Caro zio,
come saprai, non sono solito da queste pagine tessere gli elogi di qualcuno, tantomeno se costui ha fatto parte per tanto tempo del mio mondo e della mia famiglia, vorrei solo riprendere alcuni tratti salienti della tua esistenza terrena, ovviamente mediati dal mio modo di vedere ed interpretare la realtà.
In quella infausta mattina invernale di dieci anni fa fui svegliato dal telefono, stavi male e qualcuno pensò di chiamarmi, era buio, le quattro circa; circa un’ora dopo si concludeva la tua esistenza ed io ero lì, ci salutammo appena con un cenno … ed andasti via.
Sai, in tutti questi anni sei stato molto presente in me, e non di rado ti ho rivisto vicino chiudendo gli occhi, assopito. Erano scene quelle evidentemente dettate dalla memoria, come le ore passate insieme in campagna, con le tante cose che avevi da insegnarmi e che mi hai insegnato: l’amore per Pietramelara, insieme al culto vero e proprio che riponevi nell’agricoltura; non è un caso infatti che esse hanno contribuito non poco ad indirizzare quelle che poi sarebbero poi diventate le mie scelte professionali e di vita. Sono cose, queste, indubbiamente importantissime, ritengo però che ci sia molto di più prezioso nel messaggio di vita da te inviato a ciascuno che ha avuto la fortuna di conoscerti: la grande lezione di coraggio che hai dettato, di cui ti è grato chiunque la riconosca come tale.
Una vita in crescendo, la tua: l’infanzia e la giovinezza in paese, i primi passi nella politica locale, un amore grande e ricambiato, durato più di mezzo secolo, la breve esperienza americana, la professione, le funzioni di sindaco, l’attività imprenditoriale, ed in ognuno di questi passaggi una difficoltà diversa ed importante, da affrontare e superare; me ne parlavi frequentemente e descrivendo comunicavi gli insegnamenti che ne avevi tratto. “Nella vita, e specialmente quando si è giovane, bisogna credere in qualcosa”, una massima dettata una sera, in autostrada, non particolarmente originale, ma che non dimenticherò mai!... perché quel “qualcosa” tu l’hai inseguito ed hai combattuto per esso, fino alla fine.
Ecco… vedi: anche se la vita e la sorte sono state abbastanza generose con te, come dicevo, non sono mai mancati nella tua esistenza momenti di difficoltà estrema in cui hai dovuto imbatterti, anzi essi si sono a volte rincorsi, e appena superato un ostacolo eccone un altro ancora più arduo del precedente. Il tuo modo di reagire energico, sempre fiducioso nel futuro, la convinzione, che avevi e che comunicavi, di uscirne sempre e comunque a testa alta, hanno generato in me un’ammirazione incondizionata per il coraggio che dimostravi, insieme all’ orgoglio di esserti nipote. In quei difficili frangenti eri portato a pensare tanto positivo da preoccuparti più del da farsi dopo, a problema risolto, che del modo effettivo di uscirne: una fiducia nei propri mezzi degna di un vero leone!
A pensarci bene, a distanza di un decennio,è senza dubbio questa la più grande eredità che mi hai e ci hai lasciato, molto più dei beni materiali, che durano quanto una vita terrena, dopodiché essi si trasformano solo in vuote facezie e commedie, tipiche dei vivi.
Francesco
Scribacchiando per me
sabato 31 dicembre 2016
lunedì 26 dicembre 2016
MISERIA E NOBILTA'
“Miseria e nobiltà” è un film del 1954 diretto da Mario Mattoli, tratto dall'omonima opera teatrale (1888) di Eduardo Scarpetta, che ha come protagonista il grande Totò. E’ noto a chiunque perché trasmesso con elevatissima frequenza , specie da alcune TV locali del nostro Meridione. Ho un legame ed un ricordo particolare di questa pellicola: con la visione di essa, infatti, feci le ultime grandi risate insieme a mio padre, nel giorno di Santo Stefano di trentun’anni fa; dopo qualche giorno venne la sua fine.
Si tratta della vicenda di uno squattrinato divorziato della Napoli del 1890, Felice Sciosciammocca, che vive alla giornata facendo lo scrivano e condividendo la casa con l'amico Pasquale, di professione fotografo ambulante , e le rispettive famiglie.
