Scribacchiando per me

Scribacchiando per me
il blog di un pietramelarese

domenica 24 gennaio 2016

ANDAR PER BORGHI: MARZANELLO VECCHIO

Sono riprese stamattina le passeggiate domenicali nei dintorni: si tratta ormai di una tradizione consolidata, si trascorre la domenica mattina andando per monti e per sentieri; un’ottima occasione per stare insieme agli amici, fare quella moderata attività fisica che l’età “tarda”ancora permette, il tutto condito dallo sfottò sulle “brillanti” condizioni fisiche che si possono constatare in tali occasioni. Basta spostarsi di qualche chilometro per trovare angoli suggestivi e particolarmente ameni, l'alto casertano è infatti una vera miniera di tesori incantevoli: borghi, castelli, chiese che a volte grazie alla sensibilità di qualche amministratore tornano a rivivere.
Stamattina è stata la volta del plurisecolare borgo di Marzanello vecchio, da poco sottoposto ad un restauro che ne ha esaltato alcuni scorci, tra i quali brilla la Chiesa settecentesca di San Nicola (ripresa con criteri di restauro francamente non del tutto condivisibili).
Dalla rete apprendo che “il Castrum Marzanelli (o Castrum Martianelli), inteso come centro abitato fortificato con dignità urbana affonda le sue origini probabili nell’epoca delle prime invasioni barbariche, ma dovette assumere la sua piena dignità nei secoli IX e X, quando il territorio del Medio Volturno venne ad essere funestato in modo continuo dalle cruente scorrerie saracene”. Da una lettura filologica delle rovine e da antichi documenti di archivio, tuttavia, si evince con buona probabilità che il borgo dovette formarsi non prima del XV secolo. Si ritiene probabile inoltre che un palazzo signorile sorgesse sulla sommità della cima 323 e dominasse tutto il piccolo abitato sottostante, e che in parte esso fosse stato demolito per far luogo alla Chiesa di San Nicola. Sul finire del secondo conflitto mondiale il borgo, con gli elementi architettonici che avrebbero potuto essere utilissimi al fine di avere notizie più dettagliate e veritiere sull’evoluzione dell’abitato, furono distrutti dal tiro degli angloamericani, che, dalla collina di S. Felice di Pietravairano, effettuavano le tarature delle artiglierie facendo il tiro a segno sulle strutture di Marzanello Vecchio.
La sensazione più diretta ed immediata che ha causato in me, Liberato e Stefano (gli amici che mi accompagnavano) l’escursione di stamattina è legata alle imponenti dimensioni della Chiesa di San Nicola, sicuramente sproporzionata rispetto allo sparuto centinaio di anime (o poco più) che dovevano abitare il piccolo borgo, anche nei momenti di maggior espansione demografica. L’aula a navata unica è sicuramente paragonabile per dimensioni a una Chiesa parrocchiale di una comunità di dimensioni ben maggiori, per intenderci siamo nell’ordine di grandezza della nostra Sant’Agostino; tale fatto si potrebbe spiegare con la volontà di un donante, identificabile nel feudatario del tempo, che volle fare “le cose in grande”, forse per sciogliere un voto o, molto più probabilmente per affermare anche in tal modo la propria posizione di potere. Il restauro della chiesa, come accennato in precedenza, è stato portato avanti rendendo più che evidenti le parti aggiunte rispetto a quelle originarie, facendo abbondante uso di legno lamellare per le coperture e di acciaio cromato e vetri per l’interno … cose da architetti! Per il pavimento, invece, è stato utilizzato un bel cotto.
Guardando verso il basso, in prossimità dell’abside, si notano il castello ed il borgo di Vairano Patenora, siti parecchio più in basso, tanto da indurre l’osservatore a considerare una sorta di una remota subalternità dell’attuale capoluogo comunale, rispetto a quella che oggi è solo la vaga impronta di una frazioncina.
Ad ogni buon conto un’esperienza da rivivere quella di stamattina, magari più in là, in notturna, per godere anche della suggestione della rete di illuminazione che rende visibile il borgo di notte da ogni punto della valle, anche in distanza.

