicate nelle periferie urbane del Nord Italia, richiedevano braccia e forza-lavoro, determinando spopolamento delle aree rurali, degrado edilizio, depauperamento agricolo e abbandono progressivo dei borghi. Non sappiamo se, quando e come questa fase dell’enunciato “pendolarismo geografico” terminerà e, pertanto, chi amministra comuni in area rurale, con presenza di borghi, deve progettare politiche che in qualche modo attenuino il fenomeno descritto. Abbiamo ascoltato da più di un relatore che la soluzione risieda in una concertazione di interventi decisi nell’ambito partenariato locale tra pubblico e privato, programmando “dal basso” (bottom up) cosa, quando e come fare!
La domanda che si pone il vostro blogger scribacchiante è allora questa: i politici locali, che pur erano presenti tra i relatori ed il parterre del convegno, cosa hanno fatto per intervenire quando il fenomeno era solo agli inizi e i costi finanziari, economici e sociali da sopportare molto più bassi? A ragionare sull’ultimo quarantennio del borgo di Pietramelara, sembra che nelle politiche sia mancato del tutto il coraggio dell’impopolarità. Per evitare il crollo di un tetto o lo staccarsi di un pezzo di cornicione, si doveva intervenire “in danno dei proprietari”, accollando loro la spesa per i lavori di messa in sicurezza, in alternativa costoro avrebbero dovuto rinunciare alla proprietà del bene: dubito che costoro, messi di fronte all’aut aut, avrebbero scelto la prima soluzione. Si è preferito, come al solito, tirare a campare e quello che si ha sotto gli occhi è noto a tutti. Ed ancora: quando è iniziato l’abbandono del borgo (fine anni ‘70/primi anni ‘80) era in corso la stesura del nostro Piano Regolatore, attualmente ancora vigente ancorché scaduto da un pezzo, perché allora si è preferito optare per l’espansione urbanistica e non si è pensato minimamente (come alternativa) a rendere più vivibile il borgo e il centro storico?
I convegni sono eventi interessanti dove si impara sempre qualcosa, vengono enunciate politiche innovative (a volte rivoluzionarie rispetto al passato), ma si deve avere il coraggio, da parte dei politici che li organizzano, di raccontare le vicende nella propria interezza.
L’epoca attuale, iniziata negli anni cinquanta/sessanta del ventesimo secolo, è una di quelle in cui le città si sono rafforzate perché le grandi fabbriche, ubicate nelle periferie urbane del Nord Italia, richiedevano braccia e forza-lavoro, determinando spopolamento delle aree rurali, degrado edilizio, depauperamento agricolo e abbandono progressivo dei borghi. Non sappiamo se, quando e come questa fase dell’enunciato “pendolarismo geografico” terminerà e, pertanto, chi amministra comuni in area rurale, con presenza di borghi, deve progettare politiche che in qualche modo attenuino il fenomeno descritto. Abbiamo ascoltato da più di un relatore che la soluzione risieda in una concertazione di interventi decisi nell’ambito partenariato locale tra pubblico e privato, programmando “dal basso” (bottom up) cosa, quando e come fare!
La domanda che si pone il vostro blogger scribacchiante è allora questa: i politici locali, che pur erano presenti tra i relatori ed il parterre del convegno, cosa hanno fatto per intervenire quando il fenomeno era solo agli inizi e i costi finanziari, economici e sociali da sopportare molto più bassi? A ragionare sull’ultimo quarantennio del borgo di Pietramelara, sembra che nelle politiche sia mancato del tutto il coraggio dell’impopolarità. Per evitare il crollo di un tetto o lo staccarsi di un pezzo di cornicione, si doveva intervenire “in danno dei proprietari”, accollando loro la spesa per i lavori di messa in sicurezza, in alternativa costoro avrebbero dovuto rinunciare alla proprietà del bene: dubito che costoro, messi di fronte all’aut aut, avrebbero scelto la prima soluzione. Si è preferito, come al solito, tirare a campare e quello che si ha sotto gli occhi è noto a tutti. Ed ancora: quando è iniziato l’abbandono del borgo (fine anni ‘70/primi anni ‘80) era in corso la stesura del nostro Piano Regolatore, attualmente ancora vigente ancorché scaduto da un pezzo, perché allora si è preferito optare per l’espansione urbanistica e non si è pensato minimamente (come alternativa) a rendere più vivibile il borgo e il centro storico?