Gli espedienti a cui costoro devono ricorrere per sopravvivere li costringono in una serie di esilaranti disavventure: un giorno il marchesino Eugenio Favetti, chiede a Felice e Pasquale con moglie e figlia di travestirsi e fingere di essere i suoi nobili familiari, e di presentarsi con lui a casa di Gemma, ballerina che ama, perché il padre di lei, un arricchito, vuole conoscerli per acconsentire al fidanzamento.
Ciò che ne deriva è tutto un susseguirsi di gags memorabili, rese tali dalla straordinaria comicità di Totò : il linguaggio da finti signori, la fame atavica che traspare da ogni loro comportamento, l’imprevedibile entrata in scena di personaggi secondari che complica fortemente l’intreccio, tipico della farsa portata dal teatro al grande schermo.
Ritengo però che il tratto saliente della vicenda, che attenua la grande comicità, è la morale che se ne può trarre: nella scena finale, svelati del tutto gli inganni e i raggiri ai danni dell’ingenuo padre di Gemma, Totò/Sciosciammocca, rivolto al pubblico esclama “La vera miseria è la falsa nobiltà”.
Attualissima ancor oggi, dopo ben sessantadue anni, è il paradigma di coloro che ad ogni costo, non si accettano e vogliono apparire diversi da quelli che effettivamente sono. Si tratta di figure patetiche, prive di dignità ed identità, spinte nel loro comportamento da questa società dell’immagine, che pone la “visibilità” al primo posto fra i valori. Costoro venderebbero anche la madre per una macchina nuova, o per un capo di abbigliamento da “grande firma”, e non vorrebbero mai mancare alle occasioni che contano, in cui sono inevitabilmente relegati a ruoli di gregario. Attivi nella politica di oggi, anche senza avere un credo ed un ideale, cambiano senza alcun problema lo schieramento al variare dei risultati elettorali.
Si tratta della vicenda di uno squattrinato divorziato della Napoli del 1890, Felice Sciosciammocca, che vive alla giornata facendo lo scrivano e condividendo la casa con l'amico Pasquale, di professione fotografo ambulante , e le rispettive famiglie.
Gli espedienti a cui costoro devono ricorrere per sopravvivere li costringono in una serie di esilaranti disavventure: un giorno il marchesino Eugenio Favetti, chiede a Felice e Pasquale con moglie e figlia di travestirsi e fingere di essere i suoi nobili familiari, e di presentarsi con lui a casa di Gemma, ballerina che ama, perché il padre di lei, un arricchito, vuole conoscerli per acconsentire al fidanzamento.
Ciò che ne deriva è tutto un susseguirsi di gags memorabili, rese tali dalla straordinaria comicità di Totò : il linguaggio da finti signori, la fame atavica che traspare da ogni loro comportamento, l’imprevedibile entrata in scena di personaggi secondari che complica fortemente l’intreccio, tipico della farsa portata dal teatro al grande schermo.
Ritengo però che il tratto saliente della vicenda, che attenua la grande comicità, è la morale che se ne può trarre: nella scena finale, svelati del tutto gli inganni e i raggiri ai danni dell’ingenuo padre di Gemma, Totò/Sciosciammocca, rivolto al pubblico esclama “La vera miseria è la falsa nobiltà”.
Attualissima ancor oggi, dopo ben sessantadue anni, è il paradigma di coloro che ad ogni costo, non si accettano e vogliono apparire diversi da quelli che effettivamente sono. Si tratta di figure patetiche, prive di dignità ed identità, spinte nel loro comportamento da questa società dell’immagine, che pone la “visibilità” al primo posto fra i valori. Costoro venderebbero anche la madre per una macchina nuova, o per un capo di abbigliamento da “grande firma”, e non vorrebbero mai mancare alle occasioni che contano, in cui sono inevitabilmente relegati a ruoli di gregario. Attivi nella politica di oggi, anche senza avere un credo ed un ideale, cambiano senza alcun problema lo schieramento al variare dei risultati elettorali.
sabato 17 dicembre 2016
EVVIVA L'EPIFANIA
Rieccomi a voi a parlare del Natale, o meglio, più che del Natale in se, del periodo natalizio. Come ben sanno i quattro lettori adusi a qualche fugace occhiata ai miei scritti, esso è per me vissuto come una sorta di “male necessario”. Sarà per il tempo che passa, per l’età che avanza inesorabile, se è vero che “Epifania tutte le feste porta via”: evviva l’Epifania! Esclamazione liberatoria da un clima diffuso che sa molto di più di consumismo che di etica e/o fede.
