Qualche giorno fa, rincasando in auto dal lavoro,
udii alla radio per la prima volta la parola “restanza”; dal web, mia
principale fonte di conoscenza apprendo che la “restanza” in senso proprio e
figurato è ciò che resta e permane; anche, ciò che avanza o non si consuma.
Tuttavia il concetto, fattosi strada
recentemente
negli studi antropologici,
con particolare riferimento alla condizione problematica del Sud d’Italia, è la
posizione di chi decide di restare, rinunciando a recidere il legame con la
propria terra e comunità d’origine non per rassegnazione, ma con un
atteggiamento propositivo.
Ero
all’oscuro dell’esistenza di un termine che in qualche modo descrivesse il mio
stato d’animo, quando esattamente il 22 marzo 2012, circa otto anni fa
scribacchiai su questo blog la nota “siete di qua?”
(http://scribacchiandoperme.blogspot.com/2012/03/siete-di-qua.html)
, nel corpo della quale tratteggiai
le
motivazioni che mi tenevano ancorato al mio paese, alla sua gente, al suo
dialetto e alla sua cultura millenaria. In quel pezzo affermavo:
“il profondo
legame con le radici, secondo un’espressione pluriabusata, determina in me una
forza in grado di resistere ad ogni sirena, anche la più allettante. Rimanere
nel posto dove sono nato mi ha permesso di crescere rendendomi conto di cosa
sono e dove sono”, quella forza che oggi apprendo si chiami “restanza”.
Perché è importante parlare di
restanza? Perché le aree rurali sono da decenni vittime di spopolamento,
cioè diminuzione della popolazione di un’area a causa dell’abbandono volontario
o forzato da parte dei suoi residenti. Questo causa un invecchiamento della
popolazione (sono giovani single e famiglie a partire), e un futuro fatto probabilmente
di "paesi fantasma", mentre
nelle città medie e nelle metropoli non c’è spazio per la gente che vuole
abitarci.
I danni non si limitano a questo:
vi è una progressiva perdita delle tradizioni, aumenta il
rischio di dissesto idrogeologico, specialmente nelle zone
montane. Eppure è fondamentale contrastare lo spopolamento, per garantire la
conservazione del patrimonio culturale dei piccoli centri, per
tutelare la produzione agricola ed enogastronomica. Non solo, sarebbe anche conveniente,
perché si possono trasformare certi luoghi in fruttuose opportunità
turistiche.
L’antropologo Vito Teti, teorico della restanza,
afferma che essa “denota non un pigro e inconsapevole stare fermi, un attendere
muti e rassegnati. Indica, al contrario, un movimento, una tensione,
un’attenzione. Richiede pienezza di essere, persuasione, scelta,
passione. Un sentirsi in viaggio camminando, una ricerca continua del
proprio luogo, sempre in atteggiamento di attesa: sempre pronti allo spaesamento,
disponibili al cambiamento e alla condivisione dei luoghi che ci sono affidati.
Un avvertirsi in esilio e straniero nel luogo in cui si vive…”.
Il mutamento epocale consiste in questo: se prima vi era il coraggio e il sacrificio
dell’emigrante che partiva, ad esso si è sostituito il coraggio di chi resta.
L’esperimento più riuscito di “restanza” e vicino
a noi, è quello di Valogno, frazione di Sessa Aurunca, in cui Giovanni Casale,
romano – ma originario del borgo – a cui si deve la rinascita del paesino attraverso
l’arte dei murales, ha deciso di
lasciare Roma e di trasferirsi nella casa paterna, per aprila a tutti e farla
diventare luogo di incontri, scambio di idee e di condivisione.
Restare, allora, non è uno slogan né un proclama.
Presuppone sapere individuare dove soffia lo spirito del Carnevale, del
rovesciamento, dell’utopia. Il paese presepe è finito, frantumato, smembrato,
esploso, svuotato. Le sue schegge hanno costruito nuovi abitati, nuovi mondi.
Molte di queste schegge tornano, profondamente mutate, all’indietro. Ma ogni
ritorno è un nuovo inizio!