Mi convince poco, anzi mi lascia perplesso, questa storia dei furti in casa, che ormai si rinnova e si aggiorna con cadenza quasi quotidiana. Mi convince poco… si, perché ormai risulta quasi palese ed evidente che a gestire il tutto vi è una “attenta regia” pietramelarese. Queste le costanti: i furti avvengono in pieno giorno, approfittando di momenti di temporanea assenza dei proprietari, vengono preferite le zone periferiche e le case abitate da vedove e/o comunque anziani. Sono elementi questi che non possono prescindere da osservazioni ripetute e costanti sul territorio da parte di chi lo conosce, e bene!
Grande è lo sgomento che ne deriva: il solo vedere la propria casa a soqquadro (come dall’immagine di copertina), insieme alla consapevolezza di essere stati violati nelle proprie cose, genera uno stato di rabbia frammisto alla frustrazione per l’impotenza di reagire. E menomale che fino ad adesso, per una serie di coincidenze i furti sono rimasti solo furti, e che finora non c’è mai stata violenza ad accompagnare tali drammatici avvenimenti.
Qualcuno, sull’onda emozionale del momento, ha evidenziato l’importanza e l’opportunità di una rete di videosorveglianza, peraltro già sostenuta finanziariamente dal nostro comune negli anni passati ma mai decollata: a costoro va risposto che tale mezzo si rivela efficace soprattutto nei centri storici e nelle ore serali e notturne, ma il contesto delineato non è proprio quello. Cosa fare allora? … aspettare con ansia il prossimo drammatico episodio? … tapparsi in casa e rinunciare del tutto a quella socialità tipica dei nostri paesi?
Il problema – è chiaro – non può essere risolto dai singoli cittadini, neanche organizzandosi in ronde, come suggestivamente sento ripetere sui social network; tuttavia ritengo i cittadini possano egualmente rendersi protagonisti, che una nuova linea di dialogo vada stabilita con le istituzioni: comune e forze dell’ordine, ad essi va riferita ogni stranezza, ogni frequentazione ritenuta irrituale, ogni comportamento che travalica la normalità specie da parte di persone notoriamente in passato coinvolte in vicende del genere. Ne potrebbero scaturire nuove piste da indagare, anche a carico di insospettabili, e la cosa potrebbe determinare anche l’eliminazione di quella “attenta regia” di cui si parlava all’inizio.
Scribacchiando per me
sabato 26 maggio 2018
venerdì 18 maggio 2018
Ai Letizia il premio Industria Felix
Ci riempie di gioia e legittimo orgoglio il premio conferito all’Azienda Letizia Srl, sita in Contrada Pantano di Pietramelara. L’ambito riconoscimento denominato “Industria Felix” è nato nel 2015 come sperimentazione regionale in Puglia da un’inchiesta del giornalista Michele Montemurro, ed è stato consegnato nel corso di una cerimonia tenutasi ieri 18 maggio nell'aula Chiesa dell'Università LUISS Guido Carli (vedi foto di copertina).
A scegliere le migliori imprese sulla base dell’oggettività dei bilanci è un Comitato Scientifico composto, tra gli altri, dai delegati dell’Università Luiss Guido Carli e di alcune associazioni degli industriali. Il Comitato Scientifico valuta la sintesi dell’inchiesta su poco più di 70mila bilanci in relazione ad un algoritmo che individua le aziende che, nelle rispettive dimensioni, hanno registrato i migliori risultati di bilancio e incremento nelle unità lavorative impiegate.
La famiglia Letizia, da oltre un quarantennio a Pietramelara, ha creato e sviluppato nel nostro paese un’azienda fortemente legata al territorio e alle sue produzioni di eccellenza, in primo luogo la mozzarella di bufala, prodotto di punta dell’enogastronomia campana. Tuttavia la lungimiranza del capostipite Cristoforo e della coesa famiglia ha interpretato a pieno la multifunzionalità dell’azienda, spingendosi oltre: dalla selezione genetica dei capi allevati, ormai ai vertici, alla produzione rinnovabile di energia da biomasse aziendali. Credere nel territorio e nell’agricoltura, attività legata alla tradizione ma fortemente proiettata nel futuro, alla lunga ha prodotto brillanti risultati economici e riconoscimenti in ambito nazionale.