Non se ne può più di girare per strada e sentire musica natalizia diffusa dagli altoparlanti, accendere la TV che continua a propinare panettoni, pandori e spumanti, partecipare a scambi di auguri nei vari ambiti istituzionali, fare la spesa al supermercato slalommando fra le scelle di baccalà (*), non se ne può proprio più! Eppure chi mi conosce sa bene che non sono ne un musone, ne tantomeno un misantropo: amo la gente che mi vive intorno e i giorni “normali”, tuttavia questo periodo genera in me malessere e maliconia.
Non è stato sempre così: fino a qualche decennio fa vivevo questo tempo se non con gioia, almeno con grande serenità. Mi piacevano le tombolate e tutte le altre piccole cose che la tradizione ha tramandato e che sono diventate un po’ il simbolo del periodo natalizio.
L’inversione di tendenza e di pensiero in me è cominciata forse da quando sono venute a mancare alcune persone care, guarda caso proprio (e quasi sempre) in questo periodo; le riunioni di famiglia indotte dalla tradizione, da allora non hanno fatto che sottolineare tali mancanze: quella sedia vuota, quel posto a tavola rimasto senza apparecchiare, rimandavano ai giorni dell’infanzia e dell’adolescenza quando mi preparavo con ansia positiva al Natale già nel tardo autunno. Che dire? … è la vita, ch’amma ffà. La maturità e il tempo che passa hanno cicatrizzato certe ferite, anche se quelle due, tre sedie vuote, quei due, tre posti non apparecchiati continuano a indurre malinconia.
Torniamo a noi: tra Natale e Capodanno prenderò qualche giorno di ferie dal lavoro che impiegherò nelle cose che mi piacciono: stare con la mia famiglia, magari concedendomi qualche uscita, andare in campagna se il tempo meteo lo permette, ritrovare amici che ritornano in paese, ed infine riposerò dal tran tran quotidiano. Cercherò, mi sforzerò di contemperare, con l’intensificazione dell’esercizio fisico, le mangiate natalizie a cui il mio apparato digerente non è più abituato. I giorni trascorreranno, bene o male, e io conterò alla rovescia quanto manca alla fine delle Feste.
(*): nel nostro dialetto il baccalà sotto sale ed intero, prima di essere bagnato prende il nome di scella perchè la forma ricorda l'ala di uccello, N.D.R.
Non se ne può più di girare per strada e sentire musica natalizia diffusa dagli altoparlanti, accendere la TV che continua a propinare panettoni, pandori e spumanti, partecipare a scambi di auguri nei vari ambiti istituzionali, fare la spesa al supermercato slalommando fra le scelle di baccalà (*), non se ne può proprio più! Eppure chi mi conosce sa bene che non sono ne un musone, ne tantomeno un misantropo: amo la gente che mi vive intorno e i giorni “normali”, tuttavia questo periodo genera in me malessere e maliconia.
Non è stato sempre così: fino a qualche decennio fa vivevo questo tempo se non con gioia, almeno con grande serenità. Mi piacevano le tombolate e tutte le altre piccole cose che la tradizione ha tramandato e che sono diventate un po’ il simbolo del periodo natalizio.
L’inversione di tendenza e di pensiero in me è cominciata forse da quando sono venute a mancare alcune persone care, guarda caso proprio (e quasi sempre) in questo periodo; le riunioni di famiglia indotte dalla tradizione, da allora non hanno fatto che sottolineare tali mancanze: quella sedia vuota, quel posto a tavola rimasto senza apparecchiare, rimandavano ai giorni dell’infanzia e dell’adolescenza quando mi preparavo con ansia positiva al Natale già nel tardo autunno. Che dire? … è la vita, ch’amma ffà. La maturità e il tempo che passa hanno cicatrizzato certe ferite, anche se quelle due, tre sedie vuote, quei due, tre posti non apparecchiati continuano a indurre malinconia.
