E’ da tempo, caro “scribacchiando”, che, ad imbrattare le tue pagine, non ci provo neppure. Tempo di crisi!... mi lamentavo già qualche mese fa, ma oggi sembra che non abbia proprio più nulla da dirti. La mia vena, la mia voglia di scrivere, che qualche consenso lo hanno pur destato, sembra si siamo momentaneamente assopite, per non dire che ormai ronfano a più non posso. Visto che ci sono, e siccome è passato un bel po’ di tempo che non comunico più con te, provo a raccontarti la mia giornata, così … tanto per trascorrere un po’ di tempo insieme.
Si inizia di buon mattino, quando l’alba è ancora nascosta fra i monti ed il cielo è ancora scuro: piccola colazione, telegiornale, e la solita mezz’ora al PC, per coltivare passioni che solo a quell’ora posso permettermi di coltivare. Viaggio prima in auto, poi in treno, discorrendo con i soliti amici e/o con occasionali compagni di viaggio, a Caserta mi attende la fida bici, che assolve al compito di recarmi dalla stazione in ufficio, luogo in cui trascorro la maggior parte della mia giornata.
E qui viene il bello (se di bello si può parlare). Sono stati chiusi nei giorni scorsi vari bandi del PSR, a cui hanno partecipato un numero di richiedenti superiore ad ogni rosea (o pessimistica?) previsione; ed allora, appena passate le otto e mezza, la mia stanza comincia a mutare di aspetto e, dapprima con gradualità, poi via via con sempre maggior vigore, si trasforma in qualcosa che somiglia da vicino a uno di quei suk brulicanti delle città arabe, dove le voci degli avventori si sommano a quelle di coloro che sono li per vendere qualcosa, ed ognuno alzando la voce cerca di prendere il sopravvento e di prevalere. Suona il telefono, fingo di ignorarlo, ma il furbo, dall’altro lato del filo, pensa bene di chiamare al cellulare (sia stramaledetto l’inventore dell’unico strumento di tortura divenuto status simbol). Intanto entra il capo, reca anch’egli il diabolico telefonino nel palmo della mano, mi dice che tale sindaco vuole conferire con me, assorto come sono nelle mie cose,distrattamente gli rispondo “fallo accomodare” senza degnarlo di un solo sguardo, ma lui comincia ad innervosirsi e replica “non è qui ma al telefono”, sorridiamo entrambi. Si avvicina l’ora del pranzo, la gente e le telefonate non ne vogliono proprio sapere di concedermi questa pausa (meritata, che dici?), cerco allora di fare uno sforzo per completare un po’ di cose, ci riesco.
Dopo pranzo i ritmi si fanno più soft, l’utenza non può più accedere agli uffici e ci si può dedicare a tirare le fila del discorso, tentare di stilare un bilancio provvisorio della giornata, anche per chiedersi, come diceva qualcuno, se “lo stipendio per questo giorno l’ho meritato o no?”.
Si ritorna a casa: bici, treno, auto, percorso a ritroso. Un po’ di musica dalle cuffiette, nella parte ferroviaria; mancano i compagni di viaggio? … tanto meglio, si può anche schiacciare un pisolino. Non mi è mai capitato di andare oltre la destinazione, a causa di queste sieste ferroviarie, ma qualche volta ci è mancato molto poco!
A casa la famiglia, gli affetti e gli altri impegni propri del sottoscritto: i lavoretti di casa, il giardino, la campagna e se avanza un po’ di tempo si va camminare all’aria aperta.
Giornate “normali” per gente “normale”.
Scribacchiando per me
mercoledì 25 settembre 2013
sabato 21 settembre 2013
ESSERE PIETRAMELARESE
Essere pietramelarese costituisce da sempre motivo d’orgoglio in chi lo è: tale condizione, infatti, eleva anche il più semplice dei cittadini ad un rango privilegiato rispetto alle realtà ed ai paesi che ci circondano: la cultura diffusa, il senso di ospitalità, la bellezza del paese, delle campagne e dei monti che lo circondano conferiscono in chiunque un forte carattere di appartenenza che porta i singoli ad identificarsi pienamente nella comunità. Vi è da dire che oggi questi sentimenti si sono in parte affievoliti ma, per fortuna, non annullati: essi resistono in un numero elevato di persone appartenenti ad ogni classe di età e ceto sociale!
Per quello che mi riguarda, penso che la mia “pietramelaresità” traspaia da qualsiasi gesto ed espressione: a volte, devo confessarlo, essa è divenuta anche motivo di ironia - se non di scherno - per i miei compagni di lavoro, persone che – per forza di cose - non possono rendersi conto di quanto questo sentimento sia presente in tutti noi. Vado ripetendo che il dialetto Pietramelarese è da sempre il modo che preferisco per esprimermi, specie quando mi trovo tra persone che gradiscono la riscoperta di termini e modi di dire del passato. Nel corso degli anni che ho vissuto ho sentito sempre aumentare il bisogno di trascorrere parte del mio tempo libero in piazza, ad ascoltare le persone, a capirne i problemi e gli interessi; ho sentito crescere l’esigenza di percorrere a piedi, in bicicletta o, al limite, con la mia vecchia moto, le nostre contrade rurali, per assaporare gli odori ed i colori di una natura lussureggiante, per leggere e studiare un paesaggio frutto della saggia collaborazione fra l’uomo e la natura.
