Scribacchiando per me

Scribacchiando per me
il blog di un pietramelarese

sabato 22 giugno 2013

DOMENICHE A PIEDI

Non so come abbia fatto a dimenticarmene fino ad adesso, e non avervene ancora parlato! Eppure la memoria, l’avrete notato, è l’unica cosa che non mi difetti: si tratta una storia risalente a quaranta anni or sono, esattamente al 1973, roba che solo chi, tra i miei quattro lettori, ha parecchi capelli grigi sulle tempie può ricordare. Ero poco più che un bambino al tempo, forse portavo ancora i calzoncini corti, ma il ricordo è netto, come se la cosa fosse avvenuta solo ieri: a causa di una serie di tensioni internazionali in Medio Oriente, oggi ancora non risolte, molti governi dei Paesi occidentali, compreso quello italiano, furono costretti ad emanare disposizioni volte al drastico contenimento del consumo energetico, in seguito allo choc petrolifero (aumento repentino del prezzo del greggio nel 1973). La cosa ebbe forte risonanza mediatica e prese il nome di “Austerity”, e si manifestò a cavallo tra il 1973 ed il 1974. Le misure varate ebbero un impatto tangibile sul modo di vita degli italiani. Esse comprendevano un forte aumento del prezzo dei carburanti, l'obbligo di ridurre la pubblica illuminazione del 40% e di tenere spente insegne e scritte pubblicitarie. Bar e ristoranti dovevano chiudere entro la mezzanotte, mentre ai locali di pubblico spettacolo veniva imposta la chiusura entro le ore 23. Allo stesso orario dovevano essere conclusi anche i programmi televisivi. La velocità sulle strade veniva limitata a 50 km/h nei centri urbani, 100 kmh sulle strade extraurbane e 120 km/h sulle autostrade.
La disposizione di maggior impatto fu il divieto di circolazione nei giorni festivi dei mezzi motorizzati, velivoli e natanti compresi. Nei numerosi articoli di giornale dedicati al tema, venne coniata la colorita espressione, che ancor’oggi qualcuno ricorda, delle cosiddette “domeniche a piedi”.
Come si sa la nostra gente è abituata a “far di necessità virtù”, e così quelle domeniche assunsero un aspetto e un fascino del tutto particolare che, a distanza di tanti anni, ancora non si cancella: chi in bicicletta, chi sui pattini, chi a piedi, ognuno mostrò di non aver sofferto più di tanto le costrizioni imposte “ob torto collo” da quel momento particolare. Io e mia sorella acquistammo un paio di pattini nuovi, altri in famiglia addirittura si provvidero di un pony ed di un calesse nuovo di zecca, destinato alle uscite domenicali. Altri ancora, garzoni di fabbro e di ciclisti, ragazzi più o meno della nostra età, facendo ricorso ad un ingegno innato che emerge in periodi particolari, si improvvisarono costruttori di artigianali tandem; e poi li vedevi orgogliosi e tronfi procedere a bordo delle proprie “creature”, per farli felici bastava chieder loro di fare un giro! Pietramelara, e specialmente il nastro lungo e dritto di via San Pasquale, in quei pomeriggi domenicali si riempiva di gente dal volto sereno e scanzonato che mostrava evidente piacere da quell’insolita situazione. Si vedevano famiglie intere passeggiare, e dai volti traspariva la gioia per quell’occasione insolita per stare insieme, all’aria aperta.
Ripensare a quel tempo oggi, mentre l’intera umanità si dimena in una crisi economica che ha assunto dimensioni planetarie, fa sorridere amaramente. Allora bastò all’Italia, appena uscita dal boom economico dei floridi anni sessanta, usare la fantasia e stringere un poco la cinghia, oggi sembra che non ci siano misure che tengano. Eppure, oggi come allora, possiamo e dobbiamo credere che una via di uscita ci sarà e, che dopo ogni tempesta, anche la più furiosa, il sole ritorni a splendere nel cielo azzurro e terso.