I convegni sono eventi interessanti dove si impara sempre qualcosa, vengono enunciate politiche innovative (a volte rivoluzionarie rispetto al passato), ma si deve avere il coraggio, da parte dei politici che li organizzano, di raccontare le vicende nella propria interezza.
sabato 2 febbraio 2019
PIETRAMELARA: DAL BORGO AI BORGHI
Chi ama ragionare di storia locale, in genere pone come “data cardine” per l’inizio di una edificazione urbana “extra moenia” la costruzione del Palazzo Ducale, terminata nella prima metà del Cinquecento; in realtà da sempre è esistita una Pietramelara “bassa”: prova ne siano i rinvenimenti di una necropoli preromana nei pressi di via Croci durante i lavori per una lottizzazione, negli anni ‘70, ed altri insediamenti di cui si ha notizia, nella zona dei pantani.
La Piana di Pietramelara o, come qualcuno la chiama, la Piana dei “Cinque Castelli” è un vasto bacino imbrifero, formatosi in seguito al deposito di sedimenti di varia natura (alluvionali e vulcanici), in epoca preistorica: in altre parole il fondo valle, costellato di paludi ed acquitrini, venne a riempirsi e man mano gli specchi d’acqua diminuivano, fino ad essere eliminati quasi del tutto . Le genti che la colonizzarono, sanniti e romani, realizzarono una rete di canali ed altre opere che eliminò le acque in eccesso, permettendo così attività economiche ed insediamenti.
Con la fine dell’Impero Romano e dell’ordine giuridico/amministrativo connesso, le opere di bonifica realizzate furono abbandonate e le paludi si riformarono, con la conseguente impossibilità di coltivazione e il diffondersi della malaria. Nel tardo medio evo feudatari, monaci delle abbazie e popolazioni cercarono in qualche modo di invertire tale stato di cose, riportando l’equilibrio idrogeologico in uno stato accettabile in tutta la piana, fatta eccezione per i punti più bassi, i pantani, ove si continuò ad accumulare acqua durante l’inverno, fino a qualche decennio fa.
La necessità, imposta dall’incremento demografico, di trovare nuovi spazi abitativi fuori dalla cinta muraria del borgo, apparve evidente ai Monforte a cui si devono gli inizi del Palazzo Ducale, la fondazione del Monastero di Santa Maria della Carità, oggi sede municipale, e la Porta di Santa Maria. Seguirono gli anni tristi del “dopo sacco” (1496), ed infine verso la metà del Cinquecento, Pietramelara risorse, come luogo geografico e come comunità. Il Palazzo era stato ultimato, Faustina Colonna, che lo abitava, volle nelle sue adiacenze una Chiesa, l’Annunziata; fu allora che riprese (non iniziò) il processo di urbanizzazione della vasta piana. Vi erano all’interno di essa dei punti in cui l’edificazione era concentrata e sviluppata: borgate rurali in cui si praticava l’agricoltura, l’artigianato e qualche piccolo commercio; i signori continuavano a dimorare nel borgo. Da documenti che ho potuto consultare e dallo studio della morfologia del tessuto urbano l’idea che mi sono fatto è questa: in età moderna (1600/1700) si contavano a Pietramelara il borgo dell’Annunziata, il borgo della Croci, quello di San Giovanni, sorto intorno alla cappella e l’ospedale dei Cavalieri di Malta, il borgo dell’Ariola, a metà strada fra il Convento di San Pasquale e il nucleo abitativo originario; elemento comune ad ogni borgo una vasta corte che era adibita a svariate funzioni, e che in molti casi ancora si conserva (all’Annunziata, a San Giovanni, all’Ariola). Vi erano poi dei casali pedemontani, di orgine altomedioevale, di cui si conserva solamente la memoria perché il toponimo è rimasto (San Pancrazio, San Nicola, Grasciano, Saiano).
