Non esagero se dico che con Charles Aznavour, se ne va un pezzo importante della mia giovinezza e di quella di tanti altri che con me l'hanno vissuta sul finire degli anni settanta. Mi riferisco a quei famosi e, a volte, galeotti balli di sera, in casa propria o in quella di amici. Nel corso di quelle “feste da ballo”, le immortali canzoni di Aznavour arrivavano in genere dopo che l'atmosfera era già calda, quando a chi “metteva i dischi” (chiamarlo adesso dj è inadatto e/o riduttivo) sembrava giunto il momento dei “lenti”...si, le “scalette” erano in genere strutturate in tal modo: due tre “svelti” (disco music, tipo Barry White, Stevie Wonder, ecc.), e dopo la serie dei “lenti” piuttosto lunga. Ed allora insieme ai vari cantanti e cantautori nazionali, tipo Fred Bongusto, Bruno Martino, Peppino Di Capri, ecco le immancabili Come è triste Venezia, Lei, Io sono un istrione, Quel che non si fa più, Amore, Devi sapere, veri capolavori dell’artista che ci ha appena lasciato.
Nato a Parigi il 2 marzo 1924 da una coppia di immigrati armeni, Charles Aznavourian (questo il vero nome), morto ieri a Alpilles, nel sud della Francia all’età di 94 anni, è stato il cantautore francese più applaudito nel mondo, infatti nella sua carriera ha venduto 300 milioni di dischi incisi in 7 lingue. Forte il suo legame con l'Italia, anche a motivo di tragiche esperienze di vita. Il suo immenso repertorio è dominato da una sottile e struggente melanconia, adorava cantare le vite sul viale del tramonto, gli amori corrosi dagli anni e dalla noia, il rimpianto per le grandi occasioni perdute. Diceva: «Canto l’amore ma anche il suo contrario. L’amore non è solo quello che va bene, ma anche quello logorato». Forse era proprio tale vena così particolare a farlo apprezzare a noi, giovani di quegli anni, combattuti fra gli ultimi strascichi delle proteste studentesche del '68, le crisi energetiche originate dai conflitti medio-orientali, l'impegno per costruire un futuro migliore (almeno nelle intenzioni) e la voglia di vivere con gioia, tipica di quell'età. Si aspettava un lento di Aznavour quando una ragazza ti interessava davvero, anche perché in quei momenti forse, nell'immaginazione, la disponibilità della “controparte” si innalzava in modo sensibile.
Nell'età matura, anche per quella forza evocativa che possedevano le sue canzoni, capaci di riportarmi con la mente a quelle serate, ho continuato ad ammirarlo ed ascoltarlo: veramente sorprendente la sua capacità di calcare il palco con successo fino alla della fine. Il segreto? Era riuscito ad adattare il suo spettacolo ai suoi limiti. Così per surrogare una vocalità ormai scarsa, Aznavour sfoderava la classe del grande uomo di palcoscenico, una teatralità e una gestualità che sottolineava ogni parola dei suoi versi, la saggezza disincantata di chi conosce a fondo la vita, le donne, la gioia, il dolore, l'ansia, la noia. Usava le rughe, l'età, i capelli bianchi per caricare d'enfasi drammatica un gran numero di canzoni legate proprio al tema degli anni che passano impietosi, alla difficoltà di invecchiare con dignità, al rimpianto di quella giovinezza fuggita.
Se ne va dunque un magico poeta insuperabile nel cantare di sogni infranti, amori sterili («Noi non abbiamo bambini»), vite coniugali vissute nell'incomprensione, emozioni di un attimo.
Nessun commento:
Posta un commento