martedì 18 giugno 2013

POMERIGGIO AL MARE

Ne avevo proprio bisogno: un giorno di ferie, così, tanto per stemperare la tensione, interrompere il frenetico tran tran quotidiano, riposare la mente dedicando il pensiero a cose diverse.
Sono uscito di buon mattino, mi attendevano l’orto e l’oliveto, irrigazioni nell’uno, sarchiature manuali nell’altro; una grande faticata e tanto, tanto sudore versato. Ad un certo punto il caldo ha cominciato a farsi sentire imperioso ed ho capito che era venuto il momento di tornare a casa.
Una doccia al volo e, già tutto (o quasi) era pronto: colazioni, costumi, teli e … via, si è partiti alla volta del mare. Viaggio tranquillo, lido pressocchè vuoto, abbiamo dovuto anche fare da bagnini aprendo sdraio, lettini ed ombrelloni, ma, si sa, anche questi imprevisti possono rendere particolarmente piacevole un momento vissuto in famiglia. Di sole ne avevo già preso tanto, stamattina in campagna, ed allora la mia giornata balneare è stata dedicata al più assoluto e totale relax, la sdraio e un libro all’ombra. Sono rimasto in tale assetto per ore. L’aria era profumata di quell’ odore salso, tipico del litorali marini, il silenzio del tutto insolito per il luogo conferiva carattere di particolare incanto. Il bagno? Non era il caso, dato che l’acqua non aveva aspetto rassicurante; ed allora una passeggiata “in solitaria”, con la schiuma delle onde che si infrangeva tra i piedi e, infine un’ulteriore supplemento di lettura, questa volta sul bagnasciuga, dato che il sole, nel frattempo, era divenuto molto più “umano”.
Credo che siano queste le cose che ti riconciliano con la vita: poche pretese, le persone che ami , accettare anche qualche contrattempo e la ricerca sincera della serenità, che a volte si mette a “fare capolino”.

domenica 9 giugno 2013

PARLENN' CU RISPETTU (o...della pudicizia rurale)


Nel viaggio immaginario ed emozionale all’interno della civiltà contadina, nel quale lo stesso vostro blogger “scribacchiante” è, ad un tempo, guida e viaggiatore incantato, un aspetto ancora non considerato è quello della pudicizia. Un valore questo, una categoria che oggi, nel linguaggio giornalistico va sotto il nome di “pruderie”; secondo una definizione tratta dal web “Il termine starebbe a indicare moralismo di stampo puritano, perbenismo un po’ bigotto, castigatezza oltre misura, esagerato pudore, insomma”. Proprio su questo aspetto della “pudicizia rurale” vorrei soffermarmi: quella dei nostri nonni è stata vera morigeratezza, oppure si tratta solo di una questione di facciata? O meglio: il pudore, la pudicizia sono sentimenti più autentici oggi, al livello di minimo storico, o ieri? Come al solito gli aspetti da considerare sono molteplici e l’analisi rischia di divenire pesante e poco digeribile, mi limiterò, quindi, come al solito, solo a ripercorrere con la memoria ciò che ricordo.
Il pudore traspariva da ogni atto di quella tramontata civiltà, ed a volte ripensarci fa sorridere. La cosa veniva poi portata agli estremi quando un dialogo si stabiliva fra individui appartenenti a diverse classi e categorie, nettamente separate secondo la rigida stratificazione sociale del tempo. In tali contesti, quando proprio non si poteva fare a meno di citare nel discorso parti anatomiche, atti o anche animali considerati “impuri”, si cercava di minimizzare la cosa con la scusante “parlenn’ cu rispettu”, ed allora: “parlenn cu rispettu, i pieri”, “parlenn cu rispettu, stevu a ffà i fatti miei (facevo i miei bisogni, ndr)”, “parlenn cu rispettu, ju puorcu”. Era questo un modo come un altro di cercare di non offendere l’interlocutore altolocato; ma … pensateci: come se tale signore, altolocato o meno che sia stato, non avesse i piedi anch’esso, non faceva mai i propri bisogni e non avesse mai visto un maiale o mangiato le saporite carni, ecc.
Che dire poi di tutte le faccende attinenti al sesso? In tal caso il pudore nel discorso assumeva i tratti dell’omertà! Come in tutti i discorsi che coinvolgevano l’apparato genitale femminile, le sue cicliche indisposizioni e le sue (purtroppo) frequenti malattie. La donna, nei giorni del mestruo, era considerata impura e quindi inadatta a molte faccende domestiche, come la lavorazione delle carni di maiale, quella delle bottiglie di pomodoro ecc. … ma la cosa andava trattata con la dovuta discrezione: ed allora mentre già si era iniziato a lavorare tutte insieme essa, “rea” di una fisiologica ricorrenza mensile, si avvicinava in silenzio e un quasi po’ contrita alla più anziana del gruppo, la matriarca, e le sussurrava qualcosa nell’orecchio e costei , con l’autorità derivante dal ruolo, le diceva comprensiva e severa “… e vvà, vvà”, dispensandola da ogni incombenza, le altre fingevano di non aver udito e non chiedevano alcuna spiegazione in merito all’assenza.
Quando poi la sfortuna si accaniva su qualcuna, con una malattia all’utero, alle ovaie o al seno, guai a parlarne con chiarezza ed apertura! “Se tratta r’ cos’ re femm’n”, si rispondeva severi a chi, imprudente o inconsapevole, chiedesse la causa di qualche malessere di una sorella, di una cognata o di un’amica di famiglia. Ed allora si capiva che non si poteva e non si doveva andare oltre.