in copertina la Chiesa di San Nicola (XVIII sec.), prima e dopo il restauro

domenica 17 gennaio 2016

7 MAGGIO 1836: FU' VERA CORTESIA?

Un personaggio controverso e dalle mille sfaccettature, un pietramelarese di cui si parla poco o niente, e forse a torto, perché ebbe una vita avventurosa e seppe con un certo pragmatismo molto partenopeo aggirare e superare le traversie politiche che avrebbero potuto avere ripercussioni negative sulla sua vita.
Era figlio di Vincenzo Caracciolo, duca di Mignano e di Roccaromana, e di Petronilla de Lignéville (il cui monumentale albero genealogico su pergamena si conserva nel museo annesso alla chiesa di Sant’Agostino), militare di carriera, Lucio Caracciolo si distinse sconfiggendo, alla guida di un reggimento di cavalleria, le truppe francesi che avevano occupato Caiazzo durante l'invasione francese del Regno di Napoli (8 gennaio 1799).
Assieme a Girolamo Pignatelli, principe di Moliterno, il 14 gennaio 1799 Lucio Caracciolo fu nominato comandante del popolo napoletano deciso a difendersi da solo contro gli invasori francesi dopo l’ armistizio di Sparanise dell'11 gennaio. Il Colletta, storico partenopeo, ci dice che i due ufficiali erano popolari perché «nobili, domatori arditi di cavalli, e (che più val su la plebe) grandi e belli della persona». I due tuttavia non riuscirono a controllare la reazione dei lazzari, la situazione sfuggì loro di mano e, mentre Napoli precipitava all'anarchia, si rifugiarono nel forte di Sant'Elmo, il cui comandante era Nicola Caracciolo, fratello di Lucio. Nella notte tra il 19 e il 20 gennaio cedettero il forte ai ribelli filofrancesi.
Nel successivo decennio napoleonico fu fedele a Giocchino Murat, e colonnello del reggimento dei Veliti a cavallo (1808); prese parte valorosamente alla Campagna di Russia nella quale subì il congelamento degli arti. Con la Restaurazione e il ritorno dei Borboni, il 26 dicembre 1818 fu nominato tenente generale.
Il preambolo biografico che precede ci introduce in un episodio di grandissima importanza per un centro come Pietramelara: la visita ivi compiuta da Ferdinando II, sovrano delle Due Sicilie, il giorno 7 maggio 1836, il cui ricordo (sbiadito) si ritrova sulla piccola lapide posta all’ingresso del nostro Palazzo Ducale.
Cosa indusse il Re a recarsi nell’austero palazzo fatto costruire due secoli prima da Faustina Colonna? Erano quelli gli anni della restaurazione, e la dinastia borbonica era in affanno per consolidare il potere nel più bello ed esteso regno della penisola. I rapporti fra i Borboni e i nobili del regno non erano mai stati buoni, da sempre; pertanto la ragion di stato ed il bene della dinastia imponevano diplomazia e tatto, per rinsaldare quel legame mai stato solido; leggiamo dalla lapide che il sovrano dovette sobbarcarsi ben quattro ore a cavallo, da San Leucio a Pietramelara, per far visita a Lucio Caracciolo, Capitano delle Reali Guardie del Corpo ed informarsi personalmente del suo stato di salute. Qualcuno, però, vuole che non si sia trattato solo di un atto di cortesia, e che la volontà vera del Re era una sorta di visita fiscale ante litteram, perché la prolungata assenza del Caracciolo dalla Corte Borbonica aveva finito per indispettirlo ed insospettirlo.
Quanto ci sia di vero in tali dicerie non lo sapremo mai, ma forse Ferdinando II era uno di coloro che tengono fede al principio (andreottiano) secondo il quale “A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”, ed allora il monarca dovette pensare “Già in più occasioni mi sei stato contrario, ed io ti ho perdonato e ti ho fatto far carriera e … ora? Dici di star male per star lontano dagli impegni di corte? Lascia quindi che io mi accerti di persona dei veri motivi che ti fanno preferire Pietramelara alle reali residenze”. La storia purtroppo ci rivela che quelle del Caracciolo non dovevano essere state assolutamente delle scuse, se è vero, com’è vero che la sua morte sopravvenne solo qualche mese dopo, il 2 Dicembre 1836, in Napoli, dove venne sepolto in una cappella della Chiesa di San Giovanni a Carbonara.

