Puntuale come non mai, l’autunno è ormai giunto!... ma non si tratta dell’autunno gioioso dai variegati colori, delle calde ottobrate, dei frutti vari e dolcissimi: questo è un autunno freddo e piagnucoloso, tipico di novembre, che infonde solo tristezza. Le giornate, ormai brevi, si trascorrono con un occhio al lavoro e l’altro alla finestra, il sole fa capolino rarissimamente tra le nubi, e per lo più si nega. Avvolti e concentrati, come siamo, nei nostri pensieri , veniamo distratti all’improvviso dai fragori di un temporale: scrosci di pioggia, fitti ed intensi, saette e tuoni rompono la monotonia di mattinate e pomeriggi grigi. Anche adesso, mentre scrivo, fuori piove intensamente; inutile dire quanto sia forte la nostalgia della bella stagione, del caldo e delle giornate luminose. Dovrei prepararmi ai lavori autunnali in campagna, ma è impossibile, dato questo tempo, e anche se le condizioni lo permettessero, me ne manca la voglia. E’ incredibile quanto l’ambiente esterno con la sua mutevolezza possa influenzare i nostri stati d’animo. Un autunno di questo tipo, poi, è particolarmente poco gradito a coloro che, come chi scrive, attraversano quell’età grigia (non solo per il colore dei capelli) che va sotto il nome di “autunno della vita”.
L’inverno (della vita), è vero, non è ancora giunto, ma si sente forte il dovere e la necessità di prepararvisi! Con responsabilità, come una brava massaia che si dota di provviste varie, anche io cerco di capitalizzare quanto mi rimane a disposizione affinché, una volta giunto l’inverno, possa affrontarlo nel migliore dei modi: lo farò servendomi della salute del corpo , che spero saprò tutelare, dell’equilibrio mentale , e con la consapevolezza di me stesso e del tempo che si attraversa.
In qualche modo bisogna lasciarsi dietro le spalle i rimpianti per ciò che non è stato fatto al tempo debito, e conservare gelosamente il ricordo di istanti felici , emozioni intense, volti ed immagini che mi hanno colpito; saranno i migliori compagni, nell’inverno che mi preparo ad affrontare. Grande cura va dedicata agli affetti, mi sosterranno.
Quanto grande sarebbe la voglia di ripercorrere i passi della gioventù, con le stesse risate fragorose, con gli stessi amici, con la stessa voglia di fare, disfare, progettare per il futuro; ma il tempo per questo è ormai trascorso! Arrendersi agli anni che passano inesorabili, allora? Giammai! Un pezzo di vita mi è ancora davanti e voglio viverlo nel migliore dei modi, plasmando il destino con le “mie” mani.
Ho ancora tanto da fare, voglio farlo bene e, soprattutto, di testa mia!
Francesco, filosofo del pensiero debole
Scribacchiando per me
sabato 12 ottobre 2013
sabato 5 ottobre 2013
TEMPO DI VENDEMMIA
E’ un momento magico e ricco di suggestioni, questo che si vive tra la fine dell’estate e le prime settimane dell’ autunno: la vendemmia.
Il mio Paese, anche se non ha mai avuto una forte e spiccata vocazionalità vitivinicola, continua a mantenere comunque una viva tradizione in tal senso. Fino a qualche decennio fa ogni famiglia, o quasi, possedeva un appezzamento vitato, una piccola vigna in cui produrre il vino da consumare in casa, per l’intero anno. Il vino allora era sostanzialmente considerato un alimento, capace di apportare nella dieta di quel tempo, povera ed essenziale, una buona quantità di energia a buon mercato. Oggi no: le superfici vitate si vanno contraendo sempre di più e resistono solo nelle zone più vocate del nostro territorio comunale; le cause quasi sempre la contrazione nel consumo di vino, la mancanza di personale adeguato per seguire, in campo ed in cantina, una produzione tanto delicata, il tramonto della tradizione. Tuttavia se ci si aggira per le vie e i vicoli, è facile e frequente imbattersi, di questi tempi , in una folata di quel piacevole e tanto caratteristico profumo del mosto in fermentazione, ed entrare a contatto con esso evoca immediatamente alla mente i ricordi legati a tale periodo dell’anno così suggestivo e caratteristico.