Torniamo a noi: tra Natale e Capodanno prenderò qualche giorno di ferie dal lavoro che impiegherò nelle cose che mi piacciono: stare con la mia famiglia, magari concedendomi qualche uscita, andare in campagna se il tempo meteo lo permette, ritrovare amici che ritornano in paese, ed infine riposerò dal tran tran quotidiano. Cercherò, mi sforzerò di contemperare, con l’intensificazione dell’esercizio fisico, le mangiate natalizie a cui il mio apparato digerente non è più abituato. I giorni trascorreranno, bene o male, e io conterò alla rovescia quanto manca alla fine delle Feste.
(*): nel nostro dialetto il baccalà sotto sale ed intero, prima di essere bagnato prende il nome di scella perchè la forma ricorda l'ala di uccello, N.D.R.
mercoledì 7 dicembre 2016
UN TIPICITA' DA VALORIZZARE
Nonostante la plurisecolare tradizione contadina, il nostro paese purtroppo non vanta produzioni agroalimentari tipiche, almeno nel senso stretto di questa espressione. Condizioni agronomiche difficili e l’emigrazione hanno determinato l’abbandono di alcune tradizioni; inoltre da noi gli imprenditori agricoli e le loro famiglie hanno in gran parte preferito il reddito continuativo e relativamente sicuro derivante dalla produzione di latte bovino e/o bufalino, da vendere alla stalla; pertanto, allo stato dei fatti, non si sono sviluppate produzioni legate al territorio o alla particolare sapienza tramandata oralmente dalle nostre nonne, quali formaggi, salumi, oli e vini, come è avvenuto anche in zone a pochi chilometri da noi.
Se ci guardiamo intorno, tuttavia, un prodotto tipico, o che ha le caratteristiche per diventare tale, Pietramelara ce l’ha! Si tratta della famosa e prelibata “carna saucicciara”: è un piatto semplice ma buonissimo, sconosciuto o quasi appena si varcano i confini comunali, ma arcinoto e molto frequente sulle nostre tavole invernali.
L’origine si perde nella notte dei tempi: quando si uccideva il maiale, questo veniva lasciato a frollare per una nottata, la mattina dopo doveva essere “scortellato”, cioè sezionato nei vari tagli, dopodiché ciò che non serviva per prosciutti lonze , capocolli e ventresche veniva tagliuzzato a dadini e conciato con sale, finocchietto e peperoncino piccante, inoltre qualcuno aggiungeva aglio o altri aromi (buccia di arancio, foglia di alloro, coriandolo). L’impasto così ottenuto andava insaccato nelle budella del maiale, previamente pulite, per ricavarne salsiccia da essiccare. Per vedere se la concia era andata a buon fine, se la carne era al giusto punto di salatura e piccantezza, se il tutto si era armonizzato ed avrebbe conferito il giusto sapore alla salsiccia, si procedeva all’assaggio, friggendo in padella una piccola quantità della carne così preparata e destinata alle salsicce, detta perciò “carna saucicciara”. Da questa usanza il passo ulteriore perché la nostra “saucicciara” divenisse un piatto tipico si è avuto allorquando, negli anni settanta, si diede vita alle prime “sagre al borgo”. Da semilavorato a piatto vero e proprio! …negli stand allestiti per l’evento la nostra carne divenne un must, richiesto e preferito dagli avventori, nel panino o nel piatto, e tutt’oggi la saucicciara continua ad esser la pietanza simbolo della Sagra. Da allora l’uso in cucina si è diffuso a tal punto che oggi tutte le macellerie del luogo non mancano, nel lungo periodo che va da ottobre fino alla primavera inoltrata, di offrire alla clientela la carne saucicciara, tagliata e conciata, già bella e pronta da essere messa in padella.