In copertina Lucio Caracciolo nel ritratto di Gaetano Forte (museo di San Martino)

martedì 12 gennaio 2016

FABER, UN ANTICONFORMISTA MUSICALE

L’11 gennaio di diciassette anni fa moriva Fabrizio De André, il più celebrato fra i cantautori italiani: per l’approccio al proprio mestiere e una serie di elementi di stile, di momento e di modo in cui i suoi brani sono arrivati al successo, De André può essere indicato come l’artista più rappresentativo per un intero genere di canzone.
Nacque nel 1940 nel quartiere genovese di Pegli, e Genova ha rappresentato per lui almeno nella prima fase della carriera una fonte di ispirazione (Via del Campo, La città vecchia, ecc.); inoltre il legame mai sciolto con la città natale lo indusse a pubblicare nel 1984, già maturo, un meraviglioso album in dialetto genovese: Crêuza de mä. Un episodio ne segnò la vita ed il percorso artistico: il rapimento avvenuto nella sera del 27 agosto 1979, in Sardegna, dove si era ritirato da qualche anno insieme alla sua compagna Dori Ghezzi; la prigionia durò quattro mesi, ma Fabrizio non se la prese troppo a male anzi, in onore del fiero popolo sardo, compose, a vicenda conclusa, un album senza titolo in cui paragonava la sorte del popolo sardo a quella delle tribù indiane del Nord America; in seguito fu anche tra i firmatari della domanda di grazia rivolta al Presidente della Repubblica, nei confronti di uno dei sequestratori, un pastore sardo condannato a 25 anni di prigione .
Ho conosciuto la musica di Faber, come amava chiamarlo l’amico Paolo Villaggio, non molto presto, verso la fine degli anni ’70, già maggiorenne; un incontro voluto più dalla necessità che dal caso. Erano quegli gli anni delle grandi contestazioni, del terrorismo organizzato, con forti spinte ideologiche che pervenivano da ogni dove: dagli amici che frequentavo, dall’università e dai mass media. Fu un incontro dapprima a interesse freddo e limitato, che poi man mano si accrebbe grazie alle tematiche affrontate e al modo così anticonformista di trattarle. Ammirai il coraggio di De Andrè nell’avventurarsi addirittura nel campo religioso, come con l’album “La buona novella”, ispirato ai vangeli apocrifi, fatto assolutamente al di fuori della linea comportamentale della sinistra di allora, generalmente dettata da un conformismo imposto dalle federazioni comuniste. A tale proposito ricordo che il nostro Don Roberto, sacerdote innovatore ed impegnato, promosse un ciclo di incontri fra giovani che vertevano sulle tematiche dei pezzi del nostro cantautore e che venivano preceduti dall’ ascolto di brani scelti. Ho avuto anche il privilegio di ascoltare Fabrizio De Andrè dal vivo, in un memorabile concerto a Vairano Patenora, nel settembre dell'84: un’emozione unica, in cui diede il meglio di se stesso, promuovendo si “Crêuza de mä”, appena uscito, ma non privandoci del piacere di farci ascoltare moltissimi brani che lo avevano reso famoso. Posso dire di conoscere oggi in modo abbastanza diffuso il mondo delle canzoni di De Andrè, una conoscenza che quando posso cerco sempre di approfondire con l’ascolto.