Leggo da Repubblica di ieri, in un articolo dedicato all’evento “Il sintagma “Industria Felix” vuole costituire il riconoscimento più giusto e più grato all’inventiva, allo zelo e alla determinazione di chiunque abbia inteso mettere a disposizione la propria capacità di “costruire” un’attività, dandole non solo quello sviluppo spaziale, che la fa crescere progressivamente all’interno della sfera dei propri interessi e di quelli della società alla quale il cittadino industrius appartiene, ma anche quel generoso nutrimento che la renda capace di dar frutti copiosi e redditizi in termini di benessere sociale e di progresso economico”.
Complimenti, allora, a tutti i componenti della famiglia Letizia, e che sul loro esempio anche tanti altri imprenditori del territorio sappiano cogliere le sfide legate a un mercato sempre più globalizzato ma comunque in grado di preferire la specificità di aziende, produzioni e tipicità.
A scegliere le migliori imprese sulla base dell’oggettività dei bilanci è un Comitato Scientifico composto, tra gli altri, dai delegati dell’Università Luiss Guido Carli e di alcune associazioni degli industriali. Il Comitato Scientifico valuta la sintesi dell’inchiesta su poco più di 70mila bilanci in relazione ad un algoritmo che individua le aziende che, nelle rispettive dimensioni, hanno registrato i migliori risultati di bilancio e incremento nelle unità lavorative impiegate.
La famiglia Letizia, da oltre un quarantennio a Pietramelara, ha creato e sviluppato nel nostro paese un’azienda fortemente legata al territorio e alle sue produzioni di eccellenza, in primo luogo la mozzarella di bufala, prodotto di punta dell’enogastronomia campana. Tuttavia la lungimiranza del capostipite Cristoforo e della coesa famiglia ha interpretato a pieno la multifunzionalità dell’azienda, spingendosi oltre: dalla selezione genetica dei capi allevati, ormai ai vertici, alla produzione rinnovabile di energia da biomasse aziendali. Credere nel territorio e nell’agricoltura, attività legata alla tradizione ma fortemente proiettata nel futuro, alla lunga ha prodotto brillanti risultati economici e riconoscimenti in ambito nazionale.
Leggo da Repubblica di ieri, in un articolo dedicato all’evento “Il sintagma “Industria Felix” vuole costituire il riconoscimento più giusto e più grato all’inventiva, allo zelo e alla determinazione di chiunque abbia inteso mettere a disposizione la propria capacità di “costruire” un’attività, dandole non solo quello sviluppo spaziale, che la fa crescere progressivamente all’interno della sfera dei propri interessi e di quelli della società alla quale il cittadino industrius appartiene, ma anche quel generoso nutrimento che la renda capace di dar frutti copiosi e redditizi in termini di benessere sociale e di progresso economico”.
Complimenti, allora, a tutti i componenti della famiglia Letizia, e che sul loro esempio anche tanti altri imprenditori del territorio sappiano cogliere le sfide legate a un mercato sempre più globalizzato ma comunque in grado di preferire la specificità di aziende, produzioni e tipicità.
sabato 5 maggio 2018
UNA COMPAGNA DI VIAGGIO
E’ sabato, per molti giorno non lavorativo, se ne approfitta per lo svago, per il bricolage in casa, per sistemare faccende arretrate durante la settimana, la sera poi, quando si può, si esce: locali, la movida per i giovani, birra e pizza. Ecco… proprio di questo volevo scribacchiare, della pizza, divenuta, insieme alla pasta, l'alimento italiano più conosciuto all'estero. Per amore di completezza devo dire che, per quanto amante della buona pizza, non sono particolarmente felice di andare il sabato sera in pizzeria: troppa folla, file interminabili e, per di più, qualità deludente del prodotto e del servizio proprio a causa del sovraffollamento, anche nei posti più rinomati. Meglio i giorni infrasettimanali, in cui si viene serviti nell’arco della mezz’ora (quando va male) e di sicuro la pizza è stata fatta lievitare nei tempi giusti, il forno non viene stressato, gli ingredienti e le varianti preferite sono sempre disponibili. Di sabato no: a metà serata terminano i funghi e le zucchine, il numero di avventori supera ampiamente le stime ed allora bisogna rimpastare, attendere la lievitazione. Ecco come una distensiva uscita serale di sabato può trasformarsi in una snervante attesa di ore (non esagero), e per di più con una pizza al limite dell’immangiabile!
