E’ un momento magico e ricco di suggestioni, questo che si vive tra la fine dell’estate e le prime settimane dell’ autunno: la vendemmia.
Il mio Paese, anche se non ha mai avuto una forte e spiccata vocazionalità vitivinicola, continua a mantenere comunque una viva tradizione in tal senso. Fino a qualche decennio fa ogni famiglia, o quasi, possedeva un appezzamento vitato, una piccola vigna in cui produrre il vino da consumare in casa, per l’intero anno. Il vino allora era sostanzialmente considerato un alimento, capace di apportare nella dieta di quel tempo, povera ed essenziale, una buona quantità di energia a buon mercato. Oggi no: le superfici vitate si vanno contraendo sempre di più e resistono solo nelle zone più vocate del nostro territorio comunale; le cause quasi sempre la contrazione nel consumo di vino, la mancanza di personale adeguato per seguire, in campo ed in cantina, una produzione tanto delicata, il tramonto della tradizione. Tuttavia se ci si aggira per le vie e i vicoli, è facile e frequente imbattersi, di questi tempi , in una folata di quel piacevole e tanto caratteristico profumo del mosto in fermentazione, ed entrare a contatto con esso evoca immediatamente alla mente i ricordi legati a tale periodo dell’anno così suggestivo e caratteristico.
Ed allora riemerge l’immagine dell’arrivo delle carrette e delle “trainelle”, tirate da pazienti somari, al calar del sole, ricolme fino all’inverosimile di cassette d’uva appena vendemmiata; queste cassette, in legno di castagno in grado di contenere circa mezzo quintale d’uva, venivano scaricate e condotte nei “cellari”, locali terranei, un po’ oscuri, destinati alla vendemmia ed altre attività, ove avveniva la pigiatura e la fermentazione. Dopo qualche giorno si “ammuttava”, ossia il mosto veniva spillato e separato dalle vinacce. La famiglia si riuniva in tale occasione, e la vendemmia e tutte le operazioni consecutive erano condotte secondo un rituale rigido e codificato, tramandato oralmente di padre in figlio. L’emozione più forte, per me come per tanti ragazzi e bambini che hanno avuto la possibilità di viverla, era rappresentata dal fontanone di vino che sgorgava libero appena tolto il tappo del tino,nel nostro dialetto detto “maf’ru”, dalla caratteristica forma troncoconica; il mosto con impeto e gioioso fragore passava dal tino, detto “laviegliu”, al “ ‘nnanzilaviegliu”, un recipiente di circa cento litri, diffondendo per l’intero vicinato quei sentori e quegli aromi, che oggi i sommelier si sforzano di cercare un po’ in ogni vino posto sul mercato. La vendemmia aveva come epilogo costante la torchiatura, “a turcitura”, contraddistinta dal suono caratteristico e ritmato prodotto dal torchio, simile al tintinnare di una campana al collo di un animale al pascolo, capace di farsi udire anche a distanza. Ed era proprio tale tintinnio, nelle ore serali, a guidare ed attirare sparuti gruppi di buontemponi, picari di casa nostra, che si aggiravano di cellaro in cellaro, alla ricerca di una bevuta generosa e gratuita; “facet’ne assai” (“fatene molto”, alludendo al vino)era l’espressione grata e benaugurante che si rivolgeva al padrone di casa e a coloro che erano impegnati in tali attività, con essa si salutava e si passava oltre, in un altro cellaro, in un’altra cucina.
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