L’espansione urbana del ventesimo secolo, alimentata da una parallela espansione demografica e favorita dalle rimesse degli emigrati, ha finito per inglobare borghi e casali, dando origine al “tuttuno” che costituisce il nostro amato paese.
Forse si è costruito più del dovuto! … nonostante la popolazione rimanga stabile nel numero, infatti, molti immobili rimangono disabitati, e posti sul mercato, rimangono invenduti per lunghi anni. E’ questo un monito di cui tener debito conto nelle future pianificazioni urbanistiche.
La Piana di Pietramelara o, come qualcuno la chiama, la Piana dei “Cinque Castelli” è un vasto bacino imbrifero, formatosi in seguito al deposito di sedimenti di varia natura (alluvionali e vulcanici), in epoca preistorica: in altre parole il fondo valle, costellato di paludi ed acquitrini, venne a riempirsi e man mano gli specchi d’acqua diminuivano, fino ad essere eliminati quasi del tutto . Le genti che la colonizzarono, sanniti e romani, realizzarono una rete di canali ed altre opere che eliminò le acque in eccesso, permettendo così attività economiche ed insediamenti.
Con la fine dell’Impero Romano e dell’ordine giuridico/amministrativo connesso, le opere di bonifica realizzate furono abbandonate e le paludi si riformarono, con la conseguente impossibilità di coltivazione e il diffondersi della malaria. Nel tardo medio evo feudatari, monaci delle abbazie e popolazioni cercarono in qualche modo di invertire tale stato di cose, riportando l’equilibrio idrogeologico in uno stato accettabile in tutta la piana, fatta eccezione per i punti più bassi, i pantani, ove si continuò ad accumulare acqua durante l’inverno, fino a qualche decennio fa.
La necessità, imposta dall’incremento demografico, di trovare nuovi spazi abitativi fuori dalla cinta muraria del borgo, apparve evidente ai Monforte a cui si devono gli inizi del Palazzo Ducale, la fondazione del Monastero di Santa Maria della Carità, oggi sede municipale, e la Porta di Santa Maria. Seguirono gli anni tristi del “dopo sacco” (1496), ed infine verso la metà del Cinquecento, Pietramelara risorse, come luogo geografico e come comunità. Il Palazzo era stato ultimato, Faustina Colonna, che lo abitava, volle nelle sue adiacenze una Chiesa, l’Annunziata; fu allora che riprese (non iniziò) il processo di urbanizzazione della vasta piana. Vi erano all’interno di essa dei punti in cui l’edificazione era concentrata e sviluppata: borgate rurali in cui si praticava l’agricoltura, l’artigianato e qualche piccolo commercio; i signori continuavano a dimorare nel borgo. Da documenti che ho potuto consultare e dallo studio della morfologia del tessuto urbano l’idea che mi sono fatto è questa: in età moderna (1600/1700) si contavano a Pietramelara il borgo dell’Annunziata, il borgo della Croci, quello di San Giovanni, sorto intorno alla cappella e l’ospedale dei Cavalieri di Malta, il borgo dell’Ariola, a metà strada fra il Convento di San Pasquale e il nucleo abitativo originario; elemento comune ad ogni borgo una vasta corte che era adibita a svariate funzioni, e che in molti casi ancora si conserva (all’Annunziata, a San Giovanni, all’Ariola). Vi erano poi dei casali pedemontani, di orgine altomedioevale, di cui si conserva solamente la memoria perché il toponimo è rimasto (San Pancrazio, San Nicola, Grasciano, Saiano).
L’espansione urbana del ventesimo secolo, alimentata da una parallela espansione demografica e favorita dalle rimesse degli emigrati, ha finito per inglobare borghi e casali, dando origine al “tuttuno” che costituisce il nostro amato paese.
Forse si è costruito più del dovuto! … nonostante la popolazione rimanga stabile nel numero, infatti, molti immobili rimangono disabitati, e posti sul mercato, rimangono invenduti per lunghi anni. E’ questo un monito di cui tener debito conto nelle future pianificazioni urbanistiche.
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