Eppure questo alimento rappresenta una compagna di viaggio che ci accompagna dall’infanzia alla vecchiaia, è uno dei tanti fregi dei quali noi campani dovremmo, a buon diritto esser fieri: la pizza era praticamente ignota al di là della cinta urbana napoletana ancora nel XIX secolo, oggi di sicuro è divenuta “international food”, consumato in ogni continente; anche se è poi difficile mangiarne una buona allontanandosi solo un centinaio di chilometri dalla Campania.
Ha generato in me qualche perplessità il fatto che nel 2017 l'Unesco ha dichiarato l'Arte dei pizzaiuoli napoletani "Patrimonio dell'umanità”, ma la pizza mi piace, a volte la mangio anche a pranzo, nello spacco dell’orario lavorativo: il profumo che sprigiona appena uscita dal forno stimola il mio subconscio, producendo abbondante salivazione, per non parlare poi del primo boccone rovente, ma comunque gradevolissimo.
L'etimologia del nome "pizza" deriverebbe secondo alcuni, da pinsa , cioè alimento steso mediante pressione (delle mani o di un matterello).
La sua storia è lunga, complessa e incerta: le prime attestazioni scritte della parola "pizza" risalgono al latino volgare della città di Gaeta nel 997. Un successivo documento, datato 1201 presente presso la biblioteca della diocesi di Sulmona-Valva, riporta la parola "pizzas" ripetuta due volte. Già comunque nell'antichità focacce schiacciate, lievitate e non, erano diffuse presso gli Egizi, i Greci e i Romani.
Benché si tratti ormai di un prodotto diffuso in tutto il mondo, la pizza è un piatto originario della cucina napoletana. Nel sentire comune, spesso, ci si riferisce con questo termine alla pizza tonda condita con pomodoro e mozzarella, ossia la variante più conosciuta della cosiddetta pizza napoletana, la pizza Margherita.
Va detto che nel nostro dialetto, con il termine “pizza” si indicano anche le torte dolci ma, se a Napoli e dintorni le pizze sono state sempre cotte nel forno senza nessuno stampo, da noi ‘a pizza cu e pummarole si fa nel ruoto, non si usa sugo ma pomodori interi (freschi o conservati quando non è stagione), ed è indissolubilmente legata (almeno nella memoria) alla preparazione del pane fatto in casa.
Eppure questo alimento rappresenta una compagna di viaggio che ci accompagna dall’infanzia alla vecchiaia, è uno dei tanti fregi dei quali noi campani dovremmo, a buon diritto esser fieri: la pizza era praticamente ignota al di là della cinta urbana napoletana ancora nel XIX secolo, oggi di sicuro è divenuta “international food”, consumato in ogni continente; anche se è poi difficile mangiarne una buona allontanandosi solo un centinaio di chilometri dalla Campania.
Ha generato in me qualche perplessità il fatto che nel 2017 l'Unesco ha dichiarato l'Arte dei pizzaiuoli napoletani "Patrimonio dell'umanità”, ma la pizza mi piace, a volte la mangio anche a pranzo, nello spacco dell’orario lavorativo: il profumo che sprigiona appena uscita dal forno stimola il mio subconscio, producendo abbondante salivazione, per non parlare poi del primo boccone rovente, ma comunque gradevolissimo.
L'etimologia del nome "pizza" deriverebbe secondo alcuni, da pinsa , cioè alimento steso mediante pressione (delle mani o di un matterello).
La sua storia è lunga, complessa e incerta: le prime attestazioni scritte della parola "pizza" risalgono al latino volgare della città di Gaeta nel 997. Un successivo documento, datato 1201 presente presso la biblioteca della diocesi di Sulmona-Valva, riporta la parola "pizzas" ripetuta due volte. Già comunque nell'antichità focacce schiacciate, lievitate e non, erano diffuse presso gli Egizi, i Greci e i Romani.
Benché si tratti ormai di un prodotto diffuso in tutto il mondo, la pizza è un piatto originario della cucina napoletana. Nel sentire comune, spesso, ci si riferisce con questo termine alla pizza tonda condita con pomodoro e mozzarella, ossia la variante più conosciuta della cosiddetta pizza napoletana, la pizza Margherita.
Va detto che nel nostro dialetto, con il termine “pizza” si indicano anche le torte dolci ma, se a Napoli e dintorni le pizze sono state sempre cotte nel forno senza nessuno stampo, da noi ‘a pizza cu e pummarole si fa nel ruoto, non si usa sugo ma pomodori interi (freschi o conservati quando non è stagione), ed è indissolubilmente legata (almeno nella memoria) alla preparazione del pane fatto in casa.
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