Ed allora riemerge l’immagine dell’arrivo delle carrette e delle “trainelle”, tirate da pazienti somari, al calar del sole, ricolme fino all’inverosimile di cassette d’uva appena vendemmiata; queste cassette, in legno di castagno in grado di contenere circa mezzo quintale d’uva, venivano scaricate e condotte nei “cellari”, locali terranei, un po’ oscuri, destinati alla vendemmia ed altre attività, ove avveniva la pigiatura e la fermentazione. Dopo qualche giorno si “ammuttava”, ossia il mosto veniva spillato e separato dalle vinacce. La famiglia si riuniva in tale occasione, e la vendemmia e tutte le operazioni consecutive erano condotte secondo un rituale rigido e codificato, tramandato oralmente di padre in figlio. L’emozione più forte, per me come per tanti ragazzi e bambini che hanno avuto la possibilità di viverla, era rappresentata dal fontanone di vino che sgorgava libero appena tolto il tappo del tino,nel nostro dialetto detto “maf’ru”, dalla caratteristica forma troncoconica; il mosto con impeto e gioioso fragore passava dal tino, detto “laviegliu”, al “ ‘nnanzilaviegliu”, un recipiente di circa cento litri, diffondendo per l’intero vicinato quei sentori e quegli aromi, che oggi i sommelier si sforzano di cercare un po’ in ogni vino posto sul mercato. La vendemmia aveva come epilogo costante la torchiatura, “a turcitura”, contraddistinta dal suono caratteristico e ritmato prodotto dal torchio, simile al tintinnare di una campana al collo di un animale al pascolo, capace di farsi udire anche a distanza. Ed era proprio tale tintinnio, nelle ore serali, a guidare ed attirare sparuti gruppi di buontemponi, picari di casa nostra, che si aggiravano di cellaro in cellaro, alla ricerca di una bevuta generosa e gratuita; “facet’ne assai” (“fatene molto”, alludendo al vino)era l’espressione grata e benaugurante che si rivolgeva al padrone di casa e a coloro che erano impegnati in tali attività, con essa si salutava e si passava oltre, in un altro cellaro, in un’altra cucina.
Il mio Paese, anche se non ha mai avuto una forte e spiccata vocazionalità vitivinicola, continua a mantenere comunque una viva tradizione in tal senso. Fino a qualche decennio fa ogni famiglia, o quasi, possedeva un appezzamento vitato, una piccola vigna in cui produrre il vino da consumare in casa, per l’intero anno. Il vino allora era sostanzialmente considerato un alimento, capace di apportare nella dieta di quel tempo, povera ed essenziale, una buona quantità di energia a buon mercato. Oggi no: le superfici vitate si vanno contraendo sempre di più e resistono solo nelle zone più vocate del nostro territorio comunale; le cause quasi sempre la contrazione nel consumo di vino, la mancanza di personale adeguato per seguire, in campo ed in cantina, una produzione tanto delicata, il tramonto della tradizione. Tuttavia se ci si aggira per le vie e i vicoli, è facile e frequente imbattersi, di questi tempi , in una folata di quel piacevole e tanto caratteristico profumo del mosto in fermentazione, ed entrare a contatto con esso evoca immediatamente alla mente i ricordi legati a tale periodo dell’anno così suggestivo e caratteristico.
Ed allora riemerge l’immagine dell’arrivo delle carrette e delle “trainelle”, tirate da pazienti somari, al calar del sole, ricolme fino all’inverosimile di cassette d’uva appena vendemmiata; queste cassette, in legno di castagno in grado di contenere circa mezzo quintale d’uva, venivano scaricate e condotte nei “cellari”, locali terranei, un po’ oscuri, destinati alla vendemmia ed altre attività, ove avveniva la pigiatura e la fermentazione. Dopo qualche giorno si “ammuttava”, ossia il mosto veniva spillato e separato dalle vinacce. La famiglia si riuniva in tale occasione, e la vendemmia e tutte le operazioni consecutive erano condotte secondo un rituale rigido e codificato, tramandato oralmente di padre in figlio. L’emozione più forte, per me come per tanti ragazzi e bambini che hanno avuto la possibilità di viverla, era rappresentata dal fontanone di vino che sgorgava libero appena tolto il tappo del tino,nel nostro dialetto detto “maf’ru”, dalla caratteristica forma troncoconica; il mosto con impeto e gioioso fragore passava dal tino, detto “laviegliu”, al “ ‘nnanzilaviegliu”, un recipiente di circa cento litri, diffondendo per l’intero vicinato quei sentori e quegli aromi, che oggi i sommelier si sforzano di cercare un po’ in ogni vino posto sul mercato. La vendemmia aveva come epilogo costante la torchiatura, “a turcitura”, contraddistinta dal suono caratteristico e ritmato prodotto dal torchio, simile al tintinnare di una campana al collo di un animale al pascolo, capace di farsi udire anche a distanza. Ed era proprio tale tintinnio, nelle ore serali, a guidare ed attirare sparuti gruppi di buontemponi, picari di casa nostra, che si aggiravano di cellaro in cellaro, alla ricerca di una bevuta generosa e gratuita; “facet’ne assai” (“fatene molto”, alludendo al vino)era l’espressione grata e benaugurante che si rivolgeva al padrone di casa e a coloro che erano impegnati in tali attività, con essa si salutava e si passava oltre, in un altro cellaro, in un’altra cucina.
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