Se me lo consentite, anche la mia passione per lo scrivere è stata dettata, imposta dall’esigenza di far conoscere ad un gran numero di persone le tante cose belle e buone di Pietramelara, nonché a stimolare e far aumentare in chi la amministra l’attaccamento alla missione che gli è stata affidata. Non so in quale misura i miei scritti abbiano centrato questo obiettivo ma, vi assicuro, le intenzioni erano le migliori: collaborare con la stampa locale ha costituito per me un’esperienza esaltante , ricca di motivazioni.
Essere e sentirsi di Pietramelara, a mio modo di vedere, significa anche e soprattutto preferire che chi mi rivolge la parola mi chiami per nome, senza inutili sovrastrutture di titoli accademici .
Amare Pietramelara costituisce, è ovvio, il primo dovere per chi si propone alla guida della comunità che vi dimora. Ma, vi siete mai chiesti come si fa ad amare il proprio paese se non si conoscono le persone, se non si ha almeno una vaga idea di come siano composte le famiglie e le parentele, se non si conoscono le località ed i toponimi che, nel corso di una storia plurimillenaria, sono stati ad esse attribuiti, se non si possiede l’abitudine di frequentare la piazza: come si fa ad amare Pietramelara, se non si è nemmeno di Pietramelara?
Per quello che mi riguarda, penso che la mia “pietramelaresità” traspaia da qualsiasi gesto ed espressione: a volte, devo confessarlo, essa è divenuta anche motivo di ironia - se non di scherno - per i miei compagni di lavoro, persone che – per forza di cose - non possono rendersi conto di quanto questo sentimento sia presente in tutti noi. Vado ripetendo che il dialetto Pietramelarese è da sempre il modo che preferisco per esprimermi, specie quando mi trovo tra persone che gradiscono la riscoperta di termini e modi di dire del passato. Nel corso degli anni che ho vissuto ho sentito sempre aumentare il bisogno di trascorrere parte del mio tempo libero in piazza, ad ascoltare le persone, a capirne i problemi e gli interessi; ho sentito crescere l’esigenza di percorrere a piedi, in bicicletta o, al limite, con la mia vecchia moto, le nostre contrade rurali, per assaporare gli odori ed i colori di una natura lussureggiante, per leggere e studiare un paesaggio frutto della saggia collaborazione fra l’uomo e la natura.
Se me lo consentite, anche la mia passione per lo scrivere è stata dettata, imposta dall’esigenza di far conoscere ad un gran numero di persone le tante cose belle e buone di Pietramelara, nonché a stimolare e far aumentare in chi la amministra l’attaccamento alla missione che gli è stata affidata. Non so in quale misura i miei scritti abbiano centrato questo obiettivo ma, vi assicuro, le intenzioni erano le migliori: collaborare con la stampa locale ha costituito per me un’esperienza esaltante , ricca di motivazioni.
Essere e sentirsi di Pietramelara, a mio modo di vedere, significa anche e soprattutto preferire che chi mi rivolge la parola mi chiami per nome, senza inutili sovrastrutture di titoli accademici .
Amare Pietramelara costituisce, è ovvio, il primo dovere per chi si propone alla guida della comunità che vi dimora. Ma, vi siete mai chiesti come si fa ad amare il proprio paese se non si conoscono le persone, se non si ha almeno una vaga idea di come siano composte le famiglie e le parentele, se non si conoscono le località ed i toponimi che, nel corso di una storia plurimillenaria, sono stati ad esse attribuiti, se non si possiede l’abitudine di frequentare la piazza: come si fa ad amare Pietramelara, se non si è nemmeno di Pietramelara?
domenica 1 settembre 2013
PIANETA GIOCHI
Viaggiando, viaggiando fra l’attuale galassia e quella del passato prossimo (vedi su questo blog “Due galassie” , 30 ottobre 2011), la fantastica astronave della memoria potrebbe anche far tappa sul pianeta “Giochi”.
Soffermandomi a considerare nella mente, oggi, bambini, adolescenti e giovani (ma anche qualche adulto) concentrati all’inverosimile su uno smartphone o una play station, dal finestrino dell’astronave e dal mio punto di vista, non potrei fare a meno di osservare quanto più aggreganti e divertenti fossero i nostri giochi, quelli a cui abbiamo giocato in interminabili e bellissimi pomeriggi, con il sole ancora alto nel cielo o, appena finito un temporale, come rischizzati in strada, oppure ancora “fore Sant’Austinu” (in Piazza Sant’Agostino), aspettando l’orario del catechismo, da noi detto “ ’a luttrina” (dottrina).