martedì 5 gennaio 2016

LA NOTTE DELLA BEFANA

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La notte della befana, quella che sta per iniziare, è densa di magia, di paure, di ricordi, di senso dell’attesa.
E’ questa la notte in cui la decrepita ma simpatica vecchina sembra si aggiri a cavallo di una logora scopa per le case abitate da bambini, entri nel comignolo del camino ed incurante della fuliggine e del pesante fardello che reca, vada a in giro a dispensare doni: se i bimbi sono stati buoni per loro ci saranno doni e cose buone, altrimenti solo cenere e carbone.
E’ un’immagine questa, densa di suggestione ma alquanto fuori dal tempo: si chiederebbe, infatti, qualche dissacratore in vena di polemiche, “ma allora se una casa non dispone di un camino i bambini che vi abitano debbono, per forza di cose, fare a meno di questo momento di gioia che contraddistingue la fine delle festività natalizie? Le calze dei bimbi che vivono in case riscaldate da termosifoni o semplici stufe rimarranno sempre vuote? “
Ma, bando a tali “profondi” interrogativi, quali sono le origini di questa tradizione?
Esse sono probabilmente connesse a un insieme di riti propiziatori pagani, risalenti già al X-VI secolo a.C., in merito ai cicli stagionali dell’ agricoltura, tuttavia, secondo una leggenda risalente intorno al XII secolo, i Re Magi, diretti a Betlemme per portare i doni a Gesù Bambino, non riuscendo a trovare la strada, chiesero informazioni ad una donna anziana. Malgrado le loro insistenze, affinché li seguisse per far visita al piccolo, questa non uscì di casa per accompagnarli. In seguito, pentitasi di non essere andata con loro, dopo aver preparato un cesto di dolci, uscì di casa e si mise a cercarli, senza riuscirci. Così si fermò ad ogni casa che trovava lungo il cammino, donando dolciumi ai bambini che incontrava, nella speranza che uno di essi fosse il piccolo Gesù. Da allora girerebbe per il mondo, facendo regali a tutti i bambini, per farsi perdonare.
I bambini usarono poi, mettere delle scarpe e/o delle calze fuori dall'uscio di casa, proprio perché sarebbero servite come ricambio durante il lungo errare della vecchietta; ma, se quest'ultima non ne avesse avuto bisogno, le avrebbe lasciate lì, riempite appunto di dolci.
Quali i ricordi della notte della Befana per il vostro blogger scribacchiante? Lo avrete capito, cari miei quattro lettori, ciò che non mi difetta sono proprio i ricordi, ed allora: il viaggio di papà e mamma nei giorni precedenti , che in realtà serviva a procurarsi i doni ma che veniva fatto passare per l’esigenza di “andare a parlare con la Befana”, assicurarle che eravamo stati dei bravi bambini e comunicarle, infine, quali giochi ci saremo aspettati di trovare la mattina del 6 gennaio; andare a letto presto per svegliarsi presto la mattina seguente e trovare ai piedi del letto ciò che tanto si desiderava; il terrore di svegliarsi nel mezzo della notte per non imbattersi nella vecchina dall’aspetto se non orrendo, di sicuro poco gradevole e rassicurante
E’ normale … non crediate che le occasioni in cui si ricevevano dei doni erano tanto numerose, nell’anno! L’uso, oggi diffuso, dei regali natalizi non esisteva ancora. Aggiungo che ho vissuto l’infanzia in un periodo di forte prosperità economica, il famoso “boom” degli anni ’60, ma nel quale erano ancora fortemente presenti e considerati i valori della parsimonia e del rispetto per il danaro, ereditati dai decenni precedenti, ben più magri; pertanto il giorno della Befana era per noi, bambini del tempo, un giorno speciale, assolutamente fuori dalla quotidianità, anche se, come immancabile rovescio della medaglia – ahinoi- il giorno dopo si ritornava a scuola, dopo il lungo periodo delle vacanze natalizie.