Ritengo che l’enogastronomia locale si possa fregiare a buon diritto di questa preparazione così singolare e legata alla tradizione; il passo ulteriore dovrebbe essere quello della valorizzazione. Prima di tutto si dovrebbe proporre un disciplinare che regoli la materia prima, i tagli, le razze suine, quindi la tecnica di preparazione, la concia, ed un marchio collettivo in grado di renderla riconoscibile al consumatore. Suggerirei due tipologie, una più nobile e costosa, con il taglio della carne “a punta di coltello”, a mano quindi, ottenendo in tal modo un prodotto molto più bello da vedersi, sia cotto che crudo, ma soprattutto molto più buono in quanto assolutamente libero da nervi, connettivo ed altre imperfezioni. La seconda tipologia, molto più economica e meno pregiata potrebbe riferirsi al taglio della carne a macchina.
Attivare la lunga procedura per il riconoscimento di tale tipicità, con l’approvazione del disciplinare e del marchio, spetta agli operatori economici, allevatori e trasformatori, secondo quanto previsto dalla normativa europea di settore; la cosa non è facile in se, perché si scontra prima di tutto con la scarsa propensione a sostenere finanziariamente l’iter della procedura, con la sfiducia e la diffidenza tipica di tali iniziative da parte di chi dovrebbe avvantaggiarsene in primo luogo. Ma non è detto che in un domani vicino o lontano non possa succedere.
Se ci guardiamo intorno, tuttavia, un prodotto tipico, o che ha le caratteristiche per diventare tale, Pietramelara ce l’ha! Si tratta della famosa e prelibata “carna saucicciara”: è un piatto semplice ma buonissimo, sconosciuto o quasi appena si varcano i confini comunali, ma arcinoto e molto frequente sulle nostre tavole invernali.
L’origine si perde nella notte dei tempi: quando si uccideva il maiale, questo veniva lasciato a frollare per una nottata, la mattina dopo doveva essere “scortellato”, cioè sezionato nei vari tagli, dopodiché ciò che non serviva per prosciutti lonze , capocolli e ventresche veniva tagliuzzato a dadini e conciato con sale, finocchietto e peperoncino piccante, inoltre qualcuno aggiungeva aglio o altri aromi (buccia di arancio, foglia di alloro, coriandolo). L’impasto così ottenuto andava insaccato nelle budella del maiale, previamente pulite, per ricavarne salsiccia da essiccare. Per vedere se la concia era andata a buon fine, se la carne era al giusto punto di salatura e piccantezza, se il tutto si era armonizzato ed avrebbe conferito il giusto sapore alla salsiccia, si procedeva all’assaggio, friggendo in padella una piccola quantità della carne così preparata e destinata alle salsicce, detta perciò “carna saucicciara”. Da questa usanza il passo ulteriore perché la nostra “saucicciara” divenisse un piatto tipico si è avuto allorquando, negli anni settanta, si diede vita alle prime “sagre al borgo”. Da semilavorato a piatto vero e proprio! …negli stand allestiti per l’evento la nostra carne divenne un must, richiesto e preferito dagli avventori, nel panino o nel piatto, e tutt’oggi la saucicciara continua ad esser la pietanza simbolo della Sagra. Da allora l’uso in cucina si è diffuso a tal punto che oggi tutte le macellerie del luogo non mancano, nel lungo periodo che va da ottobre fino alla primavera inoltrata, di offrire alla clientela la carne saucicciara, tagliata e conciata, già bella e pronta da essere messa in padella.
Ritengo che l’enogastronomia locale si possa fregiare a buon diritto di questa preparazione così singolare e legata alla tradizione; il passo ulteriore dovrebbe essere quello della valorizzazione. Prima di tutto si dovrebbe proporre un disciplinare che regoli la materia prima, i tagli, le razze suine, quindi la tecnica di preparazione, la concia, ed un marchio collettivo in grado di renderla riconoscibile al consumatore. Suggerirei due tipologie, una più nobile e costosa, con il taglio della carne “a punta di coltello”, a mano quindi, ottenendo in tal modo un prodotto molto più bello da vedersi, sia cotto che crudo, ma soprattutto molto più buono in quanto assolutamente libero da nervi, connettivo ed altre imperfezioni. La seconda tipologia, molto più economica e meno pregiata potrebbe riferirsi al taglio della carne a macchina.
Attivare la lunga procedura per il riconoscimento di tale tipicità, con l’approvazione del disciplinare e del marchio, spetta agli operatori economici, allevatori e trasformatori, secondo quanto previsto dalla normativa europea di settore; la cosa non è facile in se, perché si scontra prima di tutto con la scarsa propensione a sostenere finanziariamente l’iter della procedura, con la sfiducia e la diffidenza tipica di tali iniziative da parte di chi dovrebbe avvantaggiarsene in primo luogo. Ma non è detto che in un domani vicino o lontano non possa succedere.
venerdì 2 dicembre 2016
CASERTANO: ATTENTI ALLE TRUFFE
Da qualche tempo e sempre più frequentemente capita che in ristoranti, bistrot, agriturismi o esercizi affini vengano proposti agli avventori piatti e pietanze a base di carne suina di “maialino casertano”. Va detto al proposito che prima di tutto che vi è una grossa imprecisione nella dizione pluriabusata “maialino casertano”, che maialino non è in quanto si tratta di un animale di una certa taglia e i cui soggetti giungono generalmente al macello ben oltre la stazza di cento chilogrammi, e che sarebbe molto più corretto, anche non volendo usare l’acronimo scientifico Tga (tipo genetico autoctono), parlare di “suino di razza casertana”, denominato nel territorio di origine anche Pelatella, Napoletana e Teanese. E’questo un animale dalle caratteristiche molto particolari e diverse dai soliti suini alla cui immagine siamo abituati: di taglia medio-piccola, con pelle nera o grigio-ardesia,setole rade e sottili, talvolta raggruppate a formare ciuffetti specialmente sul collo, sulla testa e all’estremità della coda.
Ma la cosa veramente curiosa è questa: siccome dalle nostre parti è sempre più rara la proposta di carni suine di origine“dichiaratamente diversa” dalla casertana, vuoi vedere che le altre razze sono in corso di estinzione o, addirittura, estinte?
Bando alle facezie e alle battute, ritengo che l’interesse mostrato da ristoratori e consumatori nei confronti della razza suina che ha preso origine proprio dalle nostre parti, sia ormai un fatto consolidato. E quando qualcosa diventa di moda è ovvio che la si corra ad imitare; attenzione quindi alle eventuali truffe: non tutto ciò che viene spacciato per “casertano” lo è in realtà!
Al contrario, la sensazione che ho colto nel guardami intorno è che le aziende che si dedicano a tale di tipo di allevamento, dopo un iniziale boom risalente a circa un decennio fa, vanno sempre più contraendosi nel numero e, di conseguenza, anche le produzioni divengono di giorno in giorno sempre più esigue.Il problema maggiore consiste nella limitata redditività di tale tipo di allevamento, perché i costi di produzione sensibilmente superiori alle altre razze non vengono remunerati adeguatamente da un prezzo maggiore rispetto a quello degli altri suini commerciali; ne deriva una scarsezza di soggetti da immettere sul mercato delle carni fresche o da trasformare in pregiati salumi. Il sogno di qualche allevatore di trovar fortuna allevando il “casertano” si è infranto quindi contro una dura realtà. Certo, in talune condizioni particolari, quali ad esempio estesi boschi di querce o di castagno selvatico, il costo di produzione scende notevolmente e il pregio delle carni ne guadagna, perché un maiale allo stato semibrado, che grufola ghiande o piccole castagne trovate direttamente sul terreno, cresce quasi a costo zero producendo carni saporitissime. Ma sono veramente poche le aziende in cui ciò può avvenire!
La razza suina casertana, si avvia pertanto a rimanere la materia prima per uno o più prodotti“di nicchia” e difficilmente si possono prevedere espansioni notevoli del comparto, con positive ricadute diffuse sull’economia locale. Come difendere i consumatori e gli operatori economici effettivamente interessati alla valorizzazione di questo particolare allevamento? La “parolina magica” è anche in questo caso la tracciabilità: solo con la conoscenza dell’intero percorso dalla stalla al banco del supermercato, si possono offrire credibili garanzie ai consumatori.L’originale suino di razza Casertana, oggi è tutelato dal Registro Anagrafico (RA) dei Tipi Genetici Autoctoni dell’Anas (Associazione Nazionale Allevatori Suini) e gestito in Campania dall’Arac (Associazione Regionale Allevatori della Campania), ma manca un disciplinare di produzione per le carni fresche e per i salumi, che definisca con chiarezza la materia prima e la tecnica di trasformazione. In passato qualche istituzione sul territorio ha cercato di intraprendere tale percorso, ma poi esso non è stato mai portato a compimento. Un certo disinteresse degli allevatori, derivante dalle cocenti delusioni subite,ha fatto il resto, e oggi incombe il pericolo di un comparto in cui ci guadagna solo chi è meno onesto.
