Si trattava di un rudimentale giocattolo in voga nella mia (…sigh) lontana infanzia, chiamato “a pall’ e zazzà”, si vendeva nelle feste di paese ed era molto semplice: una piccola pallina di pezza legata ad un sottile elastico lungo un metro circa, costava cinquanta o cento lire (due/cinque centesimi di euro), non di più. Come si vede dall’immagine di copertina, il divertimento consisteva nel scagliare la palla e recuperarla nel palmo della mano, dopo che l’elastico teso si ritirava e riscagliarla, e così via per un numero indefinito di volte e con frequenza crescente. Chi sarà stato poi questo zazzà non è dato saperlo, ma forse è solo un’onomatopea derivante dal suono prodotto dalla pallina nell’incessante vai e vieni.
Il nostro linguaggio rurale, a volte spietato e colorito, si è impadronito di questa pallina che va e viene dalla nostra mano, e così “a pall’ e zazzà” è divenuta la metafora di cose e persone costrette a fare avanti e indietro da un luogo all’altro, per un numero indefinito di volte. Di fronte a tale comportamento, ancora qualcuno, evidentemente legato al nostro antico modo di dire, esclama ancora “m’ pari a pall’ e zazzà” (trad.: sembri la palla di zazzà) oppure “e’ fattu a fin’ r’ a pall’ e zazzà” (trad.: hai fatto la fine della palla di zazzà, ndr).
Prendete me, ad esempio: ieri mattina a Caserta, poi a Napoli per risolvere problemi di lavoro e, una volta individuata la soluzione, di nuovo a Caserta per applicarla nella realtà: tipico comportamento che ricorda da vicino la nostra pallina. Mi è venuto di istinto, parlando con una collega, che chiedeva di tale mio andirivieni: “aggiu fatt’ a fine r’ a pall’ e zazzà”, le ho risposto; meravigliata e divertita mi ha chiesto di cosa si trattasse, ed io allora ho dovuto spiegarle tutto quanto ho descritto a voi quattro lettori, nella premessa.
Ma non crediate che il mio sia un caso isolato o singolare: tutt’altro! Quante altre volte è capitato a me stesso, e a tanti altri ancora. I casi e le circostanze della vita a volte ci costringono ad affrontare problemi “a pezzi”, quasi come si fa componendo un mosaico: ed allora un pezzo qua, l’altro la, e un altro ancora nel posto dove eravamo stati prima. Questo pendolare da un luogo all’altro alla ricerca di beni, condizioni di vita, idee o altro ha fatto di noi un insieme di uomini e donne sempre più dominati dallo stress quotidiano, anche perché non è tanto l’andirivieni ad affaticare, ma soprattutto il contesto: mezzi pubblici che non passano, traffico urbano, tempo meteo avverso, appuntamenti mancati e quant’altro. L’immagine plastica e suggestiva della pallina che si allontana e che, inevitabilmente richiamata dall’elastico teso, si riavvicina è quella che rende più da vicino l’immagine di noialtri.
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