Praticati in strada, dicevo, su una piccola piazza o ai margini di un campo coltivato i giochi di allora non erano mai solitari: si andava dalla “campagnella” al “padrone del marciapiede” , dalla “bandierina” (ruba bandiera) al “ciucciu ‘nterra” , e così via. Essi esaltavano, appunto la funzione aggregante del gioco, cosa che, con l’evoluzione sociale e la massiccia introduzione dell’elettronica nelle attività ludiche, è andata definitivamente perduta. Ma, non solo … impegnavano fortemente la mente ed il corpo e non solo i polpastrelli! In altre parole la faceva da padrone quel connubio di fisicità, esperienza e intelligenza che si profondeva nel gioco, come nel citato “ciucciu ‘nterra” (VEDI FOTO), in cui veniva esaltata la capacità di resistere (al peso) di chi stava “sotto” e l’abilità nel saltare di chi era sopra; o anche e la fisicità insieme alla memoria come nell’ ormai quasi del tutto dimenticato “ a chi è primu è primu monta” consistente nel dover saltare i compagni “alla cavallina” e mentre si saltava recitare anche una breve filastrocca e, mentre si procedeva nei livelli di gioco, il salto e la filastrocca divenivano via via più difficili; una sorta di metafora della vita, insomma!...che dire poi Il nascondino o “celariegliu”, fatto di capacità di nascondersi e mimetizzarsi e velocità nella corsa? …dei “quattro cantoni”, della “palla avvelenata” e della “palla prigioniera”?
Descrivere ora l’intero corpo di regole che i giocatori in erba si erano dati e tramandati oralmente per generazioni, sarebbe un esercizio impegnativo e, tutto sommato, poco gradito ai pregiati “quattro lettori” di questo “blog scribacchiato” ed anche , francamente, impossibile dato il tempo trascorso; rimane, però, una inguaribile (sigh) e struggente nostalgia per quelle ore trascorse insieme, per quelle sonore risate e per quei richiami imperiosi delle mamme a ritirarsi, quando il sole cominciava a calare.
Soffermandomi a considerare nella mente, oggi, bambini, adolescenti e giovani (ma anche qualche adulto) concentrati all’inverosimile su uno smartphone o una play station, dal finestrino dell’astronave e dal mio punto di vista, non potrei fare a meno di osservare quanto più aggreganti e divertenti fossero i nostri giochi, quelli a cui abbiamo giocato in interminabili e bellissimi pomeriggi, con il sole ancora alto nel cielo o, appena finito un temporale, come rischizzati in strada, oppure ancora “fore Sant’Austinu” (in Piazza Sant’Agostino), aspettando l’orario del catechismo, da noi detto “ ’a luttrina” (dottrina).
Praticati in strada, dicevo, su una piccola piazza o ai margini di un campo coltivato i giochi di allora non erano mai solitari: si andava dalla “campagnella” al “padrone del marciapiede” , dalla “bandierina” (ruba bandiera) al “ciucciu ‘nterra” , e così via. Essi esaltavano, appunto la funzione aggregante del gioco, cosa che, con l’evoluzione sociale e la massiccia introduzione dell’elettronica nelle attività ludiche, è andata definitivamente perduta. Ma, non solo … impegnavano fortemente la mente ed il corpo e non solo i polpastrelli! In altre parole la faceva da padrone quel connubio di fisicità, esperienza e intelligenza che si profondeva nel gioco, come nel citato “ciucciu ‘nterra” (VEDI FOTO), in cui veniva esaltata la capacità di resistere (al peso) di chi stava “sotto” e l’abilità nel saltare di chi era sopra; o anche e la fisicità insieme alla memoria come nell’ ormai quasi del tutto dimenticato “ a chi è primu è primu monta” consistente nel dover saltare i compagni “alla cavallina” e mentre si saltava recitare anche una breve filastrocca e, mentre si procedeva nei livelli di gioco, il salto e la filastrocca divenivano via via più difficili; una sorta di metafora della vita, insomma!...che dire poi Il nascondino o “celariegliu”, fatto di capacità di nascondersi e mimetizzarsi e velocità nella corsa? …dei “quattro cantoni”, della “palla avvelenata” e della “palla prigioniera”?
Descrivere ora l’intero corpo di regole che i giocatori in erba si erano dati e tramandati oralmente per generazioni, sarebbe un esercizio impegnativo e, tutto sommato, poco gradito ai pregiati “quattro lettori” di questo “blog scribacchiato” ed anche , francamente, impossibile dato il tempo trascorso; rimane, però, una inguaribile (sigh) e struggente nostalgia per quelle ore trascorse insieme, per quelle sonore risate e per quei richiami imperiosi delle mamme a ritirarsi, quando il sole cominciava a calare.
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