Sullo stesso argomento, in questo blog: "IL DIO NIGLIU" (http://scribacchiandoperme.blogspot.it/2012/12/il-dio-nigliu.html) e "Una mattina di gennaio un sacrificio pagano" (http://scribacchiandoperme.blogspot.it/2012/01/una-mattina-di-gennaio-un-sacrificio.html)
Ma la cosa veramente curiosa è questa: siccome dalle nostre parti è sempre più rara la proposta di carni suine di origine“dichiaratamente diversa” dalla casertana, vuoi vedere che le altre razze sono in corso di estinzione o, addirittura, estinte?
Bando alle facezie e alle battute, ritengo che l’interesse mostrato da ristoratori e consumatori nei confronti della razza suina che ha preso origine proprio dalle nostre parti, sia ormai un fatto consolidato. E quando qualcosa diventa di moda è ovvio che la si corra ad imitare; attenzione quindi alle eventuali truffe: non tutto ciò che viene spacciato per “casertano” lo è in realtà!
Al contrario, la sensazione che ho colto nel guardami intorno è che le aziende che si dedicano a tale di tipo di allevamento, dopo un iniziale boom risalente a circa un decennio fa, vanno sempre più contraendosi nel numero e, di conseguenza, anche le produzioni divengono di giorno in giorno sempre più esigue.Il problema maggiore consiste nella limitata redditività di tale tipo di allevamento, perché i costi di produzione sensibilmente superiori alle altre razze non vengono remunerati adeguatamente da un prezzo maggiore rispetto a quello degli altri suini commerciali; ne deriva una scarsezza di soggetti da immettere sul mercato delle carni fresche o da trasformare in pregiati salumi. Il sogno di qualche allevatore di trovar fortuna allevando il “casertano” si è infranto quindi contro una dura realtà. Certo, in talune condizioni particolari, quali ad esempio estesi boschi di querce o di castagno selvatico, il costo di produzione scende notevolmente e il pregio delle carni ne guadagna, perché un maiale allo stato semibrado, che grufola ghiande o piccole castagne trovate direttamente sul terreno, cresce quasi a costo zero producendo carni saporitissime. Ma sono veramente poche le aziende in cui ciò può avvenire!
La razza suina casertana, si avvia pertanto a rimanere la materia prima per uno o più prodotti“di nicchia” e difficilmente si possono prevedere espansioni notevoli del comparto, con positive ricadute diffuse sull’economia locale. Come difendere i consumatori e gli operatori economici effettivamente interessati alla valorizzazione di questo particolare allevamento? La “parolina magica” è anche in questo caso la tracciabilità: solo con la conoscenza dell’intero percorso dalla stalla al banco del supermercato, si possono offrire credibili garanzie ai consumatori.L’originale suino di razza Casertana, oggi è tutelato dal Registro Anagrafico (RA) dei Tipi Genetici Autoctoni dell’Anas (Associazione Nazionale Allevatori Suini) e gestito in Campania dall’Arac (Associazione Regionale Allevatori della Campania), ma manca un disciplinare di produzione per le carni fresche e per i salumi, che definisca con chiarezza la materia prima e la tecnica di trasformazione. In passato qualche istituzione sul territorio ha cercato di intraprendere tale percorso, ma poi esso non è stato mai portato a compimento. Un certo disinteresse degli allevatori, derivante dalle cocenti delusioni subite,ha fatto il resto, e oggi incombe il pericolo di un comparto in cui ci guadagna solo chi è meno onesto.
Sullo stesso argomento, in questo blog: "IL DIO NIGLIU" (http://scribacchiandoperme.blogspot.it/2012/12/il-dio-nigliu.html) e "Una mattina di gennaio un sacrificio pagano" (http://scribacchiandoperme.blogspot.it/2012/01/una-mattina-di-gennaio-un-sacrificio.html)
Iscriviti a